In realtà, quello degli IMI era considerato dagli alti gerarchi nazisti un buon affare

Le cifre disponibili sulla situazione del Regio esercito dopo l’8 settembre 1943 ci dicono che: «All’indomani dell’armistizio i tedeschi disarmano in poco tempo circa 1.007.000 militari italiani. Di questi circa 197.000 scampano alla deportazione dandosi alla fuga o grazie agli accordi presi al momento della capitolazione di Roma, mentre i rimanenti 810.000 circa (di cui 59.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani), vengono messi di fronte alla scelta tra adesione e prigionia nei lager in Germania e nei territori occupati (Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Francia, Ucraina e Bielorussia) […]. Entro la primavera del 1944, circa 197.000 uomini (il 24% del totale) si dichiarano disponibili a prestare servizio per la Germania o aderiscono alla Rsi, direttamente sul campo o dopo l’arrivo nei lager. In totale, quindi, un numero compreso tra 600 e 650.000 militari […] rifiuta di continuare a combattere per il nazismo e il fascismo e resta nei campi di prigionia e di lavoro coatto con la qualifica di Imi […] <567».
L’esercito italiano, dunque, costretto ad una posizione di attesa, in base all’ordine ambiguo di “difendersi ma non attaccare”, cadde vittima del tentativo di adescamento e di annientamento da parte dei nazisti e dei fascisti dopo il voltafaccia operato dall’ex alleato.
Dal diario del Serg. Mario Rapisarda <568:
«9 settembre – ore 4.
[…]
Nel consegnare il fucile ai tedeschi ebbi una fitta al cuore, come se mi dividessi da un amico. Era l’Italia che in quel momento si disarmava e restava completamente in balia dello straniero. […] Quale atteggiamento prenderà la Germania nei nostri riguardi?».
Con la lusinga del ritorno a casa o di un migliore trattamento di vitto e alloggio, i tedeschi, avvalendosi dei collaborazionisti fascisti, condussero una vera e propria campagna di propaganda con lo scopo di far passare i militari dell’esercito italiano tra le fila della Wehrmacht o dei repubblichini, per accrescere le loro divisioni e per rilanciare l’immagine del fascismo e di Mussolini, che poteva funzionare come deterrente contro i movimenti di ribellione che si andavano sviluppando in varie parti d’Italia. La Rsi, da parte sua, intendeva riacquistare prestigio agli occhi degli alleati nazisti, ai quali si riproponeva di consegnare un nutrito numero di combattenti. Il Comando Supremo tedesco aveva infatti previsto l’addestramento in Germania di quattro divisioni – la San Marco, la Monterosa, la Littorio e l’Italia – composte da uomini reclutati nei campi di prigionia e da militari di leva che, una volta tornati in Italia, dal novembre 1943, avrebbero costituito il primo nucleo del futuro esercito della Repubblica Sociale. Tutto questo venne messo a punto contando su un’adesione pressoché totale da parte dell’esercito. Ma le aspettative furono deluse, dal momento che la gran parte di loro si rifiutarono di collaborare e, tra loro, si contano 27.000 ufficiali <569. Questi ultimi, in particolare, furono messi più e più volte di fronte alle seguenti alternative: arruolarsi come «volontari nelle formazioni SS tedesche», «lavorare in Germania come lavoratori obbligati ma pagati», oppure «restare in Germania come prigionieri, o meglio come internati <570». Con la denominazione di “Internati Militari Italiani”, come si vedrà approfonditamente in seguito <571, Hitler si rifiutò di considerare i prigionieri italiani come cittadini di una Potenza internazionale, dal momento che non riconosceva dignità giuridica allo Stato italiano del Sud Italia, da poco sotto la protezione degli Alleati, attribuendo loro una formula non contemplata negli ordinamenti internazionali e sottraendoli così alla tutela delle norme previste dalla Convenzione di Ginevra. Ciò gli permise di servirsi deliberatamente di una forza lavoro enorme che intervenne in ausilio dell’industria bellica e mineraria tedesca <572, disponendone lo sfruttamento «secondo modalità cruente e ideologicamente connotate <573». L’Italia non doveva essere più essere considerata, anche agli occhi dell’opinione pubblica, come un “alleato incerto” bensì come un “traditore badogliano”; d’altronde, anche la Rsi – come si vedrà – era di fatto un “amico sottomesso” <574, del cui ruolo lo stesso governo di Salò non mancò di lamentarsi – all’inizio del 1945 – «quando, dopo aver sostenuto per 16 mesi la parte dell’amico sottomesso, giunse alla conclusione che i tedeschi dovevano decidersi finalmente a non considerare più come “preda bellica” il “territorio della Repubblica, i suoi uomini e i suoi beni” <575».
In realtà, quello degli IMI era considerato dagli alti gerarchi nazisti un buon affare, che fruttava sia dal punto di vista politico che economico: «Una delle ragioni – se non la più forte – alla base del declassamento dei prigionieri italiani fu l’indignazione nazionale per il supposto “tradimento” dell’8 settembre 1943, sentimento che la propaganda tedesca seppe strumentalizzare in modo abile e articolato. Conformemente allo schema dicotomico – “fascisti” versus “badogliani” – i militari italiani internati non più disposti a continuare la guerra a fianco dell’ex alleato vennero considerati nemici del regime, e quindi denigrati come un esempio politico e militare quanto mai negativo. Servendosi del caso italiano venne vividamente evocata la visione di un popolo ridotto alla sconfitta in uno stato di completo asservimento. Sulla base di tale premessa, non tardò a svilupparsi a tutti i livelli l’idea di una ritorsione mediante l’educazione al lavoro <576».
La formula standard del testo di fedeltà (cosiddetta “Dichiarazione d’impegno”) proposto dai nazisti, insieme con i collaborazionisti fascisti, recitava: «Aderisco all’Idea repubblicana dell’Italia fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a impegnare senza riserve fino alla vittoria finale le mie forze lavorative in Italia nella lotta contro il nemico dell’Italia repubblicana fascista del Duce del Reich Germanico. Il contratto si scioglie con la pace o con l’armistizio <577».
Il rifiuto della gran parte dei militari italiani rispondeva a motivazioni diverse, non sempre appoggiate su un orientamento rigorosamente e consapevolmente antifascista. In un primo momento, infatti, prevalse la stanchezza e la sfiducia nella prosecuzione di una guerra che, da breve e vittoriosa quale era stata presentata, si era rivelata invece un disastro. Nondimeno furono il carisma e l’influenza degli ufficiali e spingere verso la non adesione, per cui si innescarono dei meccanismi di imitazione di quello che avrebbero scelto i compagni più autorevoli. Con il passare delle settimane e di fronte a ripetute richieste e minacce da parte dei tedeschi, le motivazioni si fecero più strutturate e compresero un’aperta critica al regime fascista, anche da parte di chi aveva alle spalle un passato attivo e convinto con il regime. In molti casi, si verificò una revisione delle proprie convinzioni o una maturazione di idee nuove che esulavano dai (dis-)valori fascisti a cui la maggior parte di loro, giovanissimi, erano stati educati. Il giuramento di fedeltà al Re e alla Patria aveva un grande valore per i militari italiani, che vedevano così controbilanciata l’accusa di tradimento (“traditori badogliani”) che era stata loro mossa subito dopo l’annuncio dell’Armistizio. Questa era la motivazione più forte anche nei generali detenuti nel lager 64Z di Schokken <578, il cui rifiuto ad aderire pesò molto in termini di credibilità e legittimazione del nuovo esercito della Rsi <579. Non va dimenticata comunque la percentuale di optanti <580 che, seppur minoritaria, non è trascurabile <581. In questo caso, le motivazioni furono soprattutto di natura politico-ideologica, perlomeno nelle fasi iniziali. La seconda ondata di adesioni, invece, era influenzata dalla nascita della Rsi, che costituì un nuovo riferimento istituzionale e mise in discussione per molti militari la validità del giuramento al Re. La fame, il freddo e la fatica fecero sì che l’impatto fisico e psicologico si facesse sentire col passare dei mesi per cui aderire, per molti di loro, significava alimentare la speranza di vedere migliorate le condizioni di vita o, anche, un eventuale ritorno a casa. Non erano comunque scelte condotte in modo lineare, perché in non pochi casi ci fu anche chi cambiò idea nel corso del tempo, complice l’influenza della propaganda e delle lettere da casa, dove pure le poche informazioni che arrivavano contribuivano a orientare le famiglie in un senso o in un altro. È necessario precisare, tuttavia, che le situazioni variavano di molto da campo a campo, a seconda delle circostanze e dell’asprezza delle condizioni di detenzione <582 […]
[NOTE]
567 AVAGLIANO M., PALMIERI M., I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945), il Mulino, Bologna, 2020, pp. 13-14. Le stime sui numeri dei militari italiani dell’esercito catturati e internati dai tedeschi differiscono in realtà tra una fonte e l’altra. Sommaruga, per esempio, parla di 716.000 Imi, ai quali aggiunge 36.000 deportati civili e 9.000 deportati razziali e religiosi, 74.000 lavoratori civili e 86.000 emigrati civili, in SOMMARUGA C., Una storia affossata…, cit., p. 2. Quelle riportate nel testo sono le più verisimili, anche se non esenti da qualche approssimazione, come puntualizzano gli stessi autori.
568 Cfr. RAPISARDA MARIO (MG/Adn), Calvario di Masse (memorie di un prigioniero), ADN, dattiloscritto, come cit. in LORENZON E., op. cit., p. 147.
569 Cifra tratta da: PALMARIN S., La “Resistenza bianca”. Internati Militari Italiani dopo l’8 settembre 1943, vol. X, a cura della Federazione Provinciale dei Democratici di Sinistra di Padova “Enrico Berlinguer”, con la collaborazione del Centro Studi “Ettore Luccini”, 2003, p. 13. Basandosi sui dati forniti da Sommaruga C., l’autrice parla di 810.000 militari catturati, dei quali 716.000 rifiutarono di collaborare e, tra questi, gli ufficiali sopraccitati.
570 Tale proposta è registrata nel diario del Ten. Alberto Valsecchi in data 13 settembre nel campo di Marienburg. Cfr. VALSECCHI A., Diario dell’internato tenente Valsecchi Alberto, Settimo Sigillo, Roma, 1999, pp. 14-15.
571 La condizione giuridica degli IMI e le conseguenze che essa comportò durante i mesi di internamento verranno approfondite nel Cap. IV, parr. 4.1.1., 4.1.2., 4.1.3.
572 Stando ai numeri riportati da Gerhard Schreiber, «alla data del 1° febbraio 1944 si trovavano nella zona di operazioni dell’Esercito sul fronte orientale 8.481 internati militari. Sempre quello stesso giorno risultavano presenti nei Lager situati nel territorio soggetto alla giurisdizione del Comando Supremo della Wehrmacht non più di 607.331 uomini. Si ottiene così un totale complessivo di 615.812 italiani rinchiusi ancora nei campi di prigionia». Così, SCHREIBER G., op. ult. cit., p. 455.
573 Cfr. Labanca N. (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento: Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), Le Lettere, Firenze, 1992, come cit. in LORENZON E., op. cit., p.137.
574 Le espressioni “alleato incerto”, “traditore badogliano” e “amico sottomesso” sono tratte SCHREIBER G., Dall’“alleato incerto” al “traditore badogliano”, all’“amico sottomesso”: aspetti dell’immagine tedesca dell’Italia 1939-1945, in Amico nemico. Italia e Germania: immagini incrociate tra guerra e dopoguerra, num. Monogr. «Storia e memoria», 1, pp. 45-53, p. 49.
575 Ibidem.
576 HAMMERMANN G., Gli internati militari italiani in Germania (1943-1945), Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 50-51.
577 GIUSTOLISI F., L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma, 2004, pp. 283-284.
578 Nella struttura 64Z di Schokken in Polonia, situata in un vecchio carcere minorile già utilizzato per ospitare ufficiali di altre nazionalità, vennero internati complessivamente «3 generali d’armata, 2 generali designati d’armata, 3 generali di divisione con incarico d’armata, 48 generali e ammiragli di divisione, 11 generali di brigata con incarico di divisione, 116 generali di brigata e contrammiragli, 6 colonnelli con incarico del grado superiore, un colonnello di vascello, 8 tenenti colonnelli, 4 maggiori, 13 capitani, 9 tenenti, 5 sottotenenti circa 150 sottufficiali e soldati addetti ai servizi del campo […]. La gran parte dei vi sono anche «i comandanti di una decina di corpi d’armata di oltre 20 divisioni […] piazzate in Italia e all’estero, oltre ai responsabili di accademie, scuole, corsi di addestramento e tribunali», tra i quali compaiono anche nomi di spicco delle alte gerarchie militari (ad esempio il comandante dell’ARMIR Italo Gariboldi o il comandante dell’aviazione dell’Ego Alberto Briganti). Così, AVAGLIANO M., PALMIERI M., op. cit., pp. 140-141. Sul tema, si veda: CINTOLI P., Il ritorno da Schokken, lager 64/Z. Il diario del Generale Giuseppe Cinti, una voce della Resistenza senz’armi, Bibliotheka Edizioni, Roma, 2015.
579 Cfr. AVAGLIANO M., PALMIERI M., op. cit., p. 141.
580 Stando alle cifre più recenti disponibili – riportate da M. Avagliano e M. Palmieri – sarebbero state circa 103.000 le adesioni alla Rsi o alle forze armate tedesche, come combattenti o ausiliari lavoratori, dall’inizio della prigionia all’estate del 1944, che corrisponde a circa il 15% degli internati. A questi si aggiungono i circa 94.000 che aderirono sul campo subito dopo l’annuncio dell’Armistizio. Il 10% del totale comprende sottufficiali e militari di truppa, il 30% ufficiali, che furono esposti ad una campagna di reclutamento più lunga. Così, AVAGLIANO M., PALMIERI M., op. cit., pp. 147-148.
581 Cfr. FERIOLI A., Dai Lager nazisti all’esercito di Mussolini. Gli internati militari italiani che aderirono alla Repubblica sociale italiana, «Nuova Storia Contemporanea», settembre-ottobre 2005, n.5.
582 Per fare alcuni esempi: a Deblin aderì il 32% degli ufficiali; a Beniaminowo il 44%; Biala Podlaska costituisce un caso particolare, con un’adesione che sfiorò addirittura il 94%, mentre a Luckenwalde non optò praticamente nessuno. Si precisa, inoltre, che non tutti coloro i quali aderirono tornarono a combattere; molti di loro – circa 72.000 – vennero impiegati nelle retrovie come ausiliari militarizzati delle forze armate tedesche o come combattenti (42.000, di cui 19.000 nelle SS e 23.000 nelle quattro divisioni di addestramento della Rsi presenti in Germania). Cfr. AVAGLIANO M., PALMIERI M., op. cit., p. 148.
Angela Zavan, Il caso degli Internati Militari Italiani. Una «storia delle esperienze» tra arte, memoria e diritti negati, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari – Venezia, Anno accademico 2019/2020

Un ulteriore spunto motivazionale proviene dal fatto che la storia dei militari internati è essenzialmente storia di giovani e come tale può essere proposta anche da un angolo visuale che oggi è in progressiva valutazione e che fa sperare di coinvolgere più da vicino le categorie mentali di nuove generazioni che appaiono sempre meno sedotte dalla storia. Al contrario i giovani, a partire almeno dagli impulsi creativi illuministici, dimostrano di portare con sé un’ideologia giovanilistica capace di forti slanci rinnovatori, tanto per la naturale attitudine giovanile ad abbracciare con appassionata adesione ogni speranza di costruzione di un mondo diverso e migliore rispetto a quello dei padri; quanto per l’esigenza pratica di poggiare le concrete iniziative di rottura sull’entusiasmo morale, sul vigore fisico, sull’incosciente spensieratezza dei più giovani. Il circuito della deportazione in generale è popolato di giovani e, nonostante si tenda a dimenticarlo, giovani – ventenni, trentenni – sono gli ufficiali italiani, freschi di studi appena compiuti, che ricercano le motivazioni della resistenza nella cultura scolastica (Dante, il Risorgimento) e nel mito della prima guerra mondiale, accomunati alla truppa negli affetti di una famiglia in costruzione, nell’ansia di un lavoro da riprendere, nello sforzo di ridefinire un’etica civile e nell’aspirazione a un futuro migliore. La scelta resistenziale degli internati militari, come assunzione di responsabilità di giovani, si pone come un punto fermo nella storia dei giovani per quanto attiene i momenti di impegno attivo nella storia sociale e civile […] È evidente che nel rapporto con il testimone diretto si debba tenere conto di quelle possibili (direi inevitabili) disfunzioni mnestiche che neurologi e psicologi hanno già individuato con sufficiente precisione. Facendomi soccorrere da Daniel L. Schacter, ne ricordo soltanto alcune, che a mio avviso riguardano più da vicino i testimoni dell’internamento:la labilità, ovvero la tendenza all’indebolimento della memoria o all’oblio a causa del trascorrere del tempo, che fa sì che le nuove esperienze sovrastino quelle più antiche: ciò significa che all’ex internato difficilmente si possono richiedere descrizioni dettagliate (addirittura bisogna dare per scontate dimenticanze di nomi di campi di concentramento o confusione nelle date e nel passaggio da una condizione all’altra), ma si dovrà piuttosto concentrare i suoi sforzi nelle ricostruzioni generali e nelle valutazioni morali; la distrazione, ovvero la selezione di informazioni da mandare a memoria a causa della maggiore o minore concentrazione del momento: quante informazioni, insomma, non furono mai registrate dal nostro testimone? il blocco, ovvero l’incapacità di recuperare dal profondo della propria memoria nomi, fatti e circostanze anche in seguito a esperienze traumatiche: proprio a causa di ciò, oltre che per l’età avanzata, molti reduci cercano nel vuoto informazioni che non riescono più a ricordare (o che non ricordano in quel particolare momento del colloquio); l’errata attribuzione, ovvero l’attribuzione di un ricordo a una fonte o a un contesto sbagliato, a causa principalmente della vaghezza del ricordo stesso (resa peraltro sempre maggiore per effetto della labilità della memoria);la suggestionabilità, ovvero la tendenza a immettere nei propri ricordi informazioni provenienti da altre fonti, che finiscono con l’amalgamarsi ai ricordi “autentici”: tale disfunzione a mio avviso può essere determinata, nel caso dei veterani, soprattutto dal confronto della propria esperienza con quella di altri prigionieri conosciuti dopo la liberazione o di autori di memoriali particolarmente diffusi negli ambienti reducistici; la distorsione, determinata specialmente dalle conoscenze e dalle convinzioni presenti sui ricordi del passato: nel caso dei reduci a provocare la distorsione potrebbero essere soprattutto, a mio giudizio, ragioni di coerenza (allo scopo di uniformare i comportamenti a un ideale di fedeltà e congruenza agli ideali resistenziali), l’influenza del giudizio a posteriori (che illumina i fatti e i comportamenti sotto la luce del “senno di poi”), una certa forma di egocentrismo che porta a valorizzare la propria parte nei fatti accaduti, l’influenza degli stereotipi (che condizionano non soltanto il modo di pensare e di agire, ma anche quello di ricordare); la persistenza, ovvero la predominanza, nel ricordo, di circostanze associate a emozioni forti o a eventi traumatici che, proprio per il fatto di essere sempre state mantenute in primo piano nella memoria, sfuggono più facilmente alla labilità: ogni esperienza di guerra porta facilmente con sé ricordi persistenti, che scaturiscono in forma di immagini vive e ricche di dettagli, talvolta anche in incubi notturni. Se fosse possibile, sarebbe di estremo interesse disporre di diversi testimoni per valutarne i differenti punti di vista e la maturazione dell’evento nel vissuto di ciascuno dal dopoguerra a oggi: un ex internato resistente, un ex internato “optante” ovvero aderente alla Repubblica Sociale Italiana, e magari un ex combattente della RSI […] Alessandro Ferioli, Quale didattica dell’internamento dei militari italiani in Germania? in Albo IMI Caduti