«Osservatore politico» ripropose la tesi secondo la quale i brigatisti si sarebbero potuti accontentare di uno scambio simbolico da parte dello Stato, proprio come con i palestinesi

Nell’articolo del 10 ottobre 1978 “Verità di ieri tragedie di oggi”, Carmine Pecorelli risollevò la questione della trattativa per la liberazione di Moro. Prendendo ad esempio i segreti accordi dello Stato con i terroristi palestinesi, liberazione di prigionieri politici in cambio d’immunità terroristica territoriale, colse l’occasione per aggredire le scelte politiche nei confronti delle Brigate rosse.
“Con assoluta lucidità mentale (dove sono andate a finire le menzogne di Zaccagnini e Cossiga a proposito di Moro drogato, Moro fuori di sé, Moro impazzito?) [nelle sue lettere] Moro ha tracciato una perfetta analogia tra la sua condizione di prigioniero minacciato di morte da terroristi politici organizzati e quella di tanti e tanti innocenti e ignari italiani che negli ultimi anni hanno corso il pericolo di perdere la vita in attentati e stragi minacciati dai palestinesi. «Dunque non una ma più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in essere se fosse continuata la detenzione». Moro si riferisce a quell’accordo anomalo stabilito al di fuori dello Stato ma sotto il controllo dello Stato, grazie al quale l’Italia non è stata teatro di quei dirottamenti aerei, stragi ed attentati che tante vittime e danni hanno provocato in Europa a partire dal ’72. In quell’anno agenti del Sid informarono il governo che terroristi palestinesi stavano preparando attentati agli aeroporti italiani. Rumor e Moro giudicarono che l’unica strada per impedire che
l’Italia diventasse terreno di manovra dei palestinesi era quella di trattare con Habash <270 una sorta di mutuo patto di non aggressione. L’accordo stabilito dal Sid, con l’unica misteriosa eccezione della strage di Fiumicino <271, fu sempre rispettato. A questo punto non resta che da chiedersi perché quelle trattative anomale impossibili ed inammissibili in forma ufficiale, ma tuttavia stabilite dal superiore interesse dello stato con i terroristi palestinesi, sono state prontamente scartate quando si trattava di salvare la vita di Moro. Perché si è preferito seguire la grottesca via di Cossiga con i suoi blocchi stradali, le mobilitazioni generali dell’esercito, le perquisizioni a caso su interi quartieri, una via buona per far saltare i nervi ai custodi di Moro, e avvicinare l’ora della tragedia finale, quando l’unica strada vincente conosciuta dallo Stato, una strada che avrebbe consentito alle istituzioni di uscire dalla vicenda Moro con fermezza e dignità rafforzate, era quella di trattative, anche se lunghe e laboriose?” <272
«Osservatore politico» ripropose la tesi secondo la quale i brigatisti si sarebbero potuti accontentare di uno scambio simbolico da parte dello Stato, proprio come con i palestinesi. Allo stesso tempo mosse il dubbio che la liberazione del prigioniero sarebbe potuta risultare scomoda per alcune strutture statali.
“Ieri, trattare con i palestinesi non provocava alterazioni negli equilibri politici di Montecitorio, Piazza del Gesù e Palazzo Chigi. Trattare con le Br invece, seguire la via delle lettere, riportare Moro sano e salvo alla guida della Dc o addirittura al Quirinale, avrebbe provocato un terremoto: il recupero di quelle strutture dello Stato colpevolizzate e emarginate grazie ad istruttorie giudiziarie pilotate, e la fine della cordiale, troppo cordiale intesa, tra il Partito comunista di Berlinguer e la Dc di Zaccagnini. Per scongiurare pericoli del genere, è piccola cosa anche un sacrificio umano. Dio solo sa quanto male può venire da questo male” <273.
Pecorelli incalzò la sua tesi nel successivo articolo del 17 ottobre 1978:
“Diciamolo chiaro, in agosto Dalla Chiesa sapeva già come e dove colpire le Br. Probabilmente avrebbe saputo cosa fare anche in epoca precedente. Allora perché si è ricorsi a lui soltanto a settembre? Perché non si è chiamato Dalla Chiesa subito dopo la strage di via Fani, quando Moro, ancora vivo, era nelle mani delle Br? Uno Stato, forte di un Dalla Chiesa, avrebbe potuto avviare trattative con i terroristi con grosse probabilità di successo, specie disponendo di qualche buona pedina di scambio. Purtroppo non era gradito alla maggioranza dell’arco quel “partito delle trattative” che consigliava non già di cedere alla violenza, ma di salvare la vita di Moro attraverso più duttili e meno pubblicizzati comportamenti dello Stato e delle forze dell’ordine. Cossiga e Pecchioli, Zaccagnini e Berlinguer, intendevano sfruttare l’emozione popolare provocata dal sequestro Moro per costruire un partito unico, “cattocomunista”, e chiamavano a raccolta le piazze “bianche” e “rosse” in nome di una non meglio precisata emergenza. Prima di rivolgersi all’Arma dei Carabinieri, prima di unificare nelle mani di un vero tecnico il comando dell’antiterrorismo, hanno preferito attendere che si maturasse l’uva e si compisse il peggio” <274.
Nel successivo articolo, pubblicato sotto forma di lettera al direttore, un immaginario abbonato di «Op» pose al giornalista delle domande alla quale Pecorelli rispose immediato. Si tratta di un testo pieno d’allusioni, virgolette, punti di sospensione, in un immaginario botta risposta.
“Signor Direttore, permetta un piccolo scritto da un suo affezionato lettore, che dopo l’estate si è posto una domanda: «Cossiga sa tutto su Moro ma non parla?». E si è risposto da solo: «non parlerà mai, altrimenti…» […]. Dice: ma il ministro non ne sapeva niente, la Digos non ha scoperto nulla. I servizi poi… Si ribatte: il ministro di polizia sapeva tutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero; dalle parti del ghetto… Dice: il corpo era ancora caldo… perché un generale dei Carabinieri era andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso?” <275
Secondo questo articolo la prigione di Moro venne individuata senza nessuna difficoltà dalla polizia che sarebbe stata bloccata da Cossiga. Il ministro, prima d’agire, avrebbe dovuto consultare quella che Pecorelli definì «entità superiore», probabilmente alludendo alla Loggia massonica Propaganda Due <276.
“Fatto sta, si dice, che la risposta il giorno dopo di quando il ministro la sentenziò fu lapidaria: «Abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso ad un carabiniere parte un colpo e uccide Moro, oppure i terroristi lo ammazzano, poi chi se la prende la responsabilità?». Risposta da prete. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato perché se la cosa si fosse risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba! […] C’è solo da immaginarsi, caro Direttore, chi sarà l’Anzà <277 della situazione: ovvero quale generale dei Cc sarà ritrovato suicida con una classica revolverata che fa tutto da se, o col solito incidente d’auto radiocomandato, o la sbadataggine dei camionisti spagnoli, o d’elicottero <278. Sotto a chi tocca: chi sfida l’Internazionale fa questa fine in questa Italia democratica. […] Purtroppo il nome del Generale Cc è noto <279: Amen” <280.
[NOTE]
270 George Habash fu il fondatore del Movimento nazionalista arabo, dalla cui sezione palestinese nacque il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina nel 1967.
271 Il 27 dicembre 1985 un gruppo di uomini armati, dopo aver gettato bombe a mano, aprirono il fuoco con raffiche di mitra sui passeggeri in coda per il check-in dei bagagli presso gli sportelli della compagnia aerea nazionale israeliana El Al e della americana TWA, colpendo le loro vittime in modo indiscriminato.
272 Verità di oggi tragedie di oggi, «Osservatore politico», 10 ottobre 1978.
273 Ibidem.
274 Perché solo adesso?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
275 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
276 «Un superpotere che il giornalista insinua essere la P2 con le parole “due piedi” e “loggia di Cristo”», FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
277 «Il generale Antonino Anzà venne ritrovato morto nel suo studio il 12 agosto 1977. L’ufficiale era stato colpito da un colpo di pistola alla testa, nella sua casa di Roma. L’immediata versione dei fatti attribuisce il decesso al suicidio, ma l’arma era appoggiata alla scrivania, a due metri di distanza dal corpo. Qualche giorno prima, a Messina, anche il colonnello Giansante venne ritrovato morto. In quel periodo, si scoprirà successivamente, erano in gioco gli avvicendamenti al vertice degli stati maggiori di Esercito e Difesa ed all’interno dei Corpi erano sorte faide per aspirare alle due cariche», GUARINO – RAUGEI, Gli anni del disonore. Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della loggia P2 tra affari, scandali e stragi, Dedalo, Bari 2006, p. 155.
278 Carmine Pecorelli si riferì al generale dell’Arma dei carabinieri Enrico Mino, coinvolto in un incidente mortale, dalle circostanze misteriose. L’elicottero precipitò su monte Covello, Catanzaro, il 31 ottobre 1977, FLAMIGNI, Le Idi di marzo, p. 370.
279 «Qui Pecorelli allude in modo piuttosto chiaro al generale Dalla Chiesa», Ibidem.
280 Caso Moro: il ministro non sapeva?, «Osservatore politico», 17 ottobre 1978.
Giacomo Fiorini, Penne di piombo: il giornalismo d’assalto di Carmine Pecorelli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012/2013