Il Berto era, fin dalla nascita si può dire, sollecitato da potenti stimoli esibizionistici frenati da un altrettanto potente senso di inferiorità

Finora abbiamo preso in considerazioni due ambiti ben distinti: la prigionia e Giuseppe Berto. Nella nostra trattazione, per ora, sono due linee parallele che non sembrano destinate ad incontrarsi.
Eppure possiamo rintracciare qualche avvicinamento tra le due, il presagio di un futuro condiviso già si intravede. Si pensi all’esperienza di reclusione che Berto patì per esempio nel collegio dei salesiani o il senso di insofferenza covato a lungo tra i canneti della pianura veneta. La libertà, aspirazione contraria alla prigionia, aveva sempre avuto un ruolo preponderante nella sensibilità di Berto. Aveva imparato quanto fosse facile perderla appunto nel collegio, aveva sentito quanto fosse difficile foraggiarla quando si era trovato intrappolato a Mogliano senza prospettive. Aveva infine pensato di abbracciarla arruolandosi. In verità proprio in guerra Berto trovò la negazione della libertà, una prigionia che mai aveva avvertito in modo così netto. Ad Hereford arrivarono le sentinelle, il filo spinato, perfino la fame. Ma ci fu anche il risvolto positivo, che alla fine si rivelò fondamentale. Berto fu tra quelli che sperimentarono pienamente il senso di comunità che descriveva Guareschi, quel crescere di una società civile illuminata, dove ognuno portava in dote la sua specifica competenza e ne faceva dono alla collettività. Si creò a tutti gli effetti una società della prigionia, fatta come ogni società di cultura, di condivisione ma anche di giochi di potere, di ripicche e divisioni. Lo spazio circoscritto del reticolato divenne, ad Hereford più che in ogni altro campo, uno spaccato della società italiana che tentava di uscire dalle macerie del ventennio fascista. Ognuno con il proprio carico ed i prigionieri si dibattevano per concepire un’Italia migliore, da costituire una volta tornati. Come sappiamo, questo non accadde. Ma nonostante la delusione, le recriminazioni e i tormenti, la prigionia lasciò a Berto un’eredità incalcolabile. Quando finalmente, nel febbraio ’46, rimise piede in Italia, stringeva al petto la cosa più importante che aveva: i suoi manoscritti. Marchiati col timbro “censored” dalla polizia statunitense, passati attraverso l’Atlantico e pronti a sbaragliare il campo della letteratura italiana. Berto li aveva scritti interamente durante la prigionia, unica condizione in cui il miracolo poteva compiersi.
La spinta centrifuga di Berto lo aveva fino ad allora costretto a fuggire sempre, rincorrendo in modo sgangherato la gloria, gli amori, le ambizioni più disparate. Il reticolato lo costrinse ad incanalare le energie su un unico sforzo: la letteratura. Certamente aveva già pubblicato il racconto “La colonna Feletti”, di cui abbiamo già avuto modo di parlare. Ma per quanto innovativo nei toni, quello stralcio era considerato da Berto un puro esercizio giornalistico. In fondo riportava una storia accaduta realmente, tentando di imprimere nella memoria comune le gesta eroiche di un manipolo di soldati caduto in imboscata in Etiopia. Il taglio, dunque, era decisamente documentaristico, tentava di emulare il giornalismo asciutto degli statunitensi e, involontariamente, mimava invece la loro letteratura.
E fu proprio l’incontro con gli americani, fino a quel punto sconosciuti a Berto, a risultare decisivo per la sua carriera. Ad introdurlo ad Hemingway, Saroyan e Don Passos fu Tumiati, ma in generale si può dire che l’intero clima del campo di Hereford contribuì a costruire il Berto narratore. Dall’incontro delle due linee dunque, la prigionia e Berto, nasce un personaggio nuovo: il Berto narratore appunto. Inizia così anche la sua storia nella letteratura nostrana, destinata a essere fortemente influenzata da questo personaggio.
I manoscritti che Berto stringeva al petto al rientro in patria erano principalmente due. “Il cielo è rosso” e “Le opere di Dio”. Quest’ultimo in realtà era precedente cronologicamente e si può dunque considerare il primo romanzo di Berto. Il successo de “Il cielo è rosso” però lo oscurò, relegandolo ad opera prima scartata (da Garzanti) e poi in fretta dimenticata. Sarà ristampata solo nel ’65, a vent’anni dunque dal suo concepimento. Nuova Accademia, l’editore milanese che prese questa iniziativa, decise di includere anche un’introduzione biocritica che avvicinasse i lettori a Berto. La bibliografia sull’argomento però era piuttosto scarsa, fino ad allora i critici avevano evitato di considerare la parabola di Berto una storia a lungo raggio, preferendo concentrarsi di volta in volta sui singoli romanzi. Si avvertiva dunque l’esigenza di uno studio approfondito e globale di Berto che nessuno pareva in grado di compiere. L’ingrato compito se lo assunse allora lo stesso Berto, ben lieto di illustrare ai lettori la sua educazione letteraria. Il risultato fu un breve testo, intitolato “L’inconsapevole approccio”, posto appunto in apertura del volume di Nuova Accademia. Qui Berto parlava di sé in terza persona, raccontando per la prima volta la sua biografia alla luce del successo letterario. Cercava quindi di rintracciare negli avvenimenti che avevano costellato la sua giovinezza gli indizi della sua vocazione. Questo testo, per quanto inquinato dalla natura autobiografica, risulta fondamentale per il nostro discorso. Certo è lecito chiedersi quanto questa operazione sia stata o meno strumentale, vale a dire quanto effettivamente Berto sia stato onesto e quanto abbia abbozzato, per rendere la sua educazione letteraria più comprensibile al grande pubblico.
Fortunatamente il dubbio viene fugato sin dalle prime pagine. Per quanto la vena autobiografica sia insopprimibile, Berto la bilancia sempre con un’onestà al limite del patetico. Così troviamo subito le prime confessioni, l’adesione al fascismo, l’infanzia provinciale e la scarsa propensione agli studi. Si ripercorre insomma la giovinezza di Bepi, in modo sintetico ma puntuale, senza cadere nella tentazione di omettere qualche particolare scomodo: “Il Berto era, fin dalla nascita si può dire, sollecitato da potenti stimoli esibizionistici frenati da un altrettanto potente senso di inferiorità: condizione pericolosa, poiché chi vi si trova può trasferire in solitarie fantasie la soddisfazione del proprio desiderio di ben figurare e trascorrere magari l’intera esistenza senza combinare niente di niente. Per sua fortuna il Berto possedeva, quale principale elemento della sua struttura psichica, anche un fortissimo senso di colpa, riferentesi addirittura alla circostanza d’essere venuto al mondo, e dal senso di colpa, che sotto certi aspetti è ben apparentato alla condanna al lavoro che si ebbero Adamo ed Eva allorché furono scacciati dall’Eden, egli ricavava buoni propositi di operosità, provvisoriamente senza indirizzo. In altre parole, per lui, diventare un grande santo o un grande eroe o un grande chirurgo sarebbe stato lo stesso, poiché ciò che solo gli premeva era di diventare, in un modo o nell’altro, grande” <108.
Oltre a restituirci un quadro più che sincero di Berto, questo stralcio spalanca le porte a ulteriori considerazioni. Berto non si ritrae, come spesso accade con gli scrittori, fatalmente destinato alla scrittura. Specifica anzi che la sua ambizione era del tutto vaga. Avrebbe potuto diventare un chirurgo o un santo (al collegio salesiano qualcuno voleva in effetti indirizzarlo al sacerdozio), qualsiasi cosa purché grande. Non aveva dunque in mente la strada della scrittura, nonostante la direzione dei suoi studi. Studi, ad ogni modo, determinati più dalla moneta che dalla passione. Lettere costava meno di ogni altra facoltà, da qui la ragione di tale scelta. Il mondo delle lettere era per lui popolato da antichi scrittori sepolti da decenni, occupatisi di tematiche lontane e slegati da quello slancio vitalistico che era alla radice del suo essere: “Sognava dunque il nostro giovane ambizioso di diventare scrittore? Diremmo di no. Per lui scrittore era Cervantes, era Stendhal, era Tolstoi, ossia gente morta e sepolta. Scrittori veri e viventi potevano essercene altrove, in America, Francia, Inghilterra, cioè collocati in un mondo diverso, inimitabili. Gli scrittori italiani contemporanei, fossero Emilio Cecchi o Giovanni Comisso, Alfredo Panzini o Antonio Beltramelli, fossero o no assunti all’Accademia d’Italia, il giovane Berto non li trovava abbastanza stimolanti e tutto sommato essere scrittore al modo in cui quelli lo erano non lo solleticava affatto” <109.
Berto dunque confessa la sua distanza dal mondo letterario di allora. Una distanza dettata certo da differenze d’età, di concezione ma anche e soprattutto da ignoranza. Non aveva letto gli americani per esempio, dove certamente avrebbe potuto attingere una maggiore aderenza al presente. In loro avrebbe trovato più tardi anche la secchezza, il taglio freddo che distava secoli dalla prosa ricca e dannunziana in voga allora in Italia. Su questo punto però è bene precisare. La secchezza di taglio era una caratteristica già presente in Berto, che negli americani si limitò a ritrovare. Era come se le pagine di Saroyan dessero una maggiore dignità a quelle già scritte da Berto, elevandole da materiale giornalistico a letterario. È quello che successe, per esempio, con “La colonna Feletti”: “In verità, almeno sotto certi aspetti, i quattro pezzi con cui il Nostro iniziò alquanto modestamente la sua attività letteraria sul «Gazzettino Sera», sono pezzi giornalistici: i fatti narrati sono veramente accaduti, gli ufficiali italiani che ne sono protagonisti portano i loro veri nome e cognome, i messaggi scritti o radiotelegrafati sono scrupolosa copia di quelli originali. Uno dei propositi del Berto, nello scrivere quella roba, era di pagare un tributo di omaggio e riconoscenza a tre suoi camerati che erano morti per andare a soccorrere una colonna di cui lui stesso faceva parte e che era rimasta bloccata dai ribelli a cinque giornate di marcia da Debra Tabor, e anche questo intendimento lo legava alla realtà dei fatti. Eppure ‘La colonna Feletti’ è un racconto nel più stretto senso della parola, ed è anche un curioso racconto. Vi sono qua e là cedimenti retorici, tentazioni dannunziane, ma il generale andamento narrativo è, per quei tempi, straordinariamente sciolto e sicuro, i personaggi raggiungono senza forzature una dimensione di fantasia, e l’impegno dell’esordiente scrittore, impegno anche morale si capisce, è senza compromessi: nonostante il proposito agiografico dello scritto, i protagonisti sono esseri umani ai quali rincresce molto morire, e non arrivano mai a pensare alla Patria o al Fascismo, ma soltanto ad un dovere di soldati e di compagni” <110.
L’intento dunque era deliberatamente giornalistico ma l’esito fu letterario. Di basso profilo forse, certo lontano dai picchi toccati da “Il cielo è rosso”, ma comunque degno di nota: “In conclusione, ‘La colonna Feletti’ è un racconto ingenuo e forse addirittura elementare, ma è d’istinto lontanissimo dalla letteratura nazionale acclamata in quegli anni, e soprattutto dimostra che la derivazione del Berto da Hemingway non è così sicura come a molti è sembrata. Berto stesso non saprebbe dire se nel 1940 egli aveva già letto ‘Furore’ di Steinbeck e ‘Piccolo campo’ di Caldwell, ossia gli americani che raggiunsero subito il grande pubblico, ma, pur nel caso che li avesse già letti, non se ne scorgono tracce evidenti. L’incontro con gli americani avverrà più tardi, nei modi e nei limiti che tenteremo di definire” <111.
Dunque possiamo affermare, ponendo come testimonianza affidabile “L’inconsapevole approccio”, che Berto non si sia cimentato in prove letterarie prima della prigionia. A ulteriore riprova ricordiamo cosa avvenuto dopo la pubblicazione de “La colonna Feletti”, quando Bepi non prese nemmeno in considerazione l’idea di fare della scrittura una forma di sostentamento, preferendo concentrarsi sull’insegnamento o la carica alla Casa del Fascio. Forse per la timidezza di cui soffriva, forse per il complesso di non essere all’altezza o più semplicemente perché la pratica dello scrittore non lo aggradava. Dice lui stesso, in fondo, che divenire un Cecchi o un Comisso non lo galvanizzava poi più di tanto. Non sapeva ancora delle peripezie di Hemingway, che soffriva della sua stessa sete di vita e che, come lui, si era imbarcato volontario nella guerra. Non a caso lo scrittore americano sarà riferimento più o meno fisso del Berto scrittore nel corso degli anni.
[NOTE]
108 Giuseppe Berto, L’inconsapevole approccio in Id., Le opere di Dio, Nuova Accademia, Milano 1965, pp. 20-21.
109 Ibidem, p. 22.
110 Ibidem, p. 23.
111 Ibidem, p. 25.
Luca Biondo, La guerra di Berto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2020/2021