Le autorità doganali ticinesi segnalarono l’ingresso nella Svizzera italiana di ventitremila profughi

Il Lago Maggiore a Gambarogno, Canton Ticino, Svizzera. Fonte: Mapio.net

L’influenza esercitata da Berlino sulla Svizzera sarebbe emersa nell’ultimo tragico biennio di guerra. Il crollo del fascismo e lo sfaldarsi del suo esercito in quei quarantacinque giorni di contenuti sussulti democratici aprirono le porte alle truppe tedesche che, in assenza di significativi episodi resistenziali, presero facilmente possesso dei principali centri a ridosso della frontiera elvetica. Quelle zone, che il fascismo mai riuscì a controllare ed assoggettare, stavano diventando infatti una calamita per centinaia di militari sbandati, ex prigionieri di guerra alleati e renitenti alla leva, come per quegli ebrei scivolati da un’insopportabile condizione discriminatoria nel baratro delle persecuzioni. Sotto questo aspetto la nascita della Repubblica Sociale segnò non soltanto il restringimento dei già esili margini di manovra italiani, ma il rovesciamento del rapporto tra un centro ora marginalizzato e una periferia diventata centrale in quegli ultimi due drammatici anni.
A pochi giorni di distanza dall’annuncio armistiziale, truppe di frontiera tedesche provenienti da Innsbruck iniziarono infatti ad occupare il frastagliato confine tra la sponda orientale del Verbano e l’alta Valtellina, sguarnito anche per le defezioni e i passaggi in Svizzera di molti finanzieri. La vicinanza e i buoni collegamenti con i principali centri dell’alta Italia richiamarono così nella regione soprattutto una variegata comunità ebraica, che iniziava a guardare alla democratica Svizzera come unica possibile via di salvezza dal rincrudimento legislativo del neofascismo repubblicano. D’altronde sia la fuga di notizie sulla strage di Meina, ma soprattutto l’ordine di polizia di novembre – che prevedeva l’arresto e il concentramento di ebrei in campi provinciali – non lasciavano loro altra possibilità che tentare il passaggio clandestino del confine. Nell’arco di sei mesi, tra il 12 settembre 1943 e il 23 marzo 1944, le autorità doganali ticinesi segnalarono l’ingresso nella Svizzera italiana di ventitremila profughi, di cui oltre tremila ebrei, quattromila prigionieri di guerra evasi, quasi quindicimila disertori italiani o sedicenti tali e oltre un migliaio di profughi politici (Koller 1996). Di questo contingente quasi la metà fu respinto in Italia, dove la chiusura e il controllo delle frontiere da parte tedesca avrebbero reso quasi vano ogni ulteriore tentativo di fuga, aprendo quindi la strada ad arresti e deportazioni indiscriminate.
Nel tentativo di frenare questi espatri, stroncando anche la formazione delle prime bande resistenziali, il 16 settembre 1943 la regione compresa tra la sponda orientale del lago Maggiore e il passo dello Stelvio fu riorganizzata in quattro zone, assegnate a commissari distrettuali tedeschi che avrebbero sopperito all’inaffidabile presenza italiana. Entro la seconda metà del mese infatti tutti i punti nevralgici tra le province di Varese e Sondrio vennero chiusi al transito. La popolazione civile, avvolta in un’atmosfera di completa apatia, contrastata dalla formazione dei primi e sparuti gruppi partigiani, assistette impotente a queste condizioni di asservimento, di fronte alle quali i militari italiani cercarono di ritagliarsi effimeri spazi di manovra. Un tentativo che trovò nella Guardia Nazionale Repubblicana, il nuovo organismo militare nato dalle ceneri della Milizia Volontaria, un rinnovato strumento di controllo e gestione del potere. Nonostante qualche atto di sabotaggio e alcune diserzioni puntualmente registrate nei notiziari tedeschi, i risultati non si fecero comunque attendere. Una nota del Comando 2a Legione GNR “Monte Rosa” del marzo 1944 riportava ad esempio la cattura nei mesi precedenti di centodiciassette prigionieri di guerra sorpresi tra il lago Maggiore e la Val Chiavenna, di centotrentasette ebrei, un centinaio di favoreggiatori, trafficanti di oro, armi e pubblicistica antifascista.
Gli arresti non attenuarono tuttavia quelle violazioni incoraggiate dalla recrudescenza legislativa e dal lassismo di alcuni finanzieri, accusati dalle camicie nere di favoreggiamento all’espatrio e di traffici illeciti. Soprattutto nelle zone di facile accessibilità come il Comasco, dove si profilavano facili e cospicui guadagni, anche “i Carabinieri e gli Agenti di PS addetti allo specifico compito di frontiera – annotava sul finire del 1943 la prefettura di Como – anziché impedire il traffico clandestino di persone e di cose, lo hanno, specie nella seconda e terza decade di settembre, favorito apertamente anche con l’incitamento agli sbandati a riparare in Svizzera”27. Queste collusioni, evidenti in particolare attorno alla regione dei laghi prealpini, alimentarono traffici ed espatri di profughi anche dalle provincie occidentali cadute sotto vigilanza tedesca, soprattutto dopo lo sbarco alleato nella Francia meridionale. “A partire dalla fine di agosto affluiscono nell’alta Valle [d’Aosta] ingenti rinforzi: nella zona del Piccolo San Bernardo si contano 2000 tedeschi […] rafforzati da due batterie della San Marco con 500 uomini; 130 tedeschi presidiano il Col de la Seigne, 50 sono a Courmayeur, 900 tra Pré-Saint-Didier e Saint Pierre” (Nicco 1995, 198).
Uno schieramento imponente che limitò anche i primi timidi sforzi popolari rivolti soprattutto agli ex prigionieri di guerra. “Treize prisonniers alliés qui cherchaient s’évader en Suisse, tombèrent dans les mains de la garnison nazi-fasciste de St. Jacques. Les malheureux venaient de Chamois, d’où un jeune homme s’était chargé de les accompagner au-delà de la frontière Suisse […]. Les deux, qui se sauvèrent, vècurent près de deux mois à Ayas, cachés dans quelques mayens auprès de quelques familles de Crest et Cunéaz” (Passerin d’Entreves 1975, 209). Chi non riuscì a trovare rifugio o varcare gli alti passi valdostani venne preso in carico invece dai nascenti comitati di liberazione piemontesi, che stavano organizzando i primi canali di fuga attraverso i più agevoli percorsi del Verbano e del basso Lario. Un’organizzazione solidaristica alla quale concorsero schiere di anonimi cittadini che, in quella multiforme rete assistenziale e resistenziale, vi scorgevano una possibilità di riscatto da anni di sudditanza e immobilismo.
A Castel Azzanese, vicino Cremona, il capostazione e il consiglio comunale favorirono per esempio il trasferimento in Svizzera di trentasette prigionieri internati nel vicino campo di lavoro, mentre nei pressi di Vercelli un privato cittadino pagò lautamente delle guide perché accompagnassero ai valichi elvetici alcune decine di ex prigionieri alleati passando dal Luinese (Cavaglion; Perona 2005, 177).
Il giorno 9 settembre 1943 – informava uno sfollato torinese attivo nel CLN di Vercelli – mi sono recato, assieme ad alcuni amici, alla cascina Sartirana dove ho radunato, con l’ausilio degli amici stessi, circa 150 prigionieri alleati, che fatti dividere in piccoli gruppi di 12 o 13, si pensò immediatamente a metterli al riparo da ogni pericolo (furono nascosti nelle risaie della Lomellina). Nello stesso giorno, mi sono premunito di mandare un famigliare in paese allo scopo di ottenere vestiario civile, cibo e altri generi di conforto. Così come me, fecero anche gli altri amici che avevano preso in consegna il proprio gruppo. Molti indumenti si recuperarono da parte della popolazione, così come non mancò il cibo. […] Sempre con gli amici, decisi di portare alla frontiera i prigionieri stessi […]. Infatti, unitamente con mia moglie, incominciai il giorno 18 stesso mese a portare il primo scaglione composto di otto prigionieri. Partii da Valle Lomellina usufruendo della ferrovia e, assieme a loro, raggiunsi il mattino seguente Luino. Dopo di che, gli insegnai la strada per la Svizzera, cosa del resto facile a conoscere, in quanto una moltitudine di soldati e borghesi si avviavano per quella meta <28.
Sempre dall’alto Varesotto transitarono nel dicembre 1943 una parte dei quasi duecento militari liberati da membri del CLN piemontese, provenienti dai campi di prigionia sparsi tra Novarese, Alessandrino e i dintorni di Mortara <29. Non pratici delle località, e soprattutto di sicuri passaggi per espatriare, i soldati furono nascosti ed equipaggiati dalla popolazione locale, poi avviati verso il confine eludendo gli ultimi arroganti tentativi fascisti di sorveglianza. Il 24 maggio 1944, “ritenuta la necessità urgente di provvedimenti eccezionali per la sicurezza pubblica alle frontiere durante lo stato di guerra” <30, venne istituita una “zona chiusa” lungo il confine italo-elvetico, che dal settore francese si spingeva fino al passo Resia nelle alpi Venoste. Si trattava di una fascia territoriale profonda circa tre chilometri, libera da popolazioni e destinata a perquisizioni e rastrellamenti di sovversivi, delinquenti comuni ed ebrei (Giannantoni 1984, 273). Un provvedimento severo ma dai modesti risultati, destinato a punire popolazioni che, al di là di qualche deplorevole caso delatorio, mai assicurarono una piena e convinta adesione al fascismo e alle sue ramificazioni periferiche.
[NOTE]
28 Istituto Storico della Resistenza, Torino, Fulvio Borghetti, sc. 1. Pacchiella Albano, 21 giugno 1945.
29 Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Bacciagaluppi, sc. 2. Final report, p. 9
30 Cfr. decreto legislativo del duce del 24 maggio 1944 n. 282 pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale d’Italia” n. 139 del 15 giugno 1944.
Francesco Scomazzon, Governare al confine: il fascismo alla frontiera elvetica (1925-1945), in “Storia e Futuro”, n. 30, novembre 2012