9 febbraio 1941: bombardamento navale di Genova

La portaerei HMS Ark Royal. Fonte: Wikipedia

Nel corso della seconda guerra mondiale, il Mar Ligure ha costituito un teatro operativo quasi di secondo piano: infatti, non sono molti gli eventi navali di rilievo che hanno avuto luogo nel Golfo di Genova e nelle acque limitrofe, e – tra il 1940 e il 1943 – le potenzialità industriali e cantieristiche della Liguria ebbero sicuramente preminenza rispetto ad aspetti più propriamente bellici ed operativi.
In realtà, il 14 giugno 1940, dopo soli quattro giorni dall’entrata in guerra dell’Italia, quattro incrociatori ed undici cacciatorpediniere francesi – usciti da Tolone – erano giunti di sorpresa di fronte alle zone industriali di Savona-Vado e Genova effettuando un breve bombardamento. La pronta reazione delle batterie costiere, dei treni armati della Regia Marina e l’intervento della torpediniera Calatafimi costrinsero al ritiro la squadra francese che, sulla rotta di rientro, fu anche attaccata dai Mas della 13 a Squadriglia (1).
L’armistizio tra l’Asse e la Francia, tuttavia, rese le acque liguri molto più tranquille e – nel contempo – la Regia Marina e la Royal Navy furono subito coinvolte nella protezione diretta e indiretta dei propri traffici convogliati, su rotte la cui natura rendeva inevitabile il confronto tra le due flotte nel Canale di Sicilia, nelle acque libiche, nella zona di Malta e nel Mar Ionio (2).
Se allo scontro di Punta Stilo la Regia Marina poteva allineare due sole corazzate (Giulio Cesare e Conte di Cavour), all’inizio dell’autunno del 1940 la squadra da battaglia italiana era forte di sei unità, con il rientro in servizio dell’Andrea Doria e del Caio Duilio successivo a un lungo periodo di lavori di rimodernamento, e la piena operatività delle nuove “35.000” Vittorio Veneto e Littorio.
Il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio 1941, effettuato dalle unità della “Forza H” al comando dell’amm. Somerville: l’interpretazione britannica del “command of the sea” nel Mediterraneo occidentale e le manchevolezze dello strumento aeronavale italiano poche settimane prima di Matapan.
Articolo pubblicato sul n. 161 (Febbraio 2007) della rivista ‘Storia Militare’ e riprodotto per gentile concessione della Casa Editrice Albertelli.

[NOTE]
(1) Si veda: Hervieux, P.: Il bombardamento navale del 14 giugno 1940 , in “STORIA Militare” n. 110 (novembre 2002)
(2) La Marina italiana si trovò infatti impegnata con direttrice Nord-Sud per il sostegno logistico del fronte libico, mentre l’attività della Marina britannica era indirizzata sul corso dei paralleli, con operazioni di rifornimento di Malta aventi come punti di partenza Alessandria o Gibilterra, e trasferimenti di unità navali tra queste due basi strategiche.
Redazione, L’operazione “Grog”, Capitani Camogli

Ricorderemo qui i due attacchi principali partiti dalle navi francesi e inglesi, il primo subito dopo la dichiarazione di guerra, il secondo, molto più devastante, il 9 febbraio del 1941. Sono trascorse infatti solo poche ore dalla conquista di Parigi da parte dell’esercito tedesco, il 14 giugno 1940, quando dal porto di Tolone parte un attacco agli impianti industriali di Genova e Savona. Una squadra composta dagli incrociatori Dupleix e Colbert e dai cacciatorpediniere Vautour e Albatros bombarda la zona industriale tra Sestri Ponente e Arenzano, trovando ben poca resistenza, considerato che la squadra navale italiana è ancora concentrata nel porto di Taranto. I danni materiali alle strutture non sono gravi, mentre le perdite tra i civili si limitano a tre morti.
Ma se questo attacco avviene solo per reazione alla dichiarazione di guerra, molto più articolato è il bombardamento navale britannico del 9 febbraio 1941, nell’ambito della cosiddetta Operazione Grog, scatenata dopo la cosiddetta “notte di Taranto”, nel novembre 1940, nella quale la flotta italiana viene gravemente danneggiata da una serie di attacchi aerei britannici. L’attacco, favorito dalla grave carenza di protezione contraerea anche per la mancanza di radar, ha un effetto devastante sulla Marina italiana. Tanto che gran parte della flotta italiana viene trasferita nelle basi del Mar Tirreno, ma gli inglesi decidono di bombardare una di queste basi, per dimostrare che neanche in quella zona sarebbero state al sicuro.
L’obiettivo dell’Operazione Grog è quindi il porto di Genova, perché si ritiene che vi siano in riparazione tre navi da battaglia, ma non vengono trascurati neppure gli scali della Spezia, di Pisa e di Livorno. L’obiettivo principale è comunque “politico”: il 12 febbraio è in programma, a Bordighera, un incontro fra Benito Mussolini e Francisco Franco, nel corso del quale il Duce vorrebbe convincere Franco a entrare in guerra a fianco dell’Italia e della Germania, cosa che permetterebbe all’Asse di controllare lo Stretto di Gibilterra. Ma gli inglesi vogliono dimostrare che in realtà l’Italia era incapace persino di proteggere le proprie coste.
Ed è proprio su ordine diretto dello stesso Churchill che il 6 febbraio da Gibilterra salpa la flotta FORZA H della Marina britannica verso le coste liguri per un bombardamento che, da operazione militare, diventa una questione politica, per una missione che deve essere compiuta prima del giorno 12. La navigazione verso Genova avviene in maniera abbastanza tranquilla, anche perché le segnalazioni dei ricognitori italiani non vengono interpretati come forieri di un attacco al capoluogo, grazie anche a una serie di manovre diversive.
Nel primo mattino del 9 febbraio sul cielo di Genova vengono avvistati alcuni aerei ricognitori. Ma poiché fino ad allora Genova è stata posta in stato di allerta più di cinquanta volte, la presenza di aerei britannici atti ad azioni di ricognizione per lo studio del territorio non è una novità: ma stavolta gli aerei non avrebbero scattato fotografie, bensì indirizzato il tiro dell’artiglieria navale. Alle 5 del mattino del 9 una parte della flotta devia verso Levante posizionandosi a un centinaio di chilometri dalla costa spezzina da dove venti bombardieri puntano su Pisa, Livorno mentre il resto della squadra ripiega verso Genova.
Redazione, Bombardamenti navali su Genova, Villa Migone Genova, 10 ottobre 2020

La flotta inglese si sarebbe mossa da Gibilterra, per stare 5 giorni in mare spingendosi fin dentro il golfo di Genova con rischi incalcolabili e tutto questo per il gusto di andare a piazzare qualche colpo su una corazzata (la Duilio) in riparazione? È stupido crederlo (e tutti continuano a crederlo), perchè gl’inglesi l’hanno detto. La verità è che in quei giorni Mussolini doveva incontrarsi con Franco in una località della costa ligure, per cercare di «riportare all’ovile il figliol prodigo spagnolo», come dice Ciano nel suo Diario. L’incontro, infatti, avvenne 2 giorni dopo il bombardamento di Genova, cioè l’11 febbraio, a Bordighera. Era tanto che si corteggiava il Caudillo per trascinarlo in guerra e bloccare Gibilterra. Se mai Franco nutriva dubbi sulla via per lui più vantaggiosa da seguire, le cannonate di Genova glieli tolsero completamente. Perciò l’esito negativo delle trattative a Bordighera poteva ritenersi scontato prima ancora che le conversazioni avessero inizio. Gli inglesi avevano già fatto a pezzi una volta l’Invincibile Armada. Partite dunque da Gibilterra il 6 febbraio la mattina del 9, quando stava per albeggiare, le navi inglesi cominciarono ad affacciarsi al grande arco del golfo ligure. Erano le 5 quando la portaerei Ark Royal si distaccò dalla squadra e andò a piazzarsi con due cacciatorpediniere in un punto a settentrione della Corsica, distante circa 130 km sia dalla Spezia sia da Livorno giusto per lanciare i caccia contro eventuali uscite a sorpresa. Le altre, cioè le corazzate Renown e Malaya, l’incrociatore Sheffield e cinque cacciatorpediniere proseguirono verso la riviera di Levante. Alle 7,19 si scoprì di prua capo Portofino e le navi, dopo averlo identificato, accostarono a sinistra, defilando lungo la costa, ad una ventina di chilometri da essa. Rapallo, Santa Margherita ligure, Camogli, Recco, Nervi sulla destra, completamente avvolte nella bruma mattutina, erano nascoste anche alla vista delle postazioni dei cannoni costieri (Camogli). Ed ecco Genova. Alle 8,14 viene aperto il fuoco. 273 colpi di cannoni da 381 e 1182 di calibro minore. Le salve si abbatterono prevalentemente nella zona marittima e industriale, ma molte caddero in centro (134 morti e 227 feriti). Il fuoco cessò alle 8,45. «Magnifico!» radiotelegrafò l’osservatore dell’aereo che sorvolava Genova per aggiustare il tiro. Dopo di che le navi diressero per riunirsi all’Ark Royal e quindi tutte insieme tranquillamente si posero sulla via del ritorno. «Era un calmo mattino di domenica, e non v’era niente che rompesse la pace e il silenzio», commenta l’Amm. Somerville nel suo rapporto all’ammiragliato, e non si sa se per riferire dati di fatto o per fare della facile ironia. Infatti, veramente grande era la calma del golfo e non soltanto in senso meteorologico, per assenza di vento nella limpida mattinata di sole, ma anche per la mancanza di una qualsiasi reazione italiana. Gli aerei da caccia dell’aeroporto di Albenga (60 km e poteva essere coperta in pochi minuti di volo) non intervennero perché il capoluogo della Liguria non rientrava nella loro sfera di competenza; quelli di Sarzana stavano curando la difesa del cielo della Spezia insidiato da due aerei dell’Ark Royal, che tuttavia poterono lanciare mine all’ingresso del porto. In Italia c’è sempre un problema di competenza. Così gli aerei inglesi, che sorvolavano Genova durante il bombardamento per regolare il tiro delle loro navi, non ebbero la minima molestia e portarono il loro compito fino in fondo.
Né i nostri aerei da bombardamento intervennero. In meno di mezz’ora, è vero, si va comodamente in aereo da Milano a Genova e in circa altrettanto da Viterbo, dove c’era pronto al volo uno stormo da bombardamento: ma si aspettava che la ricognizione segnalasse il punto esatto delle navi nemiche, per non andare a caso vagando nel cielo e puntare invece diritti come fulmini contro di esse a colpo sicuro. Eppure, se gli alti comandanti aeronautici di Milano, Torino e Roma fossero partiti in volo immediatamente al primo allarme, senza pericolo che per la loro assenza dalle sedi la condotta della guerra ne soffrisse eccessivamente, avrebbero potuto assistere agli ultimi spari o vedere le navi nemiche che si allontanavano, mentre Genova fumava ancora. Fu certamente grave e intollerabile vergogna che la flotta inglese, dopo essersi spinta così addentro nelle nostre difese e nelle nostre acque nazionali, fino in vista del Lido d’Albaro, ne sia uscita senza la minima conseguenza e abbia potuto allontanarsi indisturbata. Solo alle 12,20 (ben 4 ore dopo la caduta dei primi colpi sulla città ligure) due aerei da bombardamento riuscirono a raggiungerla a un centinaio di chilometri al largo di Imperia; lanciarono contro di essa quattro bombe, che caddero in mare lontano dai bersagli e il frastuono di quelle quattro bombe fu l’unico segno di vita che diede l’aviazione: poi non ci fu altro. Nel campo navale, inoltre, le rivelazioni dell’ammiraglio Jachino, che comandava la nostra flotta, gettano una luce fosca sul comportamento di Supermarina in quella occasione. Per norma scritta e codificata, sempre osservata fino a quel momento, le ricognizioni aeree nel Mediterraneo occidentale si estendevano dalle coste metropolitane fino al meridiano di Majorca; ma il giorno 8 febbraio ‘41, per espressa disposizione di Supermarina, gli aerei dovettero tenersi molto più in qua e non oltrepassare il meridiano di Minorca (proprio mentre di là da Majorca stava navigando alla volta di Genova la squadra inglese, che non voleva essere vista e infatti non lo fu). Nella zona di Majorca, invece, e nelle acque tutt’attorno alle Baleari, gli aerei furono mandati il giorno 9, quando le navi inglesi erano ormai giunte a Genova; ma nemmeno uno di essi fu mandato a perlustrare il golfo ligure, pur prevedendosi che vi potessero arrivare le navi che risultavano uscite da Gibilterra (le nostre spie almeno questo lo segnalavano). L’ammiraglio Sommerville si vanta di essersi portato a tiro quella mattina realizzando la sorpresa che notoriamente è coefficiente primo del successo militare. Ma avrebbe dovuto mandare un grazie anche agli italiani, che gli avevano grandemente facilitato il compito. E non è ancora tutto. Alla nostra flotta, che la notte fra l’8 e il 9 navigava lungo le coste occidentali della Corsica, Supermarina fu sollecita a comunicare che il bacino del Tirso era in allarme (gli aerei inglesi non sapendo cosa fare si erano anche presi la briga di bombardare la diga del Tirso), inducendola così a continuare verso sud, nella convinzione di incontrarvi il nemico. Ma la stessa Supermarina si guardò bene dal trasmettere alla flotta un fonogramma ricevuto alle 7,38 dal comandante della Spezia, in cui si diceva: «Riteniamo che sia in mare e vicina la nave portaerei». (Se il comandante in capo italiano fosse venuto a conoscenza di tale segnalazione certamente avrebbe invertito la rotta e sarebbe accorso a tutta velocità verso nord). C’è di più. Il semaforo di Portofino avvistò il passaggio di «unità da guerra di nazionalità indistinta» e la relativa comunicazione telegrafica pervenne a Roma alle 8,25; ma Supermarina pur sapendo non potersi trattare che di unità nemiche, non rese edotta di tale avvistamento la flotta, la quale perciò, ignara di quello che stava avvenendo a nord, continuò a navigare verso sud… e le distrazioni continuano per altre pagine a cui nessuno ha mai dato risposta e contestazione.
Antonino Trizzino, Navi e poltrone, Longanesi, 1953, cit. da lacorsainfinita

Con il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio 1941, la “Forza H” compì una delle più audaci azioni della guerra navale nel Mediterraneo, degna delle migliori tradizioni della Royal Navy. Per le Forze Navali italiane si trattò, in buona sostanza, di una “occasione perduta” dovuta – in buona parte – alla scarsa cooperazione tra Marina e Aeronautica (per non parlare della mancanza di una vera e propria Aviazione di Marina), reale e più significativo “tallone d’Achille” di tutta la guerra navale italiana tra il 1940 e il 1943.
Tuttavia, va anche rilevato il comportamento non certo combattivo manifestato dalla squadra italiana, al di là delle giustificazioni addotte dall’amm. Jachino nel dopoguerra (19); tutto ciò quando erano ben note le critiche di scarsa propensione all’offensiva mosse da quest’ultimo al suo predecessore Campioni. Peraltro, non bisogna disgiungere questi fatti dalle direttive che contraddistinsero tutta la nostra guerra navale, tese a preservare quanto più possibile l’integrità della squadra da battaglia – tanto per il mantenimento della “fleet in being” quanto essendo ben nota l’impossibilità di sostituire unità maggiori eventualmente perdute o anche solo danneggiate gravemente.
Forse, anche per questi motivi l’operazione “Grog” – a torto – è stata considerata, talvolta, un evento di secondo piano, ma ancora più rilevante sarebbe stato, nel breve, il prosieguo della contrapposizione tra la Regia Marina e la Royal Navy.
Poco meno di due mesi dopo, difatti, con rapporti di forza invertiti (e sulla base, va ricordato, di un’“intelligence” nemica che aveva in “ULTRA” il suo punto focale) lo scontro di Matapan tra unità italiane e britanniche ebbe purtroppo esiti del tutto opposti, come testimoniato dal sacrificio dei 2.303 uomini del Pola, dello Zara, del Fiume, del Carducci e dell’Alfieri, che persero la vita nel corso di quel breve combattimento, nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1941.
(19) Jachino, A.: Tramonto di una grande Marina
Redazione, L’operazione “Grog”, Capitani Camogli