Sono numerose le occasioni in cui Togliatti tenta di correggere il rivoluzionarismo

Milano: Naviglio Grande

Nonostante la gravità delle perdite subite, dovute a tradimenti o confessioni estorte sotto tortura, nelle piccole e grandi città del Centro-nord i Gap mantengono ed estendono la loro iniziativa.
Il loro sviluppo – con le Sap dall’estate ’44 – avviene in interazione con la crescita della mobilitazione sociale, mentre l’autunno-inverno 1944-’45 segna il periodo della massima difficoltà per l’azione gappista.
Un esempio può essere dato dalla città di Milano. Qui dall’autunno ’43 i Gap sono protagonisti della resistenza nascente. Forse per l’eccesso di sicurezza derivante dall’esito del ciclo di operazioni intenso e cruento dei primi mesi, un anello dell’organizzazione si rompe. La polizia segreta della Rsi penetra fino al vertice. Il comandante Egisto Rubini, garibaldino di Spagna e organizzatore dei Ftp francesi, arrestato e sottoposto a interrogatorio riesce a impiccarsi in cella; Vittorio Bardini, commissario politico del comando, e Cesare Bruno Roda, capo di stato maggiore, anch’essi combattenti della Repubblica spagnola, sono catturati e deportati a Mauthausen. Altri gappisti vengono arrestati o uccisi. A fine maggio 1944 il comando generale garibaldino chiama da Torino a Milano Giovanni Pesce perché ricostruisca la III brigata Gap. Egli riesce a riorganizzare il gruppo e tra fine giugno e settembre la guerriglia urbana riprende con ritmo incalzante (distruzione di locomotori e attrezzature fisse alla stazione e deposito di Milano-Greco e di due aerei al campo militare di Cinisello, imboscate ad automezzi sulle arterie che collegano Milano a Torino e Varese, attacchi ai militari tedeschi o di Salò).
Valentine Braconcini, La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007-2008

Egisto Rubini («Rossi», «Angelo Burrani»), nato a Molinella nel 1906, muratore. Emigrato in Francia per sottrarsi alle persecuzioni fasciste è, dall’ottobre 1936, volontario in Spagna nelle file del battaglione e, poi, della brigata Garibaldi. Gravemente ferito al ventre nel luglio 1937 a Brunete, rientra invalido in Francia dove, dopo il 1942, riprende la lotta contro i tedeschi diventando comandante dei Francs-tireurs-partisans operanti nel Lot-Garonne e, in seguito, comandante dei distaccamenti Ftp a Nizza e nelle Alpi Marittime, partecipando direttamente a numerose azioni. Richiamato in Italia dal partito nel settembre 1943, dirige insieme a Vittorio Bardini e Cesare Roda il primo Comitato militare di partito della Lombardia, in qualità di responsabile delle azioni; poi dal gennaio 1944 è comandante militare della 3ª brg Garibaldi Lombardia (dal giugno 1944 3ª brg Garibaldi Gap Lombardia, dal dicembre 3ª brg Garibaldi Gap “Egisto Rubini”).
Arrestato a Milano da agenti dell’Ufficio speciale dell’UPI il 18 febbraio 1944 in piazza Mario Asso (attuale piazza Gramsci) in seguito a rivelazioni di un gappista torturato. Incarcerato a San Vittore, per il timore di non reggere ulteriormente le bestiali torture infertegli dagli sgherri del’Ufficio speciale diretto dal tenente della GNR Manlio Melli, nella notte del 25 febbraio si impicca nella cella 121 del V Raggio.
Luigi Borgomaneri, Episodio del carcere di San Vittore, 25.02.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

La rivitalizzazione del gappismo milanese è legata all’operato di Giovanni Pesce, il quale, nell’estate 1944, riesce ad articolare la 3ª brigata GAP Lombardia su 3 distaccamenti: il distaccamento Nino Nannetti, formato da un gruppetto di partigiani dislocati a Mazzo, il distaccamento Walter Perotti, a partire da giovani di Niguarda, il distaccamento Capettini, basato su un gruppo di porta Romana e alcuni ragazzi di porta Ticinese <142. Si tratta di nuclei di combattenti cresciuti nello stesso ambiente e che si conoscono fin dall’infanzia, il che, ovviamente, contrasta con le regole della clandestinità, ma, come già capitato altre volte, «la rigida e pedissequa applicazione delle norme cospirative comporterebbe un rallentamento o una stasi della lotta che le circostanze non consentono» <143. Se è vero che, tra il giugno e l’agosto del 1944, i distaccamenti dimostrano determinazione e combattività, mettendo a segno oltre 30 azioni <144, è altrettanto certo che la struttura risulti molto esposta al rischio di infiltrazioni e di cadute in serie. La delazione di Giovanni Jannelli, nome di battaglia «Arconati», un uomo che, malgrado legami familiari sospetti <145, è riuscito ad innestarsi nell’organizzazione gappista milanese, mette in ginocchio la brigata. Pesce, scampato per caso ad una trappola tesagli da Jannelli in piazza Argentina il 12 settembre, è costretto a trasferirsi. La situazione che egli trova al suo ritorno a Milano, avvenuto nel dicembre 1944, è durissima, tanto che egli lamenta di sentirsi «provato, teso e solo» <146.
Malgrado la 3ª brigata GAP Lombardia non cessi di esistere, la sua consistenza numerica e la quantità di azioni messe a segno risultano molto ridotte, così che, anche a Milano, come a Genova e a Torino, sono le SAP ad assumere un protagonismo sempre crescente nei mesi che precedono la liberazione e nelle giornate insurrezionali dell’aprile 1945, relegando i Gruppi di azione patriottica ad un ruolo di secondo piano <147.
[NOTE]
142 Pesce, Soldati senza uniforme, cit., p. 99.
143 Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera, cit., p. 182.
144 Per citarne alcune: nella notte tra 24 e 25 giugno 1944, una successione di esplosioni al deposito ferroviario di Greco distrusse 5 locomotive, 2 locomotori, un carrello trasportatore e un deposito di carburante; il 9 luglio fu eliminata la spia Domenico Ravarelli; il 12 luglio il distaccamento Capettini fece saltare in aria i cavi telefonici che collegavano Milano, Torino e Genova; il 26 agosto, alla Stazione centrale, il gappista Tino Azzini depose nel locale di ristoro per truppe tedesche uno zaino pieno di dinamite, la cui esplosione uccise 5 soldati e ne ferì una ventina.
145 La madre, tedesca, era cugina del sergente Wernig, comandante delle SS di stanza a Monza, mentre la sorella era l’amante di una SS.
146 Pesce, Senza tregua, cit., p. 281.
147 Peli, Storie di Gap, cit., p. 156.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019

E tuttavia la critica e l’autocritica della Federazione comunista milanese riguardo la necessità di costituire gruppi armati di difesa e nuclei partigiani in fabbrica non supererà i limiti della teoria.
Questa è anche la principale problematica emersa nel grande sciopero generale del marzo 1944.
Come già accennato, una reazione molto dura si abbatte sugli scioperanti: oltre 300 famiglie vengono colpite; si intensifica la militarizzazione non solo delle fabbriche, ma anche del territorio; l’attendismo che faticosamente i comunisti, assieme a un’ala di azionisti e socialisti, provano a rompere nella classe operaia, viene rinnovato a causa della delusione dei lavoratori in seguito ai fallimenti dello sciopero di marzo. Sono molto lunghi i mesi estivi e, ancora di più, quelli invernali dove alla faticosa riorganizzazione della Resistenza urbana si unisce la situazione generale della guerra, soprattutto quando i nazifascisti lanciano una controffensiva militare in Europa e contro il movimento partigiano in Italia.
Le parole d’ordine della lotta urbana, sia essa armata che sindacale, sono “la lotta contro fame, freddo e terrore nazifascista”. I nuovi nuclei gappisti, sebbene destinati progressivamente a una posizione secondaria rispetto al processo insurrezionale, conoscono una nuova intensa fase di attività nell’estate e poi, dopo la seconda crisi di settembre, nell’inverno ’44-’45, nonostante le condizioni estreme; sono invece le Squadre di azione patriottica a rappresentare d’ora in avanti il vero strumento insurrezionale e la reale connessione tra lotta di massa e lotta armata, grazie alla composizione, ai principi organizzativi che le ispirano, al loro legame con la realtà esterna alla fabbrica. Tuttavia, perché l’azione delle SAP risulti efficace è necessario che ci sia un contesto favorevole attorno e le difficoltà non saranno poche, soprattutto a causa dei numeri ridotti e del persistente attendismo di lavoratori e quartieri popolari.
L’estate-inverno ’44 è infatti generalmente caratterizzato dall’”assordante silenzio delle fabbriche”: alle bombe e agli attentati dei GAP, all’organizzazione sappista, all’estensione dei CLN ad ogni livello da parte del fronte antifascista, non fa seguito una risposta operaia, nemmeno di fronte al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Gli episodi di questa fase bassa di conflitto sono sporadici e comunque isolati: l’11 agosto si prova a convocare uno sciopero di protesta contro l’eccidio di piazzale Loreto, ma solo la Pirelli risponde con alte adesioni all’appello; a fine mese si verificano proteste pacifiche interne alla Breda, la Borletti e la Pirelli sulla base di alcune richieste relative a viveri e ferie; il 21 settembre un tentativo di nuovo sciopero generale si risolve in un fallimento (a conferma della persistenza degli effetti negativi della sconfitta di marzo): due interi settori strategici della città (sud-est e ovest) e il fortilizio operaio di Sesto San Giovanni non sono coinvolti; il 19 ottobre è la Breda sestese a inaugurare uno sciopero che dura due giorni; infine il 23 novembre si prova a lanciare un nuovo sciopero generale, l’ultimo prima della ripresa del febbraio ’45, la cui estensione risulta piuttosto limitata.
Le mobilitazioni, in parte spontanee, in parte guidate dai militanti comunisti (e socialisti, nel caso della Pirelli), hanno avuto il merito di tenere in agitazione una classe operaia altrimenti lasciata preda della depressione politica. Ma le agitazioni risultano incapaci di superare il carattere economico, l’effetto politico del terrore è ancora molto forte.
Da fine settembre si sono susseguiti fermate di protesta e scioperi brevi per strappare aumenti e anticipi salariali, generi alimentari, vestiario, carbone, copertoni di biciclette e generi ormai irreperibili, ma il potere contrattuale della classe operaia è scemato con il venire meno delle materie prime dalla Germania. Manca tutto, si patisce fame e freddo, ma organizzare la protesta si fa sempre più difficile e, quando avviene, la sua capitalizzazione politica è tutt’altro che certa. <285
Nonostante ciò, l’attesa insurrezionale è rimasta radicata nell’immaginario operaio di molte fabbriche milanesi, dove piccoli e tenaci nuclei proseguono il lento e delicato lavoro di organizzazione e politicizzazione. Fra tanti, tre esempi: alle Acciaierie Redaelli di Rogoredo “esiste molto entusiasmo fra la massa – scrive “Sergio” – ma poca volontà di fare subito qualche cosa. Tutti aspettano “el Barbisùn” [n.d.r.: Carlo Camesasca]. […] La massa vede l’insurrezione come una liberazione e [è] quasi totalmente disposta a battersi quando verrà il momento buono”.
Alla Lagomarsino “la massa vede con piacere e attende con impazienza l’avvicinarsi del momento insurrezionale, con poca tendenza però a prenderne parte”. Alla Borletti “non viene sufficientemente valutato lo sviluppo della lotta di tutti i giorni come sviluppo della lotta insurrezionale […] questo modo di ragionare non è molto lontano da quello di diversi compagni […] e li porta più a fare progetti per il domani che azioni oggi”. <286
Ciò che ha insegnato il breve ciclo dell’autunno-inverno ’44 è che la fabbrica non è sufficiente, perché all’interno di essa gli operai resteranno concentrati sul terreno strettamente economico salariale e soprattutto diventano facile bersaglio della repressione. Se la lotta deve essere “contro il freddo, la fame e il terrore” allora gli strumenti principali devono tutti riguardare una lotta armata che sia di tutela e autodifesa, da una parte, e di contrattacco, dall’altra. Dunque, le SAP cominciano a funzionare sempre di più come squadre di difesa nelle azioni di rifornimento di carbone e legna, oltre che di viveri, contrastando il mercato nero alimentato anche dai nazifascisti; mentre i GAP devono intensificare i loro attacchi, da orientarsi su “grandi e clamorosi colpi” (fino all’ordine di cessazione del terrorismo nei luoghi di ritrovo pubblici, verso febbraio).
Una lotta armata dunque che non faccia più da detonatore della mobilitazione e dell’insurrezione, come era all’inizio, ma che sia ispirata al principio dell’avanguardia armata dei moti popolari e dell’azione sindacale.
Su l’Unità del 10 gennaio 1945 compare un articolo, attribuito a Eugenio Curiel (fondatore del Fronte della gioventù), dove si esprime chiaramente la svolta anche teorica del processo insurrezionale: “Organizzare la lotta significa raccogliersi nei Comitati di liberazione di rione e di villaggio, di fabbrica e di categoria, consolidare ed estendere la rete dei Comitati di agitazione e dei Comitati contadini, vuol dire riunire le donne e i giovani nelle organizzazioni unitarie di massa dei Gruppi di difesa e del Fronte della gioventù”. <287
Non è possibile ignorare le tracce di una cultura rivoluzionaria di antica data, che va oltre e per certi versi supera la svolta ciellenistica e unitaria che il movimento antifascista ha attuato negli ultimi mesi di guerra civile. Beninteso, cultura rivoluzionaria propria non solo della base e dei ceti subalterni, ma insita anche nella strategia togliattiana sancita dalla “svolta di Salerno” e che prevedeva una ramificazione dell’organizzazione comunista a tutti i livelli della società.
Sulle SAP, sul proliferare di comitati di base e insurrezionale, si incontreranno in modo spesso contraddittorio aspirazioni rivoluzionarie e tatticismo della dirigenza comunista. Sono numerose le occasioni in cui Togliatti tenta di correggere il rivoluzionarismo, di cui in particolare accusa la Direzione del partito nell’Alta Italia: “[Togliatti invita l’intero partito a] ricordarsi sempre che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista o comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo […] In conformità con questa linea generale dovete risolvere i problemi di organizzazione del fronte armato del popolo e dell’insurrezione […]”. <288
Ai primi di gennaio 1945 la Federazione comunista milanese delinea un bilancio dell’espansione organizzativa del partito in Lombardia, da cui Borgomaneri ha tratto le seguenti considerazioni: “Dalle poche centinaia di iscritti al Pci nel luglio 1943, si è passati a 3.500 circa nell’aprile 1944, a 6.000 alla fine di agosto e si è arrivati a quasi 10.000 a fine anno, con oltre 6.000 militanti in città e 3.445 in provincia […] Lo sforzo massimo di penetrazione è stato indirizzato verso i luoghi di produzione, tanto che, in Milano, a 53 cellule di strada (la cui composizione è peraltro prevalentemente operaia) fanno riscontro 164 cellule di fabbrica distribuite tra le 159 aziende in cui si conta una presenza comunista che influenza, in misura diversa, 134 mila lavoratori tra operai e impiegati […]”
La tradizione e l’immaginario collettivo identificano la forza, l’influenza e la capacità di mobilitazione del PCI con la grande fabbrica, battistrada della classe operaia nelle grandi lotte, ma la mitizzata onnipresenza comunista tra la classe operaia deriva da una ramificazione organizzativa che ha portato il partito anche in decine e decine di piccole fabbriche e di sconosciute officine della periferia milanese con una presenza percentuale degli iscritti inversamente proporzionale al numero delle maestranze occupate. E’ lì, nella piccola industria e soprattutto nel più delimitato spazio della fabbrichetta e dell’officina, nelle possibilità offerte dal contatto quotidiano che il militante comunista, quasi sempre maturo operaio specializzato o qualificato, raccoglie consensi e proseliti forte di quell’ascendente e di quella credibilità che, in un’epoca ancora di operai di mestiere, deriva dall’esperienza e dall’indiscussa e ammirata professionalità non disgiunta da un’orgogliosa etica del lavoro. <289
Molto più debole invece la presenza comunista tra i ceti medi e soprattutto tra i lavoratori della terra.
Questo è il quadro con cui il PCI e il movimento operaio affrontano gli ultimi mesi di guerra civile. Il livello della lotta armata, in particolare le azioni gappiste e le rappresaglie nazifasciste, raggiungono considerevoli picchi di violenza; al tempo stesso, il panorama della guerriglia urbana si diversifica e si estende, non solo per il crescente numero di SAP Garibaldi. Importante rilevare il crescente numero di giovani, provenienti soprattutto dai quartieri popolari, all’interno delle formazioni armate. Il lavoro organizzativo fatto nei mesi precedenti di “lotta alla fame e al freddo”, per le necessità di base della popolazione, ha dato i suoi frutti, mentre in fabbrica si acquista nuova fiducia e le mobilitazioni ripartono in un crescendo che culmina nel 25 aprile 1945: 23 febbraio: il lavoro viene sospeso in molte fabbriche per ricordare la nascita dell’Armata Rossa e commemorare i partigiani della 3° Gap caduti un anno prima; 28 marzo: oltre un centinaio di fabbriche milanesi si blocca per chiedere viveri, aumenti salariali e protestare contro la brutalità dell’occupazione nazifascista; 10 aprile: l’intero complesso industriale di Sesto San Giovanni entra in sciopero; 14 aprile: non di uno sciopero si tratta, ma di numerose manifestazioni di strada organizzate dai Gruppi di difesa della donna.
Le SAP e i comitati di rione, certo composti da simpatizzanti o militanti antifascisti, uniscono alle azioni pubbliche più importanti anche un insieme di piccole azioni che vanno a comporre la quotidianità di mercati, cinema, caseggiati nel mese e mezzo che precede la Liberazione: comizi volanti, attacchinaggi notturni e così via.
“È una marea che monta fino al 28 marzo, quando più di cento fabbriche milanesi scendono in sciopero per due ore raggiungendo punte di astensione non più registrate dal marzo 1944. A sostenerle, a differenza di allora, ci sono le Sap: attorno alle officine i comandi di brigata stendono un cordone sanitario di oltre mille uomini in bicicletta, collegati da staffette e pronti a intervenire in caso di bisogno. L’unica reazione fascista si verifica a Turro, contro un comizio cui partecipano gli operai della Magnaghi e le lavoratrici della Manifattura Turro. Ne nasce una sparatoria, cadono due brigatisti neri e un garibaldino, ma è un episodio isolato. […] È in questo contesto che avviene l’eliminazione di Cesare Cesarini, la più nota delle azioni di Giovanni Pesce, maturata qualche settimana prima nel chiaro intento di lanciare un messaggio forte nelle fabbriche”. <290
Quando giunge la Liberazione il 25 aprile, la classe operaia milanese viene dunque da più di due anni (se consideriamo il marzo ’43 come effettivo iniziato del ciclo conflittuale resistenziale) in cui ha avuto modo di formarsi politicamente e dal punto di vista organizzativo. La politica del conflitto che ha costruito in fasi differenti, dai tratti sicuramente insurrezionalisti e influenzata da una cultura rivoluzionaria di vecchio corso, risvegliata dall’intensità degli ultimi venti mesi, rappresenta il punto di partenza per comprendere la difficile normalizzazione del dopoguerra.
[NOTE]
285 L. Borgomaneri, Li chiamavano terroristi. Storia dei Gap milanesi (1943-1945), p. 304, Unicopli 2016
286 Ibidem, p. 304-05
287 E. Curiel cit. in S. Peli, op. cit., p. 117
288 Appello di Ercoli in La nostra lotta, II (agosto 1944), n. 13, p. 15 cit. in S. Peli, op. cit., p. 116
289 L. Borgomaneri, op. cit., Due inverni, un’estate e la rossa primavera, pp. 281-82
290 L. Borgomaneri, op. cit., Li chiamavano terroristi, pp. 331-32
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016/2017

Partigiani in Via Palanzone a Milano – Fonte: Antonio Masi, op. cit. infra

Pesce era stato individuato. Fu trasferito a Milano al comando della III Brigata Gap, subentrando al comandante Rubini, suo compagno della guerra di Spagna, che arrestato e torturato era morto suicida in carcere. Organizzò un gruppo di sabotatori a Rho e iniziò la «guerra dei binari». Prese il nuovo nome di battaglia di «Visone» in omaggio al paese natio. Il suo gruppo, quattro ferrovieri e due staffette, «Sandra» e «Narva» («le signorine tritolo»), fece saltare treni, vagoni, centrali di smistamento, due quadrimotori parcheggiati all’aeroporto di Cinisello.
I nazisti cercarono in tutti i modi di sgominare i Gap. Un giorno, Pesce ebbe l’impressione di essere pedinato. Strinse forte il braccio della staffetta che gli aveva appena portato un messaggio. Era Onorina Brambilla, detta «Nori», nome di battaglia Sandra. «Perché – aveva chiesto Sandra – mi stringi così forte il braccio?». «Ho l’impressione che siamo pedinati. È meglio comportaci come due innamorati». «Ma lo so – aveva detto Sandra – che non sei innamorato». Quella volta Visone e Sandra furono fortunati. Ma qualche giorno dopo, a causa di una spiata, Sandra e l’altra staffetta Narva furono arrestate e torturate dai nazisti per giorni e giorni. Sandra fu deportata nel campo di concentramento di Bolzano.
Per un periodo Pesce aveva dovuto lasciare Milano per Rho per comandare la 106º Brigata Garibaldi Sap. A dicembre 1944 era stato richiamato a Milano per organizzare l’insurrezione generale.
Arrivò il 25 aprile, finalmente la Liberazione. Quel giorno Pesce aveva catturato un alto ufficiale tedesco, presuntuoso ed arrogante. Quando gli aveva detto nome e il grado – «Visone, comandante dei Gap» – il tedesco era quasi svenuto. Pesce mi aveva accennato anche alla fucilazione di Mussolini: «Non è stato il colonnello Valerio (Walter Audisio) a sparare». Vista la mia curiosità, fece un sorrisetto misterioso e aggiunse solo: «È stato Aldo Lampredi», un autorevole personaggio del PCI clandestino. Tre mesi dopo la fine della guerra, Pesce aveva sposato Nori, la staffetta Sandra, sopravvissuta al campo di concentramento di Bolzano.
Giancarlo Bocchi, Giovanni Pesce si racconta, Il Manifesto, 10 agosto 2007

Niguarda: barricata davanti alla fabbrica Aquila il 24 aprile 1945 – Fonte: Antonio Masi, op. cit. infra

In questo quadro si aggiungono le continue agitazioni nelle fabbriche che si susseguono periodicamente, considerato il crescente calo della produzione che comporta pochissime ore di lavoro per gli operai. Fallisce lo sciopero generale organizzato il 23 novembre ’44. La mancanza di combustibile e di materie prime non consente agli operai di strappare nuove concessioni al padronato. Lo sciopero rivendicativo è sterile, disarmato. La classe imprenditoriale risponde allo sciopero con la serrata, i tedeschi ne fanno una pura e semplice questione di ordine pubblico. <35 Il bando del maggio 1944, con cui il Fuhrer aveva chiesto ben un milione e mezzo di uomini da mandare in Germania nei campi di lavoro si è rivelato un fallimento. Meno del 20% dei precettati ha dato la propria disponibilità. L’obiettivo a cui puntavano i fascisti col bando, era quello di assumere un ruolo sempre più attivo nel campo del reclutamento della manodopera e del controllo della produzione. <36
[…] Il punto più elevato dell’efficienza militare dei gappisti lo si raggiunge con l’eliminazione di Cesare Cesarini, “il boia” della Caproni. Tenente colonnello della “Muti”, capo dell’ufficio personale della fabbrica di Taliedo, è il principale responsabile della deportazione di centinaia d’operai nei campi di sterminio. L’azione è conseguenza dei continui richiami alla intensificazione e all’aumento delle azioni dei partigiani da parte del Comando generale delle Garibaldi. Cesarini è già stato bersaglio di due attacchi da parte di nuclei partigiani non gappisti. Due attacchi andati a vuoto. Pesce ne parla con Giuseppe Alberganti, quest’ultimo preme su “Visone” affinché “il boia” sia giustiziato per «dare un segno molto forte della nostra presenza alla popolazione». Il comandante dei GAP dopo alcuni sopralluoghi assai circostanziati, miranti alla “misurazione” delle possibilità di buon successo, ribadisce le estreme difficoltà al partito, il quale tuttavia si oppone respingendo qualsiasi perplessità. Pesce è costretto ad agire in solitaria, assistito da un solo compagno che avrebbe portato sul posto una bicicletta per la fuga. Cesarini abita in Piazza Grandi, abitudinariamente esce di casa alle 7.30 scortato da due guardie del corpo. L’unica possibilità per affrontarlo ed eliminarlo è un faccia a faccia a sorpresa. Pesce di buon ora si mette in cammino attraversando viale Campania ed arrivando in Piazza XXII Marzo, dove nota il compagno in sua attesa con la bicicletta fra le mani. Sopraggiungono in piazza Grandi alle 7.50 del mattino. Cesarini è in ritardo di qualche minuto, poi improvvisamente appare con a fianco le due guardie. Pesce gli si avvicina lentamente, a due metri da lui gli dice: «Ora avrai finito di far deportare lavoratori in Germania!». Cesarini colpito dai colpi delle rivoltelle cade stramazzando al suolo assieme alle sue guardie (una delle due sopravvivrà all’attentato). “Visone” inforca la bicicletta udendo in lontananza i commenti e gli applausi della folla. Per timore d’essere seguito, Pesce, non si dirige verso la base di via Macedonio Melloni, al contrario è la madre di “Sandra” (in quel periodo detenuta a Bolzano) a dargli accoglienza per qualche ora. <38
E’ l’ultimo grande capitolo dei GAP prima della liberazione. Il resto è storia.
Il 9 aprile ha inizio l’offensiva alleata nella pianura padana. Gli scioperi con le azioni armate delle SAP continueranno ininterrottamente sino al 25. Il fascismo viene definitivamente seppellito, Mussolini fugge a Como. La sicura condanna a morte del duce è ribadita nel proclama legislativo del CLNAI. La Pirelli, l’Innocenti e l’OM saranno le prime fabbriche a cadere nelle mani dei partigiani. Alle ore 8 del 26 aprile radio Milano ordina l’insurrezione: «in queste ore il mondo vi guarda. Nel nome dei vostri martiri date prova del vostro valore e dimostrate di essere degni della libertà per la quale avete tanto combattuto e sofferto». L’Italia è libera.
[NOTE]
35 L. Borgomaneri, Due inverni un’estate e la rossa primavera, 1995 pp. 242-284
36 L. Ganapini, Una città, la guerra (Milano 1939-1951), 1988, p. 144
38 F. Giannantoni, I. Paolucci, Giovanni Pesce “Visone” un comunista che ha fatto l’Italia, 2005, pp. 145-146
Giorgio Vitale, L’altra Resistenza. I GAP a Milano, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2008/2009

Il 26 aprile i partigiani occupano la Legione Autonoma di Polizia Ettore Muti, famigerata perché composta dai peggiori elementi dello squadrismo fascista. Nel pomeriggio del 26 aprile, i partigiani delle Brigate Matteotti liberarono i patrioti rinchiusi nel carcere San Vittore, divenuto luogo sinistro per ebrei e partigiani, qui ammassati prima della deportazione. Un volantino che annunciava l’evento fu distribuito anche a Niguarda, con la gioia di molti familiari che in quel carcere avevano i loro cari. Ecco il volantino: «Porte spalancate a San Vittore. La dilagante insurrezione ha raggiunto la grigia costruzione di pena; forze patriottiche hanno fatto pressione perché i cancelli venissero spalancati; i tedeschi e i fascisti hanno tentato di resistere, ma hanno dovuto indietreggiare. I prigionieri hanno rivisto la libertà».
Il 26, 27 e 28 aprile furono giorni di tensione anche per i partigiani di Niguarda. Fascisti allo sbando e tedeschi in ritirata provocavano panico per le vie di Milano. A Niguarda su un camion requisito ai tedeschi viene sistemata una mitragliatrice che gira per il quartiere. Il comandante della 110ª Brigata restò tutta la notte nella sede del Comando del CLN in Via Paolucci di Calboli. Solo il giorno 27 don Aniceto Pagani riuscí a far accettare la resa alle forze repubblichine della caserma di Pratocentenaro e solo il 30 aprile si smantellarono le barricate. Le staffette del CNL niguardese riferivano della necessità di rinforzi ai partigiani ancora impegnati negli scontri contro fascisti e tedeschi, asserragliati nelle caserme di Via Melchiorre Gioia, di Porta Volta, di Crescenzago.
[…] Enrico Riva e Bruno Cerasi erano impegnati nei pressi di Piazzale Loreto quando giunse loro la notizia della fucilazione del gerarca Starace, bloccato a Porta Ticinese dai partigiani della 116ª Brigata. I dirigenti partigiani furono impegnati a far rispettare anche a Niguarda i decreti del CLNAI che prevedevano tribunali di guerra per i prigionieri e vigilanza sul rispetto delle sentenze per evitare rappresaglie personali. Finalmente il 30 aprile ci fu la resa delle truppe tedesche, comandate dal colonnello Goldbeck, trincerati nell’Hotel Regina.
Non poche furono le difficoltà di Luigi Longo in seno al CLNAI su chi doveva mantenere l’ordine pubblico in città: i partigiani o i carabinieri con il vecchio apparato di polizia, dove in maggioranza erano fascisti e riemersero i contrasti già manifestati nei giorni prima dell’insurrezione. Chi aveva sostenuto il fascismo voleva un trapasso pacifico e burocratico e premeva affinché la resa dei tedeschi avvenisse nelle mani degli avamposti anglo-americani. Mussolini ne approfittò e voleva consegnare “le chiavi della città” nelle mani del Cardinal Schuster, e mettere a sua disposizione i suoi militi ancora asserragliati nelle caserme della Muti, della X Mas e della Resega.
Secchia informò Longo del piano del ministro fascista Tarchi che voleva un accordo con il CLN prima dell’insurrezione. La decisione che prevalse in seno al CLNAI fu netta: la cacciata dei tedeschi e dei fascisti e che tale obiettivo si poteva raggiungere solo con la lotta. E seguí la direttiva n. 16 del 10 aprile 1945: “1. L’ora dell’attacco finale è scoccata. L’esercito tedesco è in rotta disordinata su tutti i fronti. L’offensiva sovietica sull’Oder e l’offensiva anglo-americana in Italia saranno gli atti finali della battaglia vittoriosa. Anche noi dobbiamo scatenare l’attacco definitivo. 2. Deve essere continuato il lavoro di disgregazione delle file avversarie. Si tratta di offrire una via di scampo e di colpire duramente chi intende resistere. Arrendersi o perire. Si dovrà colpire duramente quanti non si arrendono, per dare la prova che la nostra intimazione non è una inutile bravata. 3. Può darsi che questa sia l’ultima direttiva che le nostre organizzazioni potranno ricevere dal centro del partito: per nessuna ragione si devono accettare proposte, consigli, piani tendenti a limitare, a evitare, a impedire, l’insurrezione nazionale di tutto il popolo. L’insurrezione nazionale deve essere, ripetiamo, insurrezione di tutto il popolo. 4. Queste sono le precise direttive che noi diamo a tutte le nostre organizzazioni, a tutti i nostri compagni in questo momento decisivo per l’insurrezione nazionale. Che tutti siano decisi a dare tutti se stessi per portare il nostro popolo all’insurrezione vittoriosa e alla libertà”.
Antonio Masi, Dall’Internazionale a Fischia il vento a Niguarda. L’insurrezione popolare del 24 aprile e l’impegno per la Costituzione (Collaborazione e ricerche di Michele Michelino – Introduzione di Roberto Cenati), Collana Il Cormorano 37, Edizioni Eva, Venafro (IS), 2011