Speriamo che la civiltà dell’ulivo torni

[…] romanzi di Francesco Biamonti (San Biagio della Cima, 1928-2001), tutti ambientati in un entroterra ligure sospeso tra Alpi e Mediterraneo, a ridosso della frontiera italo-francese.
Tra i suoi quattro libri editi in vita e i due apparsi postumi si contano una coppia di protagonisti contadini e ben quattro figli di contadini diventati marinai che non riescono però a staccarsi a lungo dalle terre d’origine, ormai semi-abbandonate a causa delle loro assenze prolungate e della morte dei loro vecchi.
Nella quarta di copertina firmata per l’esordio tardivo di Biamonti, L’angelo di Avrigue (1983), Italo Calvino affermò di ritrovare nel romanzo «i due aspetti della Riviera» di cui aveva scritto egli stesso negli anni Quaranta, vale a dire «un’agricoltura faticosa e solitaria e il mondo facile del turismo». Nella sua sinossi “d’autore”, Calvino scriveva: «La voce narrante è quella di un marinaio che non prova nessuna impazienza d’un nuovo imbarco (patisce il “male del ferro”, l’angoscia che la lamiera del cargo trasmette durante le lunghe traversate) ma anche se ama la sua terra più del mare, la gioia che ne trae gli sa sempre d’amaro».
Benché in questo dorso di copertina Biamonti sia presentato come un coltivatore di mimose, l’autore non è stato un vero e proprio agricoltore ma ha osservato da vicino gli ultimi scampoli di vita contadina tradizionale della sua vallata e, dopo aver svolto attività politica nelle fila dei socialisti e per pochi anni quella di bibliotecario a Ventimiglia, si è effettivamente ritirato nella campagna di famiglia a curare olivi, vigne e in particolare il mimoseto <26. Recuperando i pochi ricordi d’infanzia emergenti in alcune sue dichiarazioni, si può verificare quanto fosse profondo il legame che Biamonti ebbe con la campagna, come per Boine, grazie ai nonni coltivatori: «Ho cominciato a pensare sul dorso dell’asino di mio nonno, che, adagio, si lasciava andare» <27, confessa l’autore in un’intervista, mentre in un altro frammento autobiografico rammenta: «Durante la vendemmia seguivo mia nonna per ore e ore. Mi guardavo intorno, incantato e… pensavo» <28.
L’insistenza sull’atto del “pensare” si lega così all’esperienza diretta della terra, del lavoro in campagna in cui il futuro scrittore sente affondare le proprie radici.
A imbarcarsi è stato invece suo fratello, Gian Carlo Biamonti, che attorno alla metà degli anni Cinquanta cominciò a navigare nella marina commerciale, arrivando a rivestire il ruolo di capitano di lungo corso per varie compagnie. Soltanto da pensionato, e dopo la morte dei genitori, Gian Carlo tornerà a San Biagio per dedicarsi alle campagne trascurate da Francesco.
Terra e mare sono dunque due ambienti ed economie contrastanti che, in modo simile a Calvino, lo stesso Biamonti sintetizza con una battuta del protagonista del suo ultimo romanzo, Le parole la notte (1998): «vi sono due Ligurie: una costiera con traffici di droga, invasa e massacrata dalle costruzioni, e una di montagna, una sorta di Castiglia ancora austera; io sto sul confine» <29.
La società contadina di cui è testimone Biamonti alla fine del XX secolo vive quindi una situazione più complessa di quella rappresentata da Boine nel 1911 che egli riprende, declinandola sempre più al passato, fin dall’incipit de L’angelo di Avrigue: «Erano stati tenaci lavoratori, avevano costruito ciclopici ripiani, da zero fino a seicento metri sul mare, cavato e ulivato: la fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla ‘buona morte’» <30. L’abbandono ferisce queste memorie nell’arco di una generazione e non riguarda solo l’olivo ma tutte le policolture delle fasce: «Non ci crederei, se non li avessi visti coi miei occhi, che qui c’erano mandorleti e fasce d’orzo» <31. Questo romanzo ha per protagonista un marinaio che ritorna alla sua terra dopo una lunga assenza e nella prima versione del testo, sorta di prequel pubblicato postumo con il titolo anepigrafo Il romanzo di Gregorio <32, dice di essere un «‘déraciné’ della campagna» e uno «sconfitto del mare con ricorrenti nostalgie e per l’uno e per l’altra» <33. Tra i personaggi, uno degli agricoltori che cerca di reagire alla decadenza della valle viene ritratto come un «Sisifo degli uliveti. Resisteva all’ascensione d’ombre, poi di tenebre. Forse non vedeva più, travedeva. Murava cenere, teschi, sogni» <34.
Nel suo secondo romanzo, Vento largo, il protagonista Varì è un coltivatore definito «l’ultimo testimone di una vita che se ne andava» <35. Dolendosi di non aver scelto la vita del mare (specularmente ai marinai biamontiani che rimpiangono la terra), diventato passeur per aiutare i numerosi migranti che cercano di raggiungere la Francia attraversando i suoi campi, abbandona quasi del tutto questi ultimi a causa di una grande gelata (come accadde all’autore nel 1985). Rispetto al Gregorio dell’esordio rimasto inedito, cui si ricollega, Varì ha una visione ancor più pessimista di quelli che nel romanzo sono definiti i «fantasmi della terra»: «un uomo anziano abbacchiava gli ulivi, un vecchio potava la vigna, una donna con la gonna a strisce e il vlü de femme sui capelli toglieva il rincalzo dei gelsomini perché le radici si scaldassero più velocemente al sole. […] – Bando ai rimorsi, – Varì pensava, – coi lavori della terra io ho finito. Quelli che hai visto sono dei sopravvissuti» <36.
L’Edoardo di Attesa sul mare, il terzo libro di Biamonti, è un marinaio che accetta di fare contrabbando nel Mediterraneo e per tutto il viaggio sogna i suoi ulivi «sempre più cenerini» la cui memoria lo insegue «sul mare come un oppio, un sogno» <37.
I caratteri di Gregorio e Varì ritornano poi nel Leonardo di Le parole la notte, altro «contadino sconfitto» <38 che ha conosciuto il crepuscolo di una lunga tradizione di pluriattività e mobilità del suo borgo, Argela: «Gli ulivi caricano ogni due anni. E quando non c’erano frutti gli argelesi partivano. A Marsiglia aveva la sua bottega un calzolaio di Argela che sapeva il francese; lo sapeva anche scrivere e faceva le domande per entrare a lavorare sul porto. Ad Argela, nelle cantine, se ne parlava come di una specie di console» <39.
Lo stesso si legge a proposito dei paesani di Vento largo: «Intere generazioni di Luvaira e di Aùrno erano andate a togliersi la fame, fame e tante altre cose, sul porto di Marsiglia. Scaricatori di bastimenti, camallavano nel mistral» <40.
I personaggi biamontiani danno così voce a un’ansia di radicamento dovuta allo spaesamento e all’angoscia per la decadenza materiale del loro mondo, al sentire di non appartenere più alla terra che li ha cresciuti.
[…] Non vi è dubbio che i personaggi di Biamonti raffigurino gli autentici sanbiagini «contadini che vivevano anche di mare», come sono definiti in un articolo-intervista del 1994 di Antonio Turitto, in cui Biamonti dichiara: «Quando non c’erano olive, perché l’ulivo è biennale, quelli di San Biagio andavano al porto di Marsiglia a fare i camalli oppure i calafatari. […] Ma il mare sta morendo. Sono addirittura cambiati i metodi di navigazione. L’arte di navigare non serve più perché sono guidati da terra. È diventato un mestiere da impiegati» <41.
Pertanto, questi “sradicati” sono doppiamente orfani come ha più volte ricordato l’autore stesso: «Qui da noi, sulla costa ligure occidentale, è morta la civiltà dell’ulivo, che, in fondo, a guardar bene, prosperava sulle rocce e faticose terrazze scaldate dal sole sulle pietre. E anche la civiltà marinara è morta. Non c’è più niente. E un’altra civiltà non si intravede» <42.
In questo stato di crisi dell’economia agricola ponentina del Novecento – che per Biamonti assomiglia all’ex Jugoslavia in piena guerra civile dove sbarca il protagonista di Attesa sul mare trovando «contadini non più tali, pescatori che non osavano più uscire o rimasti senza imbarcazioni. Vita fermata dalla brutalità dei tempi» <43 – si è rotto in modo repentino l’antico ritmo della stagionalità. La causa non è da ricondursi al mutamento delle stagioni metereologiche (anche se il personaggio di Medoro ricorda: «si è perduta la primavera. Una volta c’erano delle lunghe prime. I miei, chiuso il frantoio, partivano per la montagna con il mulo e l’alambicco. C’erano abbondanti fioriture di lavanda sull’Aution e su Cima Marta. Adesso una notte di brina brucia tutto, poi arriva un caldo che le soffoca» <44) ma al fatto che in una tale frammentazione della proprietà («Ad Avrigue erano tutti piccoli proprietari» <45) e per le condizioni oro-geologiche di quel territorio il lavoro contadino vi ha conservato più a lungo che altrove una dimensione semi-arcaica con l’esito di una percezione più violenta dell’avvento della modernità e della globalizzazione, com’è riscontrabile in testimonianze narrative provenienti da tutte le valli del Ponente.
[…] Se dunque Biamonti spande un cupo pessimismo per la fine di una millenaria “religione delle opere”, non va intesa come nostalgia per la «terra di fame» <49 – che è stato a lungo l’entroterra ligure – la «fame di terra» <50 che esprime il protagonista del romanzo incompiuto scritto dall’autore nei suoi ultimi giorni, il marinaio Edoardo: «Partivo sempre, – disse ancora, – per necessità […]. E avrei voluto una vita senza partenze: calpestare sempre lo stesso suolo -. Aggiunse che si sarebbe accontentato di fare il capraio, di coltivare gli ulivi» <51.
L’essere sul confine, in quello che Biamonti stesso definisce un «interregno», un entre-deux tra epoche e ordini sociali differenti è proprio ciò che strazia l’animo dei suoi personaggi. Nessuno di loro si dà però ai nuovi mestieri del turismo di massa <52 o accetta di diventare coltivatore di fiori in serra, attività che illuse molti di facili guadagni, presto messi a repentaglio dalla competizione internazionale.
[…] Ai tempi del nonno di Gian Carlo [Biamonti], anche a Rocchetta [Nervina (IM)] c’era chi distillava lavanda, un’attività poi abbandonata. Suo padre, confermando la fama di Rocchetta «paese dei contrabbandieri » <57 riferita nell’ultimo romanzo di Biamonti, svolgeva un’attività non occasionale di contrabbando («La cosa principale che portavano erano le Olivetti. Le macchine da scrivere, il modello dopo la guerra. In Italia costavano tanto, ma in Francia valevano il doppio. Una o due per viaggio, non di più» <58) e lavorò poi alcune stagioni in Inghilterra.
Un uomo oramai anziano conosciuto come Marietto di Vallebona ha invece raccontato a Migliaccio che suo nonno era sbarcato nel Cuneese dalla Corsica, con altri carbonin, quando sull’isola non avevano più boschi da bruciare per farne carbone. Poi il trasferimento in Liguria, alternando vari mestieri, coltivando vigne e ulivi. È pertanto evidente che il Ponente ligure non ha mai conosciuto quell’immobilità che certe rappresentazioni parrebbero tramandare.
Se la floricoltura rappresenta ancora oggi la maggioranza della produzione agricola imperiese, in percentuale, nell’ultimo articolo fatto pubblicare il giorno dopo la sua morte Biamonti auspicava, come per il retour en arrière <59 desiderato dallo scrittore provenzale Jean Giono già più di sessant’anni prima, un ritorno alla sapienza contadina quale unica speranza di rinascita dell’olivicoltura e dell’entroterra ligure: «Speriamo che la civiltà dell’ulivo torni. Tutto il Mediterraneo ne ha bisogno. In Provenza si sono mossi. Anche da noi in questi ultimissimi tempi qualcosa serpeggia. La gente delle terrazze comincia a crederci. Si vede di nuovo qualche ulivo potato a regola d’arte, a quel modo che sembra che preghi, con le fronde che scendono e implorano nella brezza» <60.

[NOTE]

  1. La famiglia dello scrittore aveva a San Biagio alberi da frutta, mimose, viti e olivi in località Cian di cui (toponimo che rivela una precedente coltivazione di cavoli) e Laùtra. Chi scrive ha illustrato una prima volta la rappresentazione del mondo agricolo nei romanzi di Biamonti nell’intervento intitolato Les paysans déracinés de Francesco Biamonti, presentato al convegno internazionale Représentations contemporaines du travail agricole de 1930 à nos jours (Lyon, 4-5 dicembre 2014). Cfr. anche Simona Morando, Il senso della terra. I contadini e il lavoro rurale nei romanzi di Francesco Biamonti, in Diego Moreno, Massimo Quaini, Camilla Traldi (a cura di), Dal parco “letterario” al parco produttivo. L’eredità culturale di Francesco Biamonti, Sestri Levante, Oltre, 2016, pp. 19-36.
  2. Giovanni Turra, Colloquio con Francesco Biamonti, in Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Torino, Einaudi, 2006, pp. 225-240 (p. 226).
  3. Cfr. Francesco Improta, “Mi guardavo intorno, incantato… e pensavo”, testo non datato e dedicato a La formazione dello scrittore nella sezione biografica del sito dell’Associazione Amici di Francesco Biamonti: http://www.terraligure.
    it/francesco_biamonti/vita/formazione.html.
  4. Francesco Biamonti, Le parole la notte, Torino, Einaudi, 1998, p. 90.
  5. Francesco Biamonti, L’angelo di Avrigue, Torino, Einaudi, 1983, p. 4.
  6. Ivi, p. 112. Cfr. l’analogo affresco tratteggiato da uno dei più noti romanzi rurali francesi in Claude Michelet, Des grives aux loups, Paris, Laffont, 1979, vol. I, pp. 38-39: «Lassés de s’échiner en vain, les hommes avaient peu à peu abandonné la culture de ces pentes. Les murettes non entretenues des multiples terrasses avaient très vite cédé à la pression des terres, au ravinement des pluies d’orage, à l’insidieux minage du gel. Disloquées, renversées, elles n’avaient pas retenu longtemps un sol jadis maintenu par le seul travail des hommes qui, chaque année, couffin par couffin remontaient dans les terrasses ce que le ruissellement de l’hiver avait entraîné. / Désormais, les puys étaient stériles et les enfants du village ne comprenaient plus que l’on baptisât ces lieux de noms aussi invraisemblables que Vigne haute, Belles Vignes, les Treilles, ou Vignes basses. Pour les moins de vingt ans, ces appellations étaient vides de sens et, déjà, fleurissaient de nouveaux noms: champ de la Carrière, les Pierres drues, Tournepierres, la Genévrière».
  7. Cfr. S. Morando, Il senso della terra, cit., p. 21: «Gian Carlo mi raccontava […] che i personaggi citati nel libro, solo parzialmente passati anche nell’Angelo, erano davvero presenze vive nel paese».
  8. Francesco Biamonti, Il romanzo di Gregorio. Testi e materiali preparatori verso L’angelo di Avrigue, a cura di Simona Morando, Genova, Il Canneto, 2015, p. 122.
  9. Ivi, p. 166.
  10. Francesco Biamonti, Vento largo, Torino, Einaudi, 1991, p. 12.
  11. Ivi, p. 35.
  12. Francesco Biamonti, Attesa sul mare, Torino, Einaudi, 1994, pp. 59 e 26.
  13. F. Biamonti, Le parole la notte, cit., p. 81.
  14. Ivi, p. 109.
  15. F. Biamonti, Vento largo, cit., pp. 88-89.
  16. Antonio Turitto, L’isola degli ulivi. Con Biamonti ai confini della Liguria, in «Il Secolo XIX», 21 agosto 1994, p. 9.
  17. Francesco Biamonti, La notte della civiltà, in «La Stampa», 17 novembre 1998, p. 1.
  18. F. Biamonti, Attesa sul mare, cit., p. 88.
  19. F. Biamonti, Le parole la notte, cit., pp. 184-185.
  20. F. Biamonti, Il romanzo di Gregorio, cit., p. 129. Cfr. Camilla Traldi, Notizie da una terra di mezzo. San Biagio della Cima (luglio-dicembre 2015), in D. Moreno, M. Quaini, C. Traldi (a cura di), Dal parco “letterario” al parco produttivo”, cit., pp. 73-132 in cui l’autrice (assegnataria di una borsa dell’Università di Genova finalizzata alla «produzione di fonti orali per la caratterizzazione storico-ambientale dei paesaggi rurali» nell’ambito del progetto del Parco-itinerario Biamonti creato intorno a San Biagio) riporta cinque storie di agrofloricoltori di oggi che ancora si aiutano l’un l’altro in qualità di braccianti e hanno spesso un secondo lavoro o altri redditi in famiglia. Cfr. anche Alessandro Giacobbe, Un repertorio di fonti e temi per la storia del paesaggio a S. Biagio della Cima, in ivi, pp. 185-230.
  21. F. Biamonti, Vento largo, cit., p. 98.
  22. Francesco Biamonti, Il silenzio, Torino, Einaudi, 2003, p. 6.
  23. Ivi, p. 29. Cfr. anche L’angelo di Avrigue, cit., p. 43: «non gli era mai piaciuto navigare, la sua origine era contadina».
  24. Una soluzione in verità non alternativa ma di fatto complementare per molte persone. Cfr. ad esempio il caso del padre di Marino Magliani, autore cresciuto nella Val Prino a pochi chilometri dalle campagne dei nonni di Boine, nel suo L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi, Roma, Exòrma, 2017, p. 12: «Mio padre d’estate faticava negli alberghi della Costa Azzurra […]. D’estate, negli alberghi della Costa Azzurra, mio padre preparava le insalate, ogni tipo di insalata, e d’inverno veniva in Italia a raccogliere le olive». Indicativo quanto si legge in ivi, p. 70: «Chiedi in dialetto a un contadino ligure cosa fa nella vita, ti dirà vado in campagna… […] noi, semplicemente andiamo in campagna, e non riusciamo neppure a definirci contadini».
  25. F. Biamonti, Le parole la notte, cit., p. 78.
  26. F. Migliaccio, Ombre e passaggi fra Nervia e Roja, cit., p. 24.
  27. Cfr. almeno Jean Giono, Vivre libre. Lettre aux paysans sur la pauvreté et la paix, Paris, Grasset, 1938 (ed. it. Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, a cura di Maria Grazia Gini, nuova edizione con prefazione di Carlo Petrini, Milano, Ponte alle Grazie, 2010).
  28. Francesco Biamonti, L’ultimo articolo, in «Il Secolo XIX», 18 ottobre 2001, p. 23.

Claudio Panella, Gli ultimi testimoni della civiltà dell’ulivo: personaggi di contadini-marinai, pluriattivi e sradicati nel Ponente ligure novecentesco in New Digital Frontiers srl, Quaderno n. 4 – Novembre 2020, Pluriattività rurale e lavoro agricolo in età contemporanea (secoli XIX-XX) a cura di Niccolò Mignemi, Claudio Lorenzini e Luca Mocarelli, qui ripreso da iris.unito.it