Durante la cattura, avvenuta ad Arona, Camilla Ravera era con Ergenite Gili e Bruno Tosin

Mentre il potere fascista portava a compimento il suo potenziamento, la situazione era assai precaria e molto pericolosa per i partiti che si trovavano al di là della “staccionata” e nella fattispecie il Partito Comunista d’Italia che era il più bersagliato di tutti <415. Tant’è che – ad eccezione di Ravera, Grieco, Togliatti e Ravazzoli – tutti gli altri dirigenti torinesi venivano arrestati, compreso Gramsci <416. La condizione in cui versavano i militanti del Pcd’I era, dunque, rischiosissima e per questo si stava elaborando l’idea di trasferire l’Ufficio politico in Svizzera, a Lugano, e un’altra sede a Parigi.
La Ravera, unico membro della segreteria scampato agli arresti, aveva installato il suo ufficio a Genova <417.
Per precauzione, che in quel frangente non era mai troppa, abbandonava il nome di battaglia di “Silvia” (perché troppo conosciuto). E in effetti faceva bene a farlo dato che il suo pseudonimo era già noto alla polizia; infatti, il 20 gennaio 1926 dalla Direzione di Pubblica Sicurezza si diramava la notizia “che la Silvia mittente della nota lettera al comunista Felice Platone è stata identificata per la propagandista comunista Ravera Camilla <418”. A confermare l’appartenenza di questo pseudonimo vi era anche la vicenda di Gidoni: “un comunista pericoloso che sotto il pretesto di procacciarsi i mezzi di sostentamento col mestiere di piazzista di una casa editrice di romanzi a dispense, si spostava continuamente dall’una e dall’altra parte procurandosi l’opportunità di visitare con frequenza i compagni, stabilendo collegamenti, appuntamenti e quanto altro potesse giovare alla vita organizzativa del partito comunista <419”.
Egli portava con sé, al momento dell’arresto avvenuto nel 1928, una gran quantità di materiale propagandistico che doveva raggiungere altre “cellule” del partito e sul quale si svelava la falsa identità della Ravera. Così, dato che sarebbe stato rischioso proseguire il suo lavoro col nome di Silvia, ricorreva soltanto all’altro nominativo: “Micheli”. Iniziando a girare per l’Italia, tesseva pazientemente la tela dell’ossatura del partito: stampando opuscoli, raccogliendo fondi, aprendo e chiudendo sezioni clandestine <420. Ed era solo grazie alla sua tenacia, astuzia e dedizione che la donna reggeva, tutta sola, il peso della segreteria del partito.
In sostanza, alla dirigente torinese spettava il compito di riannodare le fila dell’organizzazione rimasta a combattere una battaglia ormai clandestina al fascismo: lei, a capo del Centro interno, Grieco e Togliatti – quando ritornavano da Mosca – a Lugano <421. E mentre perseverava nel proprio lavoro politico, la protagonista diveniva oggetto nel novembre del 1926 della sua prima condanna comminata in contumacia a “cinque anni di confino per attività sovversiva <422”. A tale documento se ne affiancava un altro in cui si spiegavano, più dettagliatamente, i motivi della sua condanna: “dal 1922 al 1926 aveva esplicata attività diretta a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali, sociali ed economici costituiti nello Stato, a menomarne la sicurezza a contrastare ed ostacolare l’azione dei poteri statali per modo da recare nocumento agli interessi nazionali, in relazione alla situazione interna ed internazionale dello Stato stesso <423”.
Ma non era certo questo a farla desistere, anzi bisognava ancora di più fare propaganda ed agitazione. Nel 1927, tuttavia, si decideva di chiamarla a Parigi dove si stava spostando la nuova sede del centro estero, perché nella penisola la Ravera era ormai diventata tra le più ricercate dalla polizia politica.
Così, l’anno successivo Camilla eseguiva l’ordine, ma prima di andare in Francia faceva “scalo” a Lugano dove però il medico, vedendola provata ed esaurita dal lavoro di quegli anni ed affetta da un’infezione polmonare, le suggeriva di partire per la montagna ad Engelberg – località svizzera non lontanissima, tra le nevi ed i ghiacciai <424.
Solo dopo questa convalescenza, la comunista piemontese poteva partire per la capitale francese dove iniziava ad occuparsi degli emigrati in continuo aumento che, lasciate le loro case, erano in condizioni disperate. Allo stesso tempo, vi era un’altra occupazione da curare: l’uscita della “Compagna” che giungeva in Italia con mezzi di fortuna. In quello stesso anno, ritornava in Russia per partecipare al VI Congresso dell’Internazionale <425.
Una volta giunta a Mosca, tuttavia, le veniva riservato un trattamento speciale: veniva fatta riposare per qualche settimana in una villetta tra la natura in un regime di riposo assoluto. Dopo un po’ di giorni di convalescenza iniziavano i lavori. Il clima era molto diverso dalla quello della sua precedente esperienza: Lenin era morto e l’Urss era stata attraversata da una feroce lotta per il potere che aveva visto, alla fine, prevalere Stalin <426. Appena terminato il Congresso – in cui predominava la linea di Stalin – Camilla partiva alla volta di Parigi ma da lì il suo obiettivo era l’Italia.
Infatti, da una relazione redatta da Ezio Zanelli – alias Giulio Lenti, comunista della prima ora – si evince tutta la volontà della Ravera di ritornare nel suo Paese e rimettere in piedi il centro interno, inattivo ormai da due anni.
‘Silvia disse: “bisogna che vada uno di noi quattro” (gli altri tre erano Togliatti, Longo, Secchia) durante il dibattito sulla svolta che da qualche tempo (1929-‘30) era in atto al centro del Partito. Fu Silvia stessa che avanzò le considerazioni che, per esclusioni, portavano ad essere lei la designata ad entrare in Italia […] Con lei, furono mandati Battista Santhià ed il sottoscritto, quale rappresentante della gioventù comunista e per avere già stabilito, nei mesi precedenti, collegamenti con le organizzazioni giovanili esistenti a Roma, Trieste, Torino, Grosseto, Empoli […] Bisognava ritornare in Italia ed avere una profonda conoscenza della realtà esistente nella fabbrica, nei campi per avvicinarsi di più alla base, di utilizzare il massimo delle forze per riorganizzare il partito nel Paese, là dove si combatte la battaglia che conta contro il fascismo […] Nella seconda metà di maggio del 1930 la compagna Ravera, accompagnata dalla fedele Ergenite Gili, una operaia tessile, prende in affitto una villetta nei pressi di Intra, sul Lago Maggiore. La scelta di Intra non fu casuale. Centro di villeggiatura e di riposo (necessario alla signora collegata con il resto del paese tramite il servizio lacuale, ferroviario e autobussistico, il che permetteva gli spostamenti necessari senza dare troppo nell’occhio <427′.
Dunque, dopo una breve convalescenza e una permanenza all’estero la dirigente torinese non aveva più voglia di lottare dall’esterno ma voleva rientrare nella penisola per guardare in faccia questo Regime che limitava, giorno per giorno, le libertà dei propri “sudditi”. Come riportava nel suo lungo “diario” era lei stessa ad autocandidarsi – a suffragare quanto ricordava Lenti – perché diceva: “sono tra i quattro quella che ha la maggior esperienza di lavoro e di direzione clandestina. E forse sono anche difesa dal fatto di essere donna e non ancora ben individuata dalla polizia, specialmente come Micheli <428”. Decideva, così, di valicare le Alpi per ritornare in terra natia e mettere in sesto quel partito di cui si glorificava di fare parte. Ad ogni modo, dopo estenuanti e lunghe ricerche le autorità riuscivano nell’intento ma come ben documentano gli archivi fascisti le indagini erano incessanti. Il Prefetto di Torino, per l’ennesima volta, scriveva nel maggio del 1928: “Le indagini esperite per rintracciare ed arrestare la Ravera hanno dato esito negativo. Si assicura che da parte della locale R. Questura sono state impartite disposizioni al riguardo a tutti gli uffici dipendenti ai quali è stata trasmessa la fotografia della Ravera per la identificazione, qualora tentasse rientrare nel Regno <429”.
Durante la cattura, che avveniva il 10 luglio del 1930, la latitante era con Ergenite Gili e Bruno Tosin e si trovava ad Arona. Una volta arrestata, Camilla Ravera subiva una serie di interrogatori come testimoniavano i verbali del fondo “Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato” (T.S.D.S.), dove il “ritornello” era sempre lo stesso: l’imputata palesava la propria identità e faceva “ampie confessioni assumendo pienamente la responsabilità dei fatti attribuitile <430”. A questo punto sarebbe stato inutile mentire ancora sulle sue generalità e professione, allora decideva di confermare dall’aspetto sofferente) era le informazioni che avevano su di lei – era superfluo negare perché la cercavano da anni e la conoscevano bene – avendo cura di non dare altre notizie, ma soprattutto di non compromettere altre persone. Al riguardo il T. S. D. S. fornisce un resoconto abbastanza dettagliato dei dialoghi che avevano luogo tra l’accusata e gli accusatori dell’ufficio di Milano, dove ad attenderla vi era Nudi – ovvero l’Ispettore Generale di Pubblica Sicurezza (l’OVRA) della città meneghina.
I verbali consentono di ripercorrere i discorsi che ci sono stati durante gli interrogatori e la cronologia degli eventi raccontati, qualche volta, con dovizia di particolari. Era il caso, ad esempio, del rapporto della polizia datato 14 luglio 1930. All’indomani della cattura venivano riportati dei nuovi elementi in merito all’arresto: “la Ravera era in possesso di un passaporto falso svizzero al nome di Turetti Vittoria fu Angelo […] Sulle persone arrestate venne sequestrato materiale di propaganda comunista e appunti riguardanti la situazione del partito comunista in Alessandria, nonché varie somme di danari in valuta italiana svizzera e americana <431”.
Ma a parte gli effetti personali che gli indagati avevano con sé, spulciando tra le sottili veline archiviate nei faldoni del Tribunale Speciale è possibile rinvenire una carta redatta sempre nello stesso giorno – 14 luglio – che aggiungeva qualche elemento al “colloquio” tra la detenuta torinese e gli inquirenti <432. Gli interrogatori erano utili agli inquisitori non solo per accertare il fatto ma anche per raccogliere dei nuovi elementi per il rintraccio di altri militanti ancora da acciuffare; proprio a tal fine interrogavano di nuovo la donna a cui chiedevano – mostrandole un passaporto – se si trattasse del “Comin” a cui erano indirizzate le lettere ritrovate al Tosin. La Ravera rispondeva che non era “in grado di affermare se il Comin sia la persona la cui immagine è riprodotta nelle fotografie. Non posso neppure affermare se la persona riprodotta nelle fotografie sia Vecchi Eros e se il Comin si identifichi in Vecchi. Del resto tengo a dichiarare che se anche ciò sapessi non lo direi, per ovvi motivi <433”.
Affermava, inoltre: “non sono in grado di chiarire se il Comin si identificasse in Vecchi Eros e per me ciò non ha alcuna importanza, prescindendo noi dai nomi veri dei funzionari <434”. In un successivo interrogatorio la donna si dilungava sulla sua attività esplicata in seno alla frazione comunista, sia in Italia che all’estero, parlando anche della propaganda antifascista a proposito della quale diceva: “le stampe del partito pubblicate a cura del Comitato centrale ed in parte anche da me si introducevano nei limiti del possibile in Italia con mezzi che non ritengo di poter precisare <435”.
La protagonista riferiva anche del suo viaggio per motivi di salute, tant’è che l’Ispettore Nudi richiedeva notizie in merito alla permanenza nel sanatorio svizzero e domandava – il 4 ottobre 1930 – al suo collega di Roma informazioni in merito ad un suo ricovero e “per quale malattia. Tale richiesta è fatta per stabilire il precedente pel caso che Ravera si aggravi in carcere <436”. Ad ogni buon conto, la conclusione dell’intera faccenda era la seguente: “Denunziata al Tribunale Speciale venne condannata in data 30.X.930 ad anni 15 e mesi 6 di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed alla vigilanza speciale per anni 3 <437”.
Se questo era quanto riportato dal fondo documentale fascista, cambiando angolazione – passando cioè da una prospettiva esterna ad una interna – vi è l’Istituto Gramsci dove sono custodite delle carte in cui la comunista piemontese forniva un resoconto abbastanza puntuale in merito alla propria cattura.
“L’incontro era stabilito con Tosin ad Arona per il 10 luglio a mezzogiorno in uno slargo poco lontano dallo sbarco del piroscafo, dove c’era una bancarella di libri. A quell’incontro fu deciso che si trovasse anche il Vecchi. […] Il mattino del 10 luglio io e la Gilli partimmo dalla nostra casa e raggiungemmo, con un taxi, un posto di imbarco per Arona. Sbarcate ad Arona […] dopo un breve tratto di cammino trovammo il piccolo slargo dove c’era la bancarella dei libri. Là, come convenuto ci fermammo; e subito vedemmo il Tosin che ci stava raggiungendo. Il Vecchi non c’era. […] vedemmo arrivare verso di noi un gruppo di uomini che rapidamente ci circondarono. Il più anziano e di tono autorevole ci invitò a consegnargli i documenti. “Sono un Commissario di polizia dobbiamo fare una verifica di tutti i documenti: una semplice formalità”. […] ci portarono a una vicina caserma. Là ci introdussero in una grande stanza, che mi parve preparata per il nostro arrivo. […] Dopo un rapido sguardo ai nostri documenti, l’anziano che li aveva raccolti incominciò a chiedermi le generalità, i motivi per cui mi trovavo ad Arona, dove ero diretta e così via. Risposi che venivo dalla Svizzera e sostenni l’identità, i dati, la provenienza eccetera rispondenti al mio documento: un passaporto di cittadina svizzera. E così fecero la Gilli e il Tosin successivamente interrogati. Sulla porta spalancata, spinto alle spalle da un agente, apparve il Jonna: le mani afferrate agli stipiti della porta per resistere alla spinta dell’agente, gli occhi sbarrati su di me, con angoscia. Con uno strattone si liberò dall’agente e scomparve. Mi parve che gridasse “sì sì sì”. Entrò nella stanza un nuovo personaggio e disse: “Bene. Oramai la sua vera identità è stata confermata”. […] “Sì – dissi io ad alta voce – mi chiamo Camilla Ravera”. Presero le nostre borsette […] e tutto ci fu sequestrato. Fummo trattenute ancora molte ore. A notte fonda ci fecero risalire ognuno su di un’automobile per andare nel carcere di Varese. Durante quella prima breve notte passata in carcere riflettevo: la polizia ci aspettava a quell’appuntamento che doveva essere noto soltanto a me e alla Gilli, al Tosin e al Vecchi. Il Tosin o il Vecchi potevano averne accennato con qualcuno: il Tosin era prudentissimo […] seguirono lunghi interrogatori a Varese per circa un mese e poi a Roma. Le insistenze maggiori e più ostinate degli interrogatori si riferivano alla mia abitazione e all’interpretazione delle annotazioni contenute in una rubrichetta trovata nella mia borsetta dove c’erano appunti relativi a letture fatte, annotazioni su riviste, libri da acquistare e in cui con un mio cifrario personale e variabilissimo fissavo brevi dati o indicazioni da conservare con esattezza per il mio lavoro. Su quella rubrica insistettero senza ricavare nulla. […] Durante gli interrogatori non fui mai maltrattata, fui sempre trattata con rispetto. […] Durante gli insistenti tentativi fatti per conoscere la mia abitazione, a Varese, in uno degli ultimi interrogatori si ricorse alla solita astuzia: “abbiamo trovato la sua casa” mi disse il Commissario iniziando il suo discorso. E aggiunse: “Aveva scelto un soggiorno incantevole. E che vista le offriva! Quel lago di Como, azzurro, bellissimo” e ripeté testualmente le parole che a caso e come per gioco, avevo detto al Vecchi e che nessun altro avrebbe potuto con quella precisione riferire. E così, in molti altri casi <438”.
Le era tutto più chiaro dopo l’interrogatorio: i tre erano “caduti” per una delazione di Vecchi.
Dopo l’arresto, dunque, per Camilla si schiudevano le porte della prigione e per la sua famiglia iniziavano una serie di ritorsioni perché la propria congiunta aveva osato macchiarsi di “delitti contro i poteri dello Stato” <439. In tal senso, durante la sua permanenza in galera – dapprima presso l’Istituto di Prevenzione e di Pena di Trani, successivamente in quello di Perugia – diverse erano le missive che i suoi fratelli scrivevano, ma lei non riceveva. Dal C.P.C., difatti, si evince un serrato controllo sui rapporti epistolari perché spesso accadeva che il fratello Cesare, dalla Francia, scrivesse ai congiunti presso la casa torinese e poi questi ultimi accludessero tale comunicazione – per tentare di eludere la censura fascista – alla propria corrispondenza. In tal modo, però, i controlli si facevano ancora più opprimenti e spesso le notizie si interrompevano negli uffici del Regime che, puntualmente, riportavano nei verbali, riferendosi a Cesare: “l’ultima lettera di esso scritto, fa sorgere il dubbio che accennando alla sua attività, il Cesare Ravera voglia alludere alla sua propaganda sovversiva. […] Rimetto la lettera al Superiore Ministero per quei provvedimenti che ritenesse del caso <440”.
Come normale in queste circostanze, l’atteggiamento vigile ed attento sui rapporti epistolari era doveroso ma nella fattispecie la situazione era un po’ enfatizzata in quanto le lettere sottoposte al vaglio delle autorità spesso erano palesemente “innocue”. Le rivalse nei confronti dell’intera famiglia Ravera, comunque, non si limitavano certo alla censura delle missive. Già nel 1931, il fratello Carlo scriveva al Questore di Torino chiedendo spiegazioni circa il rifiuto alla richiesta del proprio passaporto. La cosa, però, non si risolveva anzi si protraeva per un lungo periodo: nel 1937 ancora se ne parlava. Come recita un documento della “R. Prefettura di Torino […] pregiomi informare che il Ravera, pur non offrendo motivo a speciali rilievi, deve esser e ritenuto sospetto politicamente, perché appartiene a famiglia di pericolosi comunisti <441”.
Insomma, con Camilla in carcere e Cesare dello stesso credo politico (ma professato all’estero) – “tra le campagne francesi” <442 come sottolineano le carte dell’ACS – l’intera famiglia era sotto assedio da parte delle autorità fasciste. A ciò si aggiungevano delle ritorsioni personali che le detenute erano costrette a subire dalle guardie del carcere. Il 12 luglio del 1932 la donna torinese inviava una lettera diretta a S.E. il Capo del Governo in cui denunciava un episodio gravissimo avvenuto all’interno della Casa di Pena: “il 2 luglio verso le ore 8 antimeridiane entrarono nella cella, accompagnati dalla Superiora delle Suore addette al Carcere, 2 uomini insieme alla guardiana del carcere e una donna la quale si accinse a svestire la sottoscritta per una perquisizione personale. La sottoscritta fece osservare che, per tale perquisizione gli uomini dovevano uscire dalla cella ma quelli rimasero e con la violenza, la sottoscritta, fu costretta a subire di essere spogliata e poi sottoposta ad una visita molto intima <443”.
Lo stesso trattamento veniva riservato anche alle due comuniste che erano in cella con lei. E quel che rendeva il tutto ancor più grave è che fra le persone che operavano quella indagine vi era il Direttore del carcere. Continuava la detenuta: “quanto è avvenuto appare come un atto di arbitrio e di brutalità privo di ogni giustificazione e che fa ritenere ormai possibili e temibili le peggiori infamie per le comuniste rinchiuse nelle celle delle carceri delle Case Penali d’Italia <444”.
Di questa accusa rimaneva traccia negli archivi dell’ACS – tra il materiale del Ministero Grazia e Giustizia – ma, al contempo, non vi sono documenti che mostravano un seguito della vicenda. Mentre per altri fatti si avviava una sorta di colloquio tra le istituzioni per informarsi vicendevolmente di ciò che era successo, nella fattispecie questo non avveniva; non vi sono carte in cui veniva menzionato quell’episodio. In tal senso, appare evidente la poca importanza che si dava all’accaduto; dopotutto anche nelle carceri si agiva in perfetto stile fascista.
Dopo circa un anno da tale vicenda Camilla veniva trasferita dalla sede detentiva pugliese a quella di Perugia; un ambiente migliore rispetto alla residenza di Trani – seppur ugualmente sottoposta ad una severa sorveglianza. Nel cuore dell’Umbria la donna torinese trovava, infatti, una cara amica: Suor Ignazia. Si trattava di una religiosa piemontese che, ormai in “pensione”, si aggirava indisturbata per le carceri in cerca di giornali e notizie circa il mondo esterno da dare alla sua conterranea. La suora si recava spesso nella sua cella dopo che era riuscita a procurarsi furtivamente le chiavi – per farle compagnia, poi chiedeva della mia salute e mi diceva di volermi bene perché stavo in carcere per essermi messa dalla parte dei poveri, contro la prepotenza e l’ingiustizia <445″.
E addirittura, un giorno le procurava un “incontro” (a distanza) che risollevava il morale della detenuta torinese. Affacciandosi dalla finestra della sua cella la Ravera aveva modo di vedere degli uomini che la salutavano sventolando un fazzoletto rosso <446. Un episodio che la faceva riflettere, spronandola a continuare nella sua lotta contro il Regime.
Così, tra episodi più o meno piacevoli trascorreva il suo tempo da reclusa. Scriveva il Prefetto di Torino ‹‹dimessa il 9 luglio 1935, per indulto, dalla casa penale di Perugia […] viene sottoposta a libertà vigilata per anni tre447››. Così, la comunista faceva ritorno nella sua città dove si stabiliva in “via Ormea 57”, senza scontare il confino “perché non idonea, date le sue condizioni fisiche scadentissime ed essendo affetta da mal di cuore <448” – rapporto stilato dal Prefetto di Perugia ed inviato, per conoscenza, ai Prefetti di Torino ed Alessandria.
Tuttavia, le tribolazioni per lei non erano certo finite. Privata ancora una volta della libertà, veniva “spedita” nell’ottobre 1936 – dopo aver effettuato un’altra visita in cui era stata dichiarata “idonea” al confino – “per anni 5 […] nel comune di Montalbano Jonio (Matera) <449”. Una situazione alquanto ambigua visto che due visite mediche davano due esiti differenti. Forse perché nel secondo caso si forzava un po’ la mano per non avere una “pericolosissima comunista sovversiva” <450 a piede libero – come non mancavano di apostrofare gli agenti di P. S. che le “dedicavano” il fascicolo numero 10284. Nell’estate successiva, così, la confinata veniva tradotta a Ponza, ma poi la colonia veniva sciolta e la comunista torinese era trasferita a Ventotene.
[NOTE]
415 Paolo Spriano, “Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci”, Torino, Einaudi, 1967.
416 Cfr. Albertina Vittoria, “Storia del PCI: 1921-1991”, cit. pp. 15 e ss.
417 Cfr. Nora Villa, “La piccola grande signora del PCI”, cit.
418 A.C.S., D.G.P.S., C.P.C., b. 4246.
419 A.C.S., D.G.P.S., C.P.C., b. 2405.
420 Cfr. Nora Villa, “La piccola grande signora del PCI”, cit. p. 93.
421 Cfr. Ada Gobetti, “Camilla Ravera: vita in carcere e al confino”, cit., pp. 33 e ss.
422 A.C.S., D.G.P.S., C.P.C., b. 4246.
423 A.C.S., Ministero dell’Interno, D.G.P.S., Ufficio Confino Politico (d’ora in poi U.C.P.), Fascicoli Personali, b. 850.
424 Cfr. Nora Villa, “La piccola grande signora del PCI”, cit. pp. 94 e ss.
425 Ibidem.
426 Cfr. Albertina Vittoria, “Storia del PCI: 1921-1991”, cit. p. 19.
427 F.I.G., Fondo M.T., fasc. pers. Camilla Ravera.
428 Camilla Ravera “Diario di trent’anni: 1913-1943”, cit., p. 493.
429 A.C.S., D.G.P.S., C.P.C., b. 4246.
430 A.C.S., Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato (d’ora in poi T.S.D.S.), b. 263.
431 A.C.S., D.G.P.S., C.P.C., b. 4246.
432 Cfr. A.C.S., T.S.D.S., b. 263.
433 Ibidem.
434 Ibidem.
435 Ibidem.
436 A.C.S., D.G.P.S., C.P.C., b. 4246.
437 Ibidem.
438 F.I.G., Fondo M. T., fasc. pers. Camilla Ravera.
439 A.C.S., D.G.P.S., C.P.C., b. 4246.
440 Ibidem. Documenti recanti l’intestazione Ministero della Giustizia e degli Affari di Culto, Direzione Generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena e trasmessi al Ministero dell’Interno, Direzione Generale della P. S., Roma.
441 A.C.S., D.G.P.S., C.P.C., b. 4246.
442 Ibidem.
443 A.C.S., Ministero di Grazia e Giustizia, Detenuti Politici, b. 40.
444 Ibidem.
445 Così scriveva Camilla Ravera qualche anno più tardi nel saggio “Suor Ignazia: corriere nel carcere di Perugia”, nel testo “Il prezzo della libertà: episodi di lotta antifascista” con prefazione di Umberto Terracini, Roma, N.A.V.A., 1958, pp. 202-204.
446 Ibidem.
447 A.C.S., D.G.P.S., C.P.C., b. 4246.
448 Ibidem.
449 Ibidem.
450 Ibidem.
Benedetta Mancino, Camilla Ravera e Margherita Sarfatti: due parabole umane a confronto, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Molise, 2014