Pensavamo a molte cose percorrendo la lunga strada che ci portava a Stalingrado

“L’aria si era scaldata e la neve si posava a grandi fiocchi sulla terra, sui mattoni rossi sbriciolati, sulle croci delle tombe, sui musi dei carri armati defunti, dentro le orecchie dei morti non ancora sepolti. La neve aveva saturato l’aria, aveva fermato il vento e soffocato gli spari, unito, confuso cielo e terra in un corpo unico, morbido, grigio e vago. Il nevischio caldo mandava riflessi grigio-azzurri. La neve si posava sulle spalle di Bach ed era come se il silenzio scendesse a fiocchi sul Volga ammutolito, sulla città morta, sulle carcasse dei cavalli; nevicava ovunque, non solo sulla terra, ma anche sulle stelle, l’universo era pieno di neve. E sotto la neve tutto spariva: i cadaveri dei caduti, le armi, i vestiti putridi, i sassi, il ferro ritorto. Non era la neve, ma il tempo -soffice, bianco- a posarsi, strato su strato, sul massacro della città e il presente era già passato e non c’era futuro nel baluginare lento e soffice della neve” (VD, 709).
Vasilij Grossman è uno scrittore: la prima buona ragione per leggerlo è che scrive meravigliosamente. “Vita e destino”, la sua opera più matura e più grande, è un romanzo, ma la poesia vi soffia dentro un respiro che ne dilata la potente struttura trasformandolo in poema: “Vita e Destino” è il poema del Novecento. Forse esagerando, potremmo dire che “Vita e destino” è la nostra Iliade, è la nostra Odissea, è la nostra Eneide. E’ la nostra storia.
La seconda guerra mondiale è stato un fenomeno eccezionale non solo per l’esorbitante – mai raggiunto prima in un conflitto – numero di morti, non solo per la Shoah, non solo per i gulag sovietici e per i campi di sterminio nazisti, ma anche per il paradosso che lo ha contrassegnato. Questo paradosso è stato ben riassunto da Vittorio Strada: “Una potenza programmaticamente anticapitalista come l’Unione Sovietica fu alleata alle maggiori potenze democratico-borghesi in una lotta contro un regime politico totalitario non privo di affinità con quello comunista. La grandiosa battaglia di Stalingrado, che vide un accanito scontro diretto tra l’Armata Rossa di Stalin e la Wehrmacht di Hitler, è il simbolo di una situazione senza pari nella storia mondiale” (Strada, 2007, 31). Per di più, il popolo russo – con gli altri popoli dell’URSS compresi gli ebrei – combatté eroicamente per la libertà ma “a godere dei frutti della lotta fu il regime sovietico, negatore di ogni libertà” e nemico degli ebrei che ne furono vittime anche nel dopoguerra. E’ questa la vicenda che Grossman illumina “come nessun altro prima e forse dopo di lui, in ” (Strada, 38): “La libertà che aveva dato origine alla vittoria, vero scopo della guerra, nelle mani scaltre della storia si trasformò in suo strumento” (VD, 464).
Chi era Vasilij Grossman? Egli appartiene a quella schiera di ebrei d’Europa che, fusi con la cultura del loro paese, identificati con esso, furono ricondotti alle radici ebraiche dalle persecuzioni e parteciparono alla doppia sofferenza del proprio paese in guerra e del proprio popolo perseguitato dai nazifascisti nell’indifferenza e spesso con la collaborazione dei connazionali e dei vicini di casa. Appartiene contemporaneamente a quella generazione di cittadini sovietici, figli di genitori che avevano sostenuto la causa rivoluzionaria, che si riconoscevano negli ideali e nella politica del nuovo Stato ma che sotto Stalin furono spinti a rivedere criticamente la propria adesione al regime e al marxismo-leninismo. Gli ebrei più rapidamente degli altri.
Così, mentre andava recuperando l’identità ebraica, Grossman si liberava dell’identità sovietica senza tuttavia diventare – come nota ancora Vittorio Strada – uno scrittore ebraico e senza privilegiare la sofferenza del popolo ebraico rispetto alla sofferenza del popolo russo come di altre minoranze dell’Unione Sovietica. Grossman rimane uno scrittore russo: russo perché non può non amare la Russia, scrittore perché non può non scrivere.la doppia sofferenza del proprio paese in guerra e del proprio popolo perseguitato dai nazifascisti nell’indifferenza e spesso con la collaborazione dei connazionali e dei vicini di casa. Appartiene contemporaneamente a quella generazione di cittadini sovietici, figli di genitori che avevano sostenuto la causa rivoluzionaria, che si riconoscevano negli ideali e nella politica del nuovo Stato ma che sotto Stalin furono spinti a rivedere criticamente la propria adesione al regime e al marxismo-leninismo. Gli ebrei più rapidamente degli altri.
Ma ancora prima che ebreo e russo, Grossman è un uomo e uomo cerca di restare, come il protagonista di “Tutto scorre” che torna dalla Siberia dopo trent’anni di deportazione: “Restò lì, in piedi: canuto, ricurvo, e pure sempre quello di una volta, immutabile”: “Perché era stata così pesante la sua vita? …era rimasto ciò che era fin dalla nascita – un uomo” (TS, 228-29). Nell’Odissea di Grossman, Itaca è l’umanità dalla quale siamo partiti e alla quale cerchiamo di tornare.
La vita di Grossman è mirabilmente e meticolosamente ricostruita dai coniugi Garrard in una biografia dal titolo “Le ossa di Berdicev. Vita e destino di Vasilij Grossman”. Punti salienti di questa vita: la nascita nel 1905 a Berdicev – la città dove nel secolo precedente era venuto alla luce Conrad – considerata la capitale ebraica dell’Ucraina; la decisione di abbandonare la carriera di ingegnere minerario per darsi alla letteratura; lo sterminio degli ebrei a Berdicev il 15 settembre 1941; la richiesta, subito dopo questo tragico evento, di arruolarsi come soldato semplice: viene invece nominato, per le sue doti di scrittore, corrispondente di guerra per il giornale “Stella Rossa”; l’eroica partecipazione, come inviato di guerra, alla resistenza di Stalingrado; l’attraversamento, al seguito dell’Armata Rossa, dell’Ucraina “senza ebrei” fino all’arrivo a Berdicev (1943) e poi a Treblinka (1944); la stesura, assieme a Il’ja Ehrenburg, del “Libro nero” sullo sterminio degli ebrei dell’Europa orientale; il veto di Stalin alla pubblicazione del “Libro nero”; la composizione di “Vita e destino”; la confisca da parte del KGB dei manoscritti di “Vita e destino”, comprese la carta carbone e le bobine d’inchiostro della macchina da scrivere (1961). La morte per cancro allo stomaco nel 1964.
Al fondo di questa vita sta un episodio che ne ha determinato il corso e il senso. I tedeschi invasero la Russia il 22 giugno 1941 e presero Berdicev il 7 luglio dello stesso anno: come notano i Garrard, Grossman, che viveva a Mosca, avrebbe avuto due settimane di tempo per salire su un treno e portare via sua madre da Berdicev. Ma Grossman non si mosse, in obbedienza al veto della moglie. Sua madre fu uccisa assieme a tutti gli altri e scomparve nella fosse comune. Grossman ebbe la certezza che era morta solo nell’agosto del 1944, quando arrivò a Berdicev, ma già nel ’41 aveva perso ogni speranza.
Nella tragedia del popolo russo e di quello ebraico, l’omissione di soccorso alla propria madre fu la personale tragedia di Grossman. Fra i tanti dolori che lo toccarono, fu proprio questo la sua cruna dell’ago. Di qui dovette passare per raggiungere il fondo della sua umanità, quello che di buono e di cattivo c’era nel suo essere uomo.
Il primo effetto fu la decisone di arruolarsi come soldato semplice, di imbracciare un fucile: forse anche per cercare la morte che pensava di meritare, ma certo per affrontare i nemici dei russi e gli sterminatori degli ebrei, gli assassini delle madri. Nel mondo di Stalin – un mondo che era diventato una immensa prigione – era di nuovo possibile battersi per la libertà. Vi furono tuttavia effetti più profondi che schematicamente potrei riassumere come l’identificazione con la madre perduta e la consapevolezza di essere “sceso a patti con il male”. Questi due movimenti psichici, a di là di tutte le esperienze di vita, delle complesse contingenze storiche e delle convinzioni filosofico-politiche, mi sembrano stare al fondo della visione del mondo e dello sguardo sulla storia che sottende l’opera matura di Grossman e in particolare “Vita e destino”.
Sul quotidiano La Repubblica è apparso nel mese scorso un ampio articolo di Bernardo Valli dal titolo “Storia di uno scrittore che scoprì il coraggio”. L’autore apprezza la biografia dei Garrard e ne ricava l’impressione che la vita e la personalità di Grossman conoscano un radicale cambiamento attraverso la partecipazione alla guerra: “La guerra fa di lui un altro uomo. Si dimostra temerario, spericolato. Il suo coraggio sotto il fuoco gli guadagna il rispetto di ufficiali e soldati, in particolare a Stalingrado”. Fino a questo momento era stato un uomo “prudente al limite della viltà”. Valli ricorda che Grossman non muove un dito quando la cugina Nadia, l’influente sindacalista che aveva sostenuto i suoi primi passi di scrittore, viene arrestata nel ‘31 con l’accusa di cospirazione trockista né quando nel ’37 sono imprigionati due suoi amici scrittori né quando nel ’38 lo zio David Šerencis – che gli aveva fatto da padre negli anni dell’infanzia – è tradotto in prigione, dove muore, come membro della borghesia zarista. Ricorda ancora che fu tra i firmatari di una petizione per la pena di morte di alcuni dirigenti bolscevichi accusati di tradimento (Bucharin era fra questi).
Arruolato nell’Armata Rossa, il timido Grossman, scrive Valli, “E’ in preda a un’improvvisa euforia. La guerra cambia gli uomini. Lo si sa dai tempi di Tucidide”. In genere però – anche questo lo si sa dai tempi dei Tucidide – li cambia in peggio. Invece Grossman migliora. Migliora in quanto diventa coraggioso? E’ vero che diventa coraggioso, ma questo a me non pare il miglioramento più importante. Migliora in quanto diventa più umano,come cercherò di mostrare.
Il cambiamento in atto è proiettato e rappresentato nella muta di una serpe all’interno di un elmetto. E’un cambiamento difficile e doloroso. E’ il cambiamento di Grossman che avviene all’interno del suo essere soldato: “Appeso in un angolo, un elmetto dondolava tintinnando. Una colonna di luce densa, concentrata, lo illuminava. Sergeij vide che si trattava di una serpe, ramata sotto la luce del sole, che faceva muovere il casco. Appena la guardò più attentamente, comprese che la serpe lasciava la sua pelle lentamente, con uno sforzo doloroso, e la sua nuova pelle sembrava imperlata di sudore, brillava come una castagna novella. Gli uomini trattenevano il respiro osservando il travaglio della serpe: sembrava che stesse gemendo, che si lamentasse, perchè era difficile uscire da quella guaina dura, morta. Questa dolce penombra trafitta dalla luce, e l’incredibile spettacolo di una serpe, che, fiduciosa, cambiava pelle in presenza degli uomini catturò i soldati” (JC, 341).
[…] Come aveva detto Stalin, “La morte di un uomo è una tragedia, la morte di milioni di uomini è un fatto statistico”. E’impossibile per la mente umana – per il nostro cervello fermo al Pleistocene dal punto di vista evolutivo – immaginare e dunque soffrire la morte di milioni di persone: “Questa limitazione è una caratteristica positiva della coscienza umana – osserva Grossman in “Ucraina senza ebrei” – perché protegge le persone dal tormento morale e dalla follia” (in Garrard, 1996, 238). Siamo invece capaci di immaginare e di soffrire la morte di una sola.
La madre è per Vasilij Grossman – e per i suoi lettori – il veicolo emotivo per la Shoah, è la madre che lo guida negli Inferi: “Viktor caro, per quanto mi trovi oltre la linea del fronte e dietro il filo spinato di un ghetto ebraico, sono convinta che questa lettera giungerà fino a te” (VD, 73). Vasilj/Viktor diventa sua madre, mentre sua madre è sua madre ma insieme è tutte le madri, è l’umanità: “Per me tu sei l’umanità e il tuo terribile destino è il destino dell’umanità in questi tempi inumani” (in Garrard, 1996, 467).
Il 30 marzo 1955, contemplando “La Madonna Sistina”, il quadro di Raffaello che fu esposto a Mosca prima di essere restituito a Dresda, Grossman ha un’illuminazione. L’immagine della giovane donna con il bambino in braccio gli ricorda Treblinka: “La riconobbi dall’espressione del viso e degli occhi. Vidi suo figlio, e riconobbi il prodigio di quel volto straordinario, non infantile. Così erano le madri e i bambini a Treblinka, quando sullo sfondo verde scuro dei pini scorgevano i muri bianchi delle camere a gas, così erano i loro cuori” (MT, 29-30). Ma così erano anche le madri e i bambini affamati che aveva visto in Ucraina nel ‘32, così erano le madri dei soldati mandati a morire in guerra, così siamo noi: “Noi esseri umani certo l’abbiamo riconosciuta, e abbiamo riconosciuto il suo bambino; lei è uguale a noi, il loro destino è anche il nostro, madre e figlio rappresentano l’umanità dell’uomo” (MT, 35-36).
Non solo gli ebrei, ma tutta l’umanità ha sofferto, in ogni epoca: “Di enorme ed eterno come la terra c’era il dolore” (VD, 124). E tutta l’umanità che ha sofferto, e tutte le epoche, si riconoscono nell’immagine umana della Madonna che tiene in braccio il bambino destinato a morire. L’identificazione con la madre consente a Grossman una straordinaria lettura del quadro e gli detta pagine indimenticabili. Gli consente anche di mantenere una speranza, o meglio una certezza, che è profondamente materna: che la vita non si può estirpare, che l’umanità, punto più alto dell’uomo, “sopravvivrà in eterno, e vincerà” (MT, 39).
Ammalato di tumore, Grossman muore verso le otto di sera del 14 settembre 1964, muore nel ventitreesimo anniversario della sera in cui a Berdičev la Polizei ucraina e le SS iniziarono a radunare le persone che si trovavano nel ghetto e che all’indomani sarebbero state uccise. Una coincidenza straordinaria che non ha mancato di impressionare i sui biografi: “Può darsi che il suo spirito stesse uscendo dal suo corpo morente, balzando fuori dallo spazio e dal tempo, per ricongiungersi a sua madre e alle altre 30.000 vittime in questo giorno, che di tutti i giorni dell’anno era per Grossman il più terribile” (Garrard, 1996, 402).
Agli amici ha chiesto due cose: di essere sepolto in un cimitero ebraico e di pubblicare, anche all’estero, “Vita e destino”. Dopo molte traversie e quasi vent’anni, il romanzo vede le stampe in Svizzera. Grossman invece riposa in un cimitero abbandonato, non ebraico. Accanto a lui giace sua moglie che anche questa volta, contravvenendo alle sue volontà, era intervenuta a separarlo dalla madre alla quale idealmente desiderava riunirsi. Così, “Le ceneri dell’uomo che amò una sola donna sono sepolte accanto a quelle di un’altra” (Garrard, 1996, 445).
“Mi sembra che nell’epoca crudele e terribile nella quale la nostra generazione è stata condannata a vivere su questa Terra, non dobbiamo mai accettare di venire a patti con il male. Non dobbiamo mai diventare indifferenti nei confronti degli altri e indulgenti nei confronti di noi stessi” (in Garrard, 1996, 238). Quando si vive in un’epoca crudele, mentre infuria una guerra e regna una dittatura, è ancora più difficile non chiudere gli occhi diventando indifferenti verso gli altri e indulgenti verso se stessi. Colui che – come è successo a Grossman – è spinto a guardare all’interno di sé, è costretto a riconoscere i compromessi ai quali è sceso, vede le sue debolezze e le sue colpe, sa che il male è sempre anche dentro e non solo fuori: “E adesso proviamo dolore e angoscia: perché la vita è stata tanto atroce, forse per colpa mia e tua? Domanda crudele, insopportabile, che soltanto i morti possono rivolgere a chi è sopravvissuto. Ma i morti tacciono, non fanno domande” (MT, 37-38).
Grossman attraversa la sconvolgente crisi morale che ha segnato gli uomini del suo tempo e che il Novecento ci ha lasciato in eredità. La attraversa in quanto russo che ha creduto nel comunismo; in quanto ebreo che in gioventù aveva misconosciuto le proprie origini e si era vergognato dell’ “ebraicità” di Berdičev; in quanto soldato e reporter che subisce il potente fascino della battaglia; in quanto cittadino sovietico che si è macchiato di molte piccole e alcune meno piccole viltà; in quanto uomo che ha abbandonato i suoi cari al proprio destino.
Attraversa la crisi con speciale onestà, coraggio e intelligenza storica:Critica i due totalitarismi novecenteschi, nazismo e comunismo, entrambi violenti – “Il fondamento del totalitarismo è la violenza: esasperata, eterna, infinita, diretta o mascherata” (VD, 198)- negatori della libertà, nemici della verità e denuncia la loro essenziale affinità nel processo educativo che induce le persone a vedere la realtà in un modo che non ha più alcun legame con la realtà stessa. In Vita e destino si legge: “Il nazismo aveva respinto il concetto di individuo singolo, il concetto di ‘persona’ e agiva per insiemi enormi…era pervenuto all’idea di eliminare interi strati della popolazione, insiemi legati alla razza o all’etnia, sulla base del fatto che in quegli strati e sottostrati la probabilità di un’opposizione nascosta o manifesta era maggiore che altrove. La meccanica delle probabilità e degli insiemi umani” (VD, 85-86). La stessa logica delle probabilità, degli insiemi, del “nemico oggettivo”, dell’astrazione al posto dell’essere umano in carne e ossa, sottende la politica di Lenin e di Stalin, come ormai senza reticenze Grossman dice in Tutto scorre: “Per ucciderli si è dovuto spiegare che i kulaki non erano uomini. Sì, come quando i tedeschi dicevano: i giudei non sono uomini. Allo stesso modo Lenin e Stalin: i kulaki non sono uomini” (TS, 135). E ancora: “Nel lager scontavano la loro pena socialdemocratici e socialisti rivoluzionari… messi dentro non perché si erano battuti contro lo Stato sovietico, ma perché v’era una possibilità che lo facessero” (TS, 102). Sa bene che da sola la paura, per quanto grande, non è in grado di svolgere un lavoro “così enorme”. Sa che la forza dell’idea è un ingrediente decisivo. Scrive ad esempio a proposito del comunismo: “Il fine rivoluzionario in nome della morale liberava dalla morale…spiegava perché l’uomo in nome della felicità del popolo deve buttare nella fossa degli innocenti” (VD, 387). Ricorda come i gulag sovietici siano serviti da modello ai campi di concentramento hitleriani e ricorda che fu proprio un ingegnere ebreo di nome Frenkel a suggerire a Stalin “il geniale progetto” di sfruttare il lavoro dei detenuti nel sistema del gulag: “Nel progetto esponeva meticolosamente, con competenza economica e tecnica, come impiegare masse enormi di detenuti per costruire strade, dighe, centrali idroelettriche e bacini artificiali…Il progresso arrivò anche nel mondo del lager…e al confronto le vecchie colonie penali sembravano ridicole, commoventi quanto le costruzioni di legno” (VD, 802). Conosce la corruzione delle coscienze negli uomini ridotti in schiavitù: “Bisognerebbe scrivere un libro sulla disperazione nel lager. Perché c’è la disperazione che ti opprime, che ti piomba addosso all’improvviso, che ti toglie il fiato e non ti fa respirare. E ce ne è un’ altra che…ti deforma dal di dentro, come la pressione degli oceani deforma i mostri degli abissi” (VD, 162). Negli stessi anni nei quali Grossman lavorava a Vita e destino, qualcun altro in Russia stava appunto scrivendo un libro sulla “disperazione nel lager”: quello scrittore era Varlam Šalamov e quel libro è “I racconti della Kolima”. Negli abissi della Kolima, come Šalamov racconta in una lettera a Pasternak, “l’essenziale” stava nella “corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore né senso del dovere”. In questo abisso tutto viene a nudo “e l’ultimo denudamento è tremendo” : la mente già sconvolta “si aggrappa all’idea di ‘salvare la vita’ grazie al geniale sistema di ricompense e sanzioni che le viene proposto” (Salamov, 630). E Grossman: “Come si può descrivere quanto accade nel cuore di un uomo che ha dovuto lasciare la mano della moglie, il suo ultimo rapido sguardo al viso amato? Come si può vivere se una memoria spietata ti riporta alla mente l’istante di un congedo silenzioso, quando per qualche frazione di secondo i tuoi occhi si sono chiusi per nascondere la gioia spicciola di avere salvato la pelle?” (VD, 516).Racconta in “Tutto scorre” la morte per fame di un villaggio contadino ucraino durante la “dekulakizzazione” voluta da Stalin: una brutale operazione che causò la morte di milioni di contadini e gettò nell’Ucraina quel seme dell’odio per il regime sovietico per cui gli ucraini accolsero i tedeschi come liberatori e si disposero a collaborare con loro. Intuisce presto che il massacro degli ebrei in Ucraina si è potuto avvalere della diffusa collaborazione della popolazione locale (Cfr. Garrard, 1996, 240; VD, 195-196).Vede come l’antisemitismo passi senza soluzioni di continuità da Hitler a Stalin il quale confisca il “Libro nero”, manda alla fucilazione i membri del Comitato antifascista ebraico che aveva sostenuto la stesura del libro e nei gulag circa quattrocentocinquanta intellettuali ebrei, ordisce una campagna diffamatoria contro i medici ebrei accusandoli di voler avvelenare i massimi dirigenti dell’Unione Sovietica: “La contiguità fra nazismo e comunismo diventò così il nucleo centrale, scandaloso, di “Vita e destino”. La vera ragione del suo sequestro” (Vedi la Postfazione in AG, 139-140). Testimonia la grandezza della resistenza di Stalingrado, l’eroismo di soldati mal equipaggiati, la breve stagione di libertà dal KGB, il calcolato sacrificio di tante vite umane per guadagnare tempo – “il tempo è sangue” – e – l’insensatezza dell’ordine di Stalin di non indietreggiare mai (Cfr. Garrard, 2007, 69-87).
Conosce i quotidiani compromessi, le umiliazioni, la menzogna, l’omertà, il tradimento, la delazione che a livelli diversi macchiano tutte le persone sotto una dittatura. Con penna più lieve, e sguardo ancora più disincantato, Sergej Dovlatov descriverà in Compromesso (1981) la vita in Unione Sovietica dopo Stalin.
Valli non ricorda, ma potrebbe farlo, che sulla coscienza di Grossman pesava anche la vita di uno zio che era in seria difficoltà e che la moglie non volle ospitare: lo zio morì di freddo nel duro inverno moscovita. E non ricorda che ancora più grave, in seguito, fu l’omissione di soccorso a sua madre. I Garrard sottolineano l’importanza di questo episodio al punto da considerarne determinante il peso nella decisione di arruolarsi come soldato semplice.
Sotto questa luce il cambiamento di Grossman acquista un altro spessore. Fu proprio la guerra, con il suo terribile fascino, a cambiarlo? O fu la colpa? O fu l’oscura consapevolezza del destino degli ebrei? Cosa c’era dietro la sua “euforia”? Cosa c’era al fondo del suo coraggio? “Ognuno – dirà in seguito – è coraggioso in modo diverso”. E per ragioni diverse.
Voglio citare un passo con il quale si apre “Stalingrado”: è un po’ lungo, ma vale la pena di leggerlo:
“Pensavamo a molte cose percorrendo la lunga strada che ci portava a Stalingrado. Qui, c’è un altro fuso orario: il nostro orologio è in ritardo di un’ora. Ed ecco, d’un tratto, uccelli del tutto differenti dai nostri: nibbi dalla grossa testa e dalle robuste zampe piumate se ne stanno immobili sui pali del telegrafo; la sera, gufi grigi sorvolano goffamente e maldestramente la strada. Il sole è diventato più crudele. Anche la steppa è cambiata, è scomparsa la vegetazione lussureggiante: è rossa, riarsa, ricoperta d’assenzio e di polverose erbacce, di secco e misero sparto che si rannicchia contro la terra screpolata. Alcuni buoi trascinano dei carretti, un cammello sta fermo in mezzo alla steppa. Il Volga si avvicina. Si avverte fisicamente l’immensità dello spazio invaso dal nemico, un terribile sentimento di angoscia stringe il cuore e impedisce perfino di respirare. Questa guerra nel Sud, questa guerra sul Basso Volga, questa sensazione come di un pugnale profondamente conficcato nella carne, questi cammelli e questa steppa piatta e riarsa, che annunciano l’approssimarsi del deserto, riempiono d’inquietudine.
Non si può più indietreggiare. Ogni passo indietro è una sventura, forse irreparabile” (AG, 39). […]
Stefania Nicasi, Buone ragioni per leggere Vasilij Grossman, SpiWeb, 12 maggio 2010

Oggi esce per la prima volta in Italia il suo “Stalingrado”. Racconta di madri che piangono i figli perduti, di soldati e commissari politici, di lager e gulag e delle anime perse che li abitano, di aerei in fiamme e amori infranti, di eroi e abiette creature, eppure in questo crudele, incendiario e sanguinoso racconto non è mai interrotto il filo che, dentro uno scenario di male e di sofferenza, racconta anche del bene, del “piccolo bene”. Di cosa sia il bene e cosa il male.
Grossman, ucraino di famiglia ebraica, fu inviato di guerra durante l’assedio di Stalingrado. Raccontò la ferocia dell’avanzata nazista e dei campi di concentramento ma anche le menzogne e i crimini del regime di Stalin: «La violenza estrema dei sistemi totalitari si è mostrata capace di paralizzare i cuori su interi continenti», scrive. Grossman in “Stalingrado” che esce per la prima volta oggi in Italia (da Adelphi) racconta eventi del luglio-settembre 1942, con qualche retrospezione ai mesi e all’anno precedente, “Vita e destino” invece, è incentrato sugli eventi del settembre 1942-febbraio 1943 con un epilogo alla primavera dello stesso anno. Grossman racconta di come si possano assassinare tutti insieme tanti esseri umani. Racconta di madri che piangono i figli perduti, di soldati e commissari politici, di lager e gulag e delle anime perse che li abitano, di aerei in fiamme e amori infranti, di eroi e abiette creature, eppure in questo crudele, incendiario e sanguinoso racconto non è mai interrotto il filo che, dentro uno scenario di male e di sofferenza, racconta anche del bene, del “piccolo bene” direbbe Grossman.
[…] In “Vita e destino”, per esempio, Grossman racconta di una vecchina a cui i nazisti hanno bruciato il villaggio. Un giorno due soldati entrano in casa sua e le ordinano di accudire un compagno ferito. Lui si lamenta, schiocca le labbra, il sangue gli impedisce di respirare. Lei prova rabbia nei confronti di quell’uomo: si rende conto che basterebbe poco per soffocarlo. E invece lo solleva, gli porge dell’acqua. Perché lo fa? Neppure lei sa spiegarselo. La donna riscopre in sé qualcosa che credeva di aver perduto, la bontà. La bontà è illogica, piccola, istintiva, senza testimoni e senza grandi teorie. È debole, fragile e questo è il segreto della sua immortalità. «In questa epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa» scrive Grossman.
A Grossman dobbiamo la descrizione forse più accurata degli inferni dei lager nazisti. Fu infatti tra i primi corrispondenti di guerra a entrare nel lager di Treblinka a seguito dell’Armata Rossa. Tutto ciò che Grossman vide lo documentò, trasformandolo in una narrazione poderosa e incalzante, che emoziona e sconvolge. In “Vita e destino” l’autore ha raccontato gli orrori commessi dai regimi totalitari in un resoconto storico appassionato che getta luce sulle figure più ambigue del secolo breve, Hitler e Stalin, ma accanto agli orrori è riuscito a cantare la vita anche nei tornanti più crudeli delle biografie e della storia, “la vita è più della felicità” dirà in “Vita e destino”.
La maestria narrativa di Vasilij Grossman risiede proprio nella capacità di raccontare la Storia universale attraverso le vite minuscole dei personaggi loro malgrado coinvolti in una delle peggiori catastrofi del ventesimo secolo. I protagonisti dell’opera di Grossman, sono donne e uomini, figli e figlie, gente semplice che si ritrova inviluppata nella rete violenta e implacabile degli anni di guerra.
[…] Nel 1961 Grossman, dopo che il KGB gli aveva appena sequestrato il suo grandissimo romanzo, “Vita e destino sulla guerra contro il nazismo”, intraprende un viaggio in Armenia dove è atteso per tradurre in russo l’opera di uno scrittore locale, tal Martirosjan. Sul soggiorno a Erevan e dintorni Grossman scrive degli appunti di viaggio che compongono un racconto di cento pagine che in cui è proprio il bene a finire in un titolo: “Il bene sia con voi!”, come recita un tradizionale saluto armeno. Non sono solo osservazioni sui luoghi e sulle persone che incontra ma getta anche uno sguardo sul mondo in generale. Ironico e disilluso, Grossman riflette sulle esperienze di una vita che ormai si approssima alla conclusione, tanto che “Il bene sia con voi!”, l’ultimo di nove racconti, si può considerare una sorta di testamento.
Grossman osserva cose e persone, riflette sulle etnìe, sulle migrazioni, sulla mostruosità della guerra e sulla storia dei popoli. Un racconto, “La Madonna Sistina”, è una riflessione di fronte al quadro di Raffaello che era stato trafugato nel 1945 dai sovietici e poi restituito alla città di Dresda dieci anni dopo. Il volto della giovane madre con il bimbo in grembo evoca a Grossman un’immagine analoga nell’inferno di Treblinka: La Madonna è entrata a piedi nudi, a passo lieve, nella camera a gas, stringendo il figlio tra le braccia…
La lettura di questa raccolta aiuta a respirare anche noi oggi ripiombati nell’oscurità della guerra e delle atrocità compiute non lontano da noi. Sin dal primo racconto “Il vecchio maestro”, scrive della “voglia di comprendere il miracolo della bontà umana che l’aveva sempre stupito, e la speranza di carpirlo a quegli occhi di bambina…” E in Il bene sia con voi, nota “È davvero ora di riconoscere che siamo tutti fratelli, I reazionari cercano sempre di estirpare, di eliminare il fondamento umano, l’essenza umana del carattere nazionale, ne propugnano ed esaltano sempre l’involucro esterno, la buccia, non il seme”.
In “Vita e Destino”, scrive: “La bontà è forte sino a quando è priva di forza. Appena la si vuole trasformare in forza, la bontà si perde, scolora, si offusca, svanisce. Come si spegne il male? Forse con le gocce di rugiada della bontà umana? La storia degli uomini non è dunque la lotta del bene che cerca di sconfiggere il male. La storia dell’uomo è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell’umanità. Ma se anche in momenti come questi l’uomo serba qualcosa di umano il male è destinato a soccombere”.
Di nuovo, non si può non apprezzare il talento dello scrittore. Descrive un progressivo straniamento: i soldati marciano e la marcia li porta sempre più lontani dal paesaggio familiare. Comincia un altro tempo, ci sono altri uccelli, un altro sole, poche piante, pochi animali quasi immobili. La natura se ne sta acquattata come prima di un temporale, tutto è sospeso. L’angoscia monta, il nemico fa ancora più paura perché non si vede. E’ bello questo “pensavamo a molte cose”, questo “noi” e questo “pensiero” che tengono insieme gli uomini, che li tengono saldi alla patria umana mentre vanno incontro al deserto, alla battaglia, all’ignoto, alla morte.
Grossman il coraggioso – come verrà soprannominato – comincia con la paura e comincia con l’umanità. In ogni soldato c’è un uomo che ha paura e che vorrebbe tornare indietro, verso quella casa, quei genitori, quella moglie, quei figli che ha lasciato per difendere: ma “non si può più indietreggiare”. Un ordine militare diventa un imperativo morale. Di fronte al male “non si può più indietreggiare”. Un passo indietro di fronte al male è una sventura irreparabile: Grossman adesso lo sa.
Riccardo Bonacina, Vasilij Grossman, raccontare il bene dentro il disastro e le atrocità, Vita.it, 3 aprile 2022

[…] Nulla nella vita di Grossman lasciava prevedere il destino avventuroso e tormentato. Dall’Ucraina della famiglia ebrea, va a lavorare nel Donbass, l’area industriale teatro della guerra 2014 tra russi e ucraini. Decide però di dedicarsi alla scrittura, i suoi racconti attraggono l’attenzione del patriarca delle lettere Gorky e le lodi di Bulgakov, genio sperimentale del Maestro e Margherita. Il timidissimo scrittore, con gli occhiali di tartaruga e i modi ben educati, viene apprezzato nei circoli della capitale, ma sono gli anni terribili delle purghe, l’era di Yezhov, capo della Nkvd, i cui agenti in giacca di cuoio arrestano milioni di innocenti di notte, finendoli poi, dopo grotteschi processi e torture orrende, con un colpo di pistola alla nuca. Così cadono il poeta Mandel’štam, il figlio della poetessa Akhmatova, lo scrittore Babel’, che pure era amico della moglie di Yezhov, e una generazione di contadini, intellettuali, operai, quadri. Il timido Grossman, quando l’ex marito della sua nuova compagna, Olga Mikhailovna, viene arrestato – e lei con lui secondo tragica usanza russa -, non esita a scrivere a Yezhov, chiedendo la liberazione della donna e facendosi affidare i figli. Bastava molto meno per finire al gulag o nella fossa comune. Grossman la scampa, dando la prima prova di coraggio.
Quando poi Hitler attacca la Russia nel 1941, l’intellettuale che non ha mai imbracciato un fucile si arruola e scrive per il giornale dell’esercito. Sfugge per un soffio all’avanzata tedesca, vede Berdicev cadere nelle mani naziste, saprà dopo che la mamma è stata giustiziata, con migliaia di ebrei, nei pogrom. Dalla ritirata dell’Armata Rossa, all’assedio e la controffensiva di Stalingrado, 1942-1943, fino alla battaglia di Kursk, il più grande duello di carri armati della storia, alla liberazione del Lager di Treblinka e la caduta di Berlino 1945, Grossman è in prima linea l’inviato più amato dai soldati. All’ombra di una tenda, accanto a un falò di campo, tra le barelle degli ospedali, vede i soldati, macilenti, stanchi, leggersi a vicenda gli articoli che firma, senza propaganda, fermandosi su un vecchio profugo fiero, una bambina senza casa, la solidarietà di chi divide il rancio congelato. In una pagina, oggi raccolta da Adelphi, fa la storia del mulo italiano, sopravvissuto alla rotta dell’Armir, che si innamora di una cavallina russa e, tra le risate dei soldati, nitrisce felice nella steppa, fiaba nell’orrore.
Tornata la pace, Stalin perseguita gli ebrei. Il Libro nero di denuncia dei pogrom nazisti, scritto con Il’ja Erenburg (Mondadori), viene censurato e Grossman si vede isolato, ridotto a tradurre dall’armeno il libro di uno scrittorucolo (non conosce la lingua, si fa aiutare da una versione interlineare). Ma non si amareggia, senza livore si impegna su “Vita e destino”, racconti e reportage, “Tutto scorre”, “La cagnetta”, “II bene sia con voi!” (Adelphi, anche ebook).
“Vita e destino” è libro del futuro, già del XXI secolo nel contenuto, mentre la forma del romanzo tradizionale tiene testa a “Guerra e pace” di Tolstoj. Perché nel dar conto della vita del fisico Viktor Štrum, isolato e poi salvato da Stalin con una telefonata, Grossman racconta il totalitarismo, Lager e gulag in un romanzo, Levi con Solzenicyn, ma anche la violenza e l’ipocrisia al potere, la viltà di chi si piega, umano, la forza degli eroi umiliati, i mostri persecutori e le vittime sacrificali, il passaggio repentino, per un caso bizzarro, da un ruolo all’altro. Nel secolo delle masse che cozzano tra loro, Grossman, cronista e scrittore, si ferma sull’individuo dolente e irriducibile, e vive nel nostro tempo, stagione di persone libere, contro l’orrore dell’intolleranza […]
Gianni Riotta, Vasilij Grossman. Lo scrittore russo moriva 50 anni fa. In Vita e destino ha narrato il Lager, La Stampa, 8 settembre 2014