Tra i modelli letterari di Conte si possono rintracciare anche Melville e Conrad

Dopo essersi misurato con l’attualità più scottante e drammatica in Sesso e Apocalisse a Istanbul, Giuseppe Conte con il romanzo corale I senza cuore (Giunti, pagg. 420, 19 Euro), a metà strada tra l’affresco storico e l’epopea leggendaria, torna alle sue tematiche predilette: il mare, la bellezza, l’avventura, il destino e il mito.
[…] L’avventura del protagonista nelle vesti di detective ci ricorda, per il nome e per la presenza al suo fianco di un giovane scrivano, quella di Guglielmo di Baskerville in Il nome della rosa, mentre in qualità di comandante della nave ci riporta alla mente quella dell’Ulisse dantesco: entrambi superano le Colonne di Ercole, poco importa che ormai abbiano cambiato nome, ed entrambi prima di avven­turarsi nell’ignoto tengono alla ciurma una “orazion picciola”. Guglielmo di Malo incarna pure nella sua incessante quête lo spirito dei cavalieri medievali che andavano alla ricerca di una donna, un cavallo o un oggetto (in questo caso il vaso di smeraldo) più che altro un pretesto, per mettere alla prova le proprie capacità, per misurare limiti e pregi e per giungere, quindi, alla scoperta e alla comprensione di se stessi.
Tra i modelli letterari di Conte si possono rintracciare anche Melville e Conrad, ma, come ho avuto già occasione di dire in altra sede, questa ricognizione per risalire alle fonti o ai modelli letterari ha un valore relativo in quanto sono tutti assimilati e rielaborati nella visione mitopoietica dell’autore. Mi sembra, invece, interessante ribadire l’amore di Conte per la classicità, nel caso specifico Virgilio e Seneca, “compagni di viaggio” del giovane scrivano; il filosofo di Cordova lo abbiamo già incontrato come personaggio ne L’adultera dove compare alla fine del romanzo sulla spiaggia di Ostia, mentre nel Male veniva dal mare, Marlon, il clochard, nello zaino insieme a Foglie d’erba di W. Whitman si porta dietro le Metamorfosi di Ovidio, straordinaria raccolta di miti antichi e imperituri. In questo romanzo ai miti classici si aggiunge quello celtico, che affonda le sue radici nel folklore bretone, di Malgven e Gradlon, cui è associata la leg­genda della città di Ys inghiottita dall’oceano, senza, però, che venga mai smarrito il contatto con la Storia; sullo sfondo, infatti, c’è sempre Genova, la Superba, con la febbrile attività dei suoi fondaci e dei suoi commerci, con le potenti flotte mercantili, con le sue torri svettanti, simbolo di floridezza economica. Famiglie potenti si contendono il predominio in città: i Fieschi; i Della Volta; gli Spinola e gli Embriaci, cui appartiene Guglielmo il Malo, il protagonista del romanzo, che sembra fare onore al nome della sua casata quando cerca di affogare la propria impotenza nel vino.
Anche ne I senza cuore affiorano le due anime di Conte, quella avventurosa, eroica, romantica che lo aveva spinto con un manipolo di poeti altrettanto animosi e volitivi ad occupare la basilica di Santa Croce (1994) e a leggere dinanzi alla tomba del Foscolo I Sepolcri e quella didimea che nasce dal disincanto della ragione – che non vuole dire, si badi bene, disimpegno – in seguito alle cocenti delusioni, alla corruzione e la malvagità che dominano nel mondo. La prima è incarnata da Guglielmo che, a dispetto della avversità che hanno costellato il suo viaggio, non rinuncia alla sua ricerca e intraprende alla fine da solo, o quasi, una nuova avventura, avvolto nel suo alone malinconico e romantico, non diversamente da Shane ne Il cavaliere della valle solitaria di G. Stevens o Ethan in Sentieri selvaggi di J. Ford, figure altrettanto epiche. La seconda anima, quella didimea, è incarnata in parte dallo scrivano ma soprattutto da Yusuph Abdel Rahim, che condivide con l’autore il nome e una sincera ammirazione per l’armonia insita nella realtà religiosa, morale e culturale dell’Islam. Yusuph è il primo ad arretrare dinanzi alle violenze perpetrate in Terrasanta e certo non per liberare il Santo Sepolcro, ma per motivi economici, per accaparrarsi, oltre a un ricco bottino, nuovi sbocchi commerciali. Di fronte alla cupidigia della nuova classe mercantile, che non disdegna certo la violenza pur di raggiungere i propri obiettivi e che sulla galea è rappresentata da Bernardo Malocello, Yusuph abbandona la nave e si rifugia nella pace della Moschea a pregare e a meditare.
La scrittura di Conte, che si avvale di un linguaggio ricercato e raffinato, ma sempre efficace e aderente alla realtà, non rifugge dall’utilizzo di idiotismi o di termini del linguaggio settoriale, perlopiù marinaresco, frutto di una lunga e puntuale ricerca, di cui l’autore riporta in calce un utilissimo glossario. Una scrittura che spesso si accende per fiammate liriche improvvise e che viene rischiarata da frequenti raffiche di luce, che confermano ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, la natura prevalentemente poetica dell’autore.
Francesco Improta, Ulisse detective, succedeoggi, 20 maggio 2019

Giuseppe Conte nel ritratto fotografico di Dino Ignani – Fonte: Pangea cit. infra

[…] In questo caso, il romanzo, che scatta da Cesarea, “30 agosto del 1101”, ruota intorno alla figura di Guglielmo Embriaco – ma i personaggi che fugaci abbagliano le pagine sono molti, messi in lista in calce al romanzo – robusto cavaliere genovese, che insieme a Goffredo di Buglione prese Gerusalemme, portando nella sua città il Sacro Catino, il piatto su cui Gesù avrebbe spezzato il pane durante l’Ultima Cena (“Il Santo Sepolcro era un pretesto, tutti noi arrivati in Terrasanta pensavamo non alle piaghe e alla crocefissione, alla morte e alla resurrezione di Cristo, che sia benedetto il suo nome, ma alle nostre tasche da riempire, se eravamo poveri, e al potere sul mondo da conquistare, quelli che erano già ricchi, patriarchi, principi… ed eravamo pronti a far scorrere fiumi di sangue per raggiungere i nostri scopi”, ammette il “mastro d’ascia” Giuseppe Pietrabruna, lieto alter ego dell’autore). Conte, con violenta verve, ci porta dall’Oriente screziato alla Cornovaglia, dal Sepolcro all’isola bretone di Ys, giocando alto con la contraffazione – il testo spurio Historia vasis e smaragdo, doverosamente restaurato, che costituisce l’osso mistico del romanzo. C’è, come sempre in Conte, qualcosa di innocente e di intellettuale, di bambino e di savio, di candido e di feroce. A tratti si tratta di far memoria di Umberto Eco, piuttosto, io vi vedo certi fuochi di Robert Graves – di certo, ci s’imbarca nella decisa, indecente cerca della verità. Delinea destini desunti da sfida e oblio, Conte – la vera utopia sarebbe ammirare la sua traslucida esigenza di vero, di bello, lì dove, senza cautela né cura, si governa. (d.b.)
Da che ispirazione arriva “I senza cuore”, qual è stato il là, lo scatto, la nota iniziale che ha dato avvio alla vicenda, fantasmagorica?
L’ispirazione, concetto in cui credo fermamente e che fui uno dei primi in Italia a rimettere in circolazione sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, non senza attirarmi antipatie e sospetti, ha per me modalità e fasi diverse quando scrivo una poesia rispetto a quando scrivo un romanzo. L’ispirazione per una poesia mi arriva improvvisa e veloce, inchiodandomi a una parola o a una immagine: mi prende quasi fisicamente, con una tensione che sento spesso somatizzarsi in un dolore alla nuca. Spesso è il coniugarsi anomalo di un suono e un senso, di una visione e di un pensiero. Per il romanzo, l’ispirazione può avere la forma di una folgorazione iniziale, ma poi non procede per scatti brucianti: piuttosto si muove per passi lenti, a volte tortuosi, e richiede una lunga, difficile fedeltà mentre il progetto man mano si viene formando. Per I senza cuore è stato così: all’inizio la vista del Sacro Catino, il vaso di vetro color smeraldo seminascosto nel Tesoro di San Lorenzo, nei sotterranei della omonima chiesa genovese, arrivato lì dalla Terrasanta dopo la Prima Crociata. E poi, per accumulo: la nascita della potenza economica e marinara di Genova, la figura di Guglielmo Embriaco, che Jacopo da Varagine chiama Guglielmo il Malo, la sua gloria (cui fa riferimento anche Tasso nella Gerusalemme liberata) e il suo sparire nel nulla nelle cronache del suo tempo. Quando ho letto che dopo il 1112 il nome del grande condottiero, navigatore, inventore, console della città e fondatore della sua potenza navale e economica non ricorre più in nessun documento, e non si sa niente della sua fine, mi sono sentito legittimato e spinto a immaginare il suo viaggio in direzione opposta a quella dell’Oriente, a cercare la verità proprio su quel Sacro Catino. La storia si travasa nel mito e del fantastico. Nello stesso modo in cui la nostra vita, la nostra esperienza individuale ha sempre a che fare con il mistero. E sono riemerse le leggende bretoni, il re Gradlon, la città sommersa di Ys, rimaste fondamentali, non so come e perché, nella formazione del mio immaginario. Un altro elemento di ispirazione, questo comune alla poesia, è il mare. Il viaggio per mare, la sfida alle onde, la libertà del mare e tutto il dolore che contiene. Era stata simile l’ispirazione, scattata durante un mio lungo soggiorno in Bretagna, per scrivere Il terzo ufficiale (2002) che ha dovuto attendere l’edizione francese e quella greca per avere attenzioni critiche importanti (in Italia era liquidato come un gioco). In realtà, io non gioco con quello che scrivo. L’ispirazione per me ha sempre qualcosa di esistenziale, necessario e inevitabilmente spirituale, nasce da un’ansia metafisica di ricerca e di conoscenza.
Come lavori? Intendo. In questo libro fai sfoggio, per dare autenticità alla vicenda, a una vasta mole di conoscenze, dai miti di Bretagna alle tradizioni arabe, dagli arabeschi a Gerusalemme alla cerca del vaso di smeraldo a Nord, ai termini, i modi, i materiali marinareschi. Quali sono le tue fonti e come la ricerca si fonde all’ispirazione, ecco.
La ricerca accompagna l’ispirazione. Quest’ultima può materializzarsi in un foglietto di poche righe, scritto d’impulso, per una necessità dell’immaginazione. Ma quando diventa chiaro il tempo in cui si svolge la vicenda e appaiono alla mia mente un po’ come fantasmi i personaggi che la vivono, quella esigenza di “verosimile” di cui parla Aristotele nella sua Poetica mi spinge alla documentazione. Sembra una parte noiosa del lavoro romanzesco, invece per me è un momento di scoperta e di arricchimento dell’immaginazione. Per I senza cuore ho letto molto sulla Genova del tempo, su Guglielmo Embriaco, sia documenti coevi sia studi contemporanei, sulla Prima Crociata, sulla navigazione e sulle navi, sui particolari della vita quotidiana a terra e su una galea. Ho preso appunti riempiendo un quaderno più spesso del libro stampato. Su ogni personaggio ho steso ritratti comprendenti l’aspetto fisico, il carattere, i tic linguistici, che crescevano su se stessi: anche soltanto per trovarne i nomi ho compulsato decine e decine di pagine delle cronache medievali. Ho passato tante ore dentro la galea riprodotta su scala naturale e contenuta in quel meraviglioso Museo che è il Galata Museo del Mare a Genova. Non potevo esimermi dall’usare i termini di misura, peso e capacità del tempo: e poi i termini marinareschi, indispensabili in un contesto come quello de I senza cuore. Ho scritto nel mio studio (la mia poesia nasce spesso su taccuini in viaggio) che è ormai un antro stracolmo di libri e fogli accatastati, assistito da cinque cartelli: su uno i nomi dei singoli membri dell’equipaggio della Grifona, sull’altro l’itinerario da Genova alla Cornovaglia bretone, su un altro ancora il calendario degli eventi, poi quello con i termini di misura, infine un abborracciato disegno (ma sono un pessimo disegnatore) di una galea con tutte le sue parti specificamente indicate.
Non sei nuovo alla narrativa, anzi. Nei tuoi romanzi la lingua è fresca, agile, qualcuno direbbe troppo ‘facile’, rispetto alla tensione dei versi. In che misura il poeta si travasa nel narratore e quali sono – se ci sono – i tuoi modelli letterari quando scrivi in prosa, le tue ossessioni gemellari?
No, non sono nuovo se si pensa che il mio primo romanzo, Primavera incendiata, è del 1980, un anno dopo L’ultimo aprile bianco e tre prima dell’Oceano e il Ragazzo. Diffiderei di un poeta che passasse alla narrativa in tarda età. L’ispirazione, torniamo a quella, è sorgiva e necessaria, non può attendere tanto a manifestarsi. Così come diffido in genere di chi, raggiunto un risultato in una diversa e redditizia professione, si mette a scrivere romanzi, come tanti fanno oggi. Oggi tutto è possibile perché niente vale niente. Per il novanta per cento i romanzi che escono oggi non hanno niente a che fare con la letteratura, con una idea del linguaggio, dello stile, del mondo. Io ho sempre sentito il bisogno di “raccontare”, intendendo il racconto come “mito” nel senso greco del termine. Questo bisogno si esprime in un linguaggio diverso da quello della poesia. Non amo né il romanzo in versi né la prosa poetica: mi sembrano troppo garbati ossimori. Non amo la bella pagina. Con la quale già Palazzeschi diceva che si sarebbe pulito il culo. A me interessa il procedere orizzontale del racconto, la sua fluidità, la sua disposizione sinfonica e architettonica. La poesia in un romanzo non è solo nel linguaggio, è nella tensione epica, nella grammatica della immaginazione mitica. Almeno per me. I miei modelli, quando scrivo romanzi, sono D. H, Lawrence per il rapporto tra personaggio e archetipo mitico, Scott Fitzgerald e Truman Capote per l’eleganza musicale della malinconia nella loro scrittura, Henry Miller per la visionarietà erotica, beffarda e mistica. E poi Melville, Stevenson, Kipling, Conrad per la grande metafora del mare. Tra gli italiani, la prosa che prediligo è quella di Calvino e Soldati: amo la loro chiarezza immune da espressionismo e manierismo, ho avuto la fortuna di essere amico di entrambi, e di aver ricevuto da loro consigli e giudizi molto significativi. Per I senza cuore, ci sono anche influenze diverse e lontane: Manzoni e Dickens, ma soprattutto Victor Hugo. Qualcuno ha già notato che nell’impianto il romanzo richiama Il nome della rosa di Eco. Libro che a suo tempo chiusi dopo 30 pagine, e che solo recentemente ho letto tutto con molto diletto. Non condivido affatto le tesi teoriche di Eco. Ma neppure il giudizio apocalittico su Eco romanziere dato da certi miei coetanei come Berardinelli e Cordelli. Il rapporto con la narrativa di genere e popolare non mi sembra un delitto, anzi. Però io continuo a pensare che una trama narrativa ben costruita non possa prescindere dal poetico inteso come il “meraviglioso”, dal senso del mistero e del destino. Eco sì, ma corretto da Calvino e Borges […]
Redazione, “Non sarò à la page, ma non me ne frega niente. In una società che io trovo abietta, continuo a lavorare come se dovessi sfidare il mondo”: dialogo con Giuseppe Conte, Pangea, 6 giugno 2019

Poeta, narratore e saggista, Giuseppe Conte è nato ad Imperia. Ha studiato all’Università Statale di Milano laureandosi in Lettere nel 1968, con una tesi di estetica. Abbandonato l’insegnamento, è diventato consulente per la poesia dell’Editore Guanda, ed ha scritto per giornali come Stampa Sera, Mercurio (supplemento culturale di Repubblica) e Il Giornale. Ha esordito con un libro di critica nel 1972, La metafora barocca, mentre i suoi primi testi poetici sono apparsi nella celebre antologia La Parola Innamorata (1978). Con la raccolta Le Stagioni (1988) Conte ha vinto il Premio Montale. È stato redattore della rivista Il Verri ed ha collaborato con saggi di critica e teoria letteraria a riviste come Nuova Corrente, Sigma, Altri Termini, L’Altro Versante, Tema Celeste ed altre.
I suoi interessi che si focalizzano intorno ai grandi temi del mito e della natura trovano la loro espressione più alta nei suoi primi libri, L’Ultimo Aprile Bianco, (1979) che ebbe un impatto molto forte sulla scena poetica di allora, e L’Oceano e il Ragazzo, con cui avvenne la sua consacrazione nel 1983.
Già lo stesso titolo del libro indica chiaramente il ruolo decisivo assunto dal mare nella sua poesia, ruolo in qualche misura ereditato appunto dalla ricca tradizione poetica ligure del Novecento: Mario Novaro, Sbarbaro e Montale. Ereditando gli elementi esterni dai precedenti poeti liguri, si diversifica nel significato metafisico attribuito al mare, inteso nella sua poetica, come un simbolo della forza e del mistero.
Nell’introduzione al volume L’Oceano e il Ragazzo Giorgio Ficara scrive:” il mare è una misteriosa condizione della salvezza, che ora appare come un dio e ora appare come un sogno o un enigma”.
L’Oceano e il Ragazzo è stato tradotto in francese da Jean-Baptiste Para e ha vinto il premio Nelly Sachs per la migliore traduzione di poesia dell’anno (1989).
Nel 1987 viene pubblicato Equinozio d’autunno, anche in questo caso il mare assume un ruolo decisivo e come per la maggior parte delle poesie lo spunto esterno è offerto dal paesaggio ligure della riviera di Ponente, ma subito l’angolazione mitica e leggendaria di Conte si delinea con chiarezza.
Nel 1992 scrive Dialogo del poeta e del messaggero, che in pochi mesi raggiunge la seconda edizione. In questo libro è contenuto il poemetto Democrazia, in cui Conte tocca i temi e i toni della poesia civile, ma con riferimenti Whitmaniani ..
Il Primo Ottobre 1994 con un gruppo di giovani ha occupato pacificamente la Chiesa di Santa Croce a Firenze e, dopo la lettura rituale de I Sepolcri del Foscolo davanti alla tomba del poeta, ha lanciato un messaggio per la rinascita spirituale della poesia.
È l’ispiratore del movimento detto Mitomodernismo, inaugurato a Milano nel gennaio del 1995, che vuole riportare sulla scena dell’arte il mito incarnandolo nella contemporaneità.
Il poeta è da sempre appassionato di musica e di teatro: ha scritto due libretti d’opera, collaborando con musicisti come Gianni Possio e artisti come Mimmo Paladino; nell’ambito del Primo Festival del Mitomodernismoad Alassio, nell’estate del 1995, ha creato L’Iliade e il jazz, un’opera poetico-musicale, in collaborazione con il contrabbassista Dodo Goja.
Nel 1997 è uscita una sua nuova raccolta dal titolo Canti d’oriente e d’occidente.
Come traduttore, si è occupato di Blake, Shelley, Whitman e D.H.Lawrence, che considera i punti salienti della propria personale tradizione, insieme a Goethe, Foscolo e i poeti liguri del Novecento.
È profondamente interessato alla poesia americana contemporanea e alla spiritualità degli Indiani d’America.
Definito da Le Monde “Grande viaggiatore”, Conte da anni si muove per poetry readings, conferenze, o semplicemente per il piacere di muoversi e inseguire i propri miti, dal Marocco all’Indonesia, dall’Irlanda all’India. Ha letto poesie in Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Svizzera, Olanda, Svezia, Russia, Algeria, Sud Africa e negli Stati Uniti […]
Beren, Giuseppe Conte, Garden of Rivendell, 10 febbraio 2012

[…] Ha compiuto ripetuti lunghi soggiorni in Bretagna, a Saint-Nazaire e a Saint-Herblin dove ha scritto due libri pubblicati in edizione bilingue francese-italiano.
Vicino agli indipendentisti irlandesi, scrive un testo in memoria di Bobby Sands che tradotto in gaelico da Padraig O’ Snodaigh ha girato nei pub di Dublino e Belfast ed esce anche nell’antologia Hunger Strike a cura di Danny Morrison.
Viene celebrato dalla Beat Generation con l’introduzione di Diane Di Prima all’edizione americana delle Stagioni e con un disegno dedicato all’ Oceano e il Ragazzo da Lawrence Ferlinghetti.
Ha fatto parte della Giuria di Veline , il programma di Antonio Ricci su Canale 5.
Con Maria Rosa Teodori, ha scritto La cucina dell’anima, che ha vinto il premio Libri da gustare 2014
Di lui hanno scritto tra gli altri Luciano Anceschi,Pietro Citati, Italo Calvino, Attilio Bertolucci, Marco Forti, Carlo Sgorlon , Pier Vittorio Tondelli, Giorgio Barberi Squarotti, Lorenzo Mondo, Stefano Verdino,Roberto Carifi, Giorgio Ficara, Mario Baudino, Roberto Barbolini, Francesco Napoli, Ferdinando Castelli S.J. Adonis, Jean-Baptiste Para, Jean-Claude Pinson, Jesper Svenbro, René de Ceccatty, Pascale Casanova, Rufus S. Crane, Mark Axelrod, Diane Di Prima.
Dopo aver vissuto 15 anni a Nizza, ora abita a Sanremo.
Su face book ha un profilo come Giuseppe Yusuf Conte e una pagina professionale come Giuseppe Conte-scrittore.
Dal curriculum on line di Giuseppe Conte