Fenoglio appare quindi dedito alla forma breve quasi per forza

Beppe Fenoglio per lungo tempo si reputò inadeguato al romanzo e condannato alla forma breve: “molto probabilmente non posseggo ancora, se mai lo possiederò, il fondo del romanziere. Non conosco ancora le 4 marce, per esprimermi con termine automobilistico” <141, scriveva in una lettera a Elio Vittorini (9 giugno 1953). Questo lo si può comprendere se pensiamo che Fenoglio aveva dovuto smembrare “La paga del sabato” (unico romanzo presentato ad Einaudi a quella data) per trarne dei racconti, pratica che diverrà consueta negli anni seguenti: infatti continuerà a prelevare singoli capitoli da libri già compiuti o semi-compiuti per ricavarne delle prose di misura più contenuta e adatte ad una circolazione indipendente, magari su rivista. Certo il rapporto tra romanzo e racconto non si riduce solo alla dialettica tra lungo e breve, ma vi sono delle tecniche specifiche che coinvolgono un genere e non l’altro. Fenoglio purtroppo non ci ha lasciato riflessioni teoriche, ma sembra che una delle sue maggiori difficoltà riguardasse la fine dei romanzi: non sapeva mai come chiudere le sue storie. E’ possibile riscontrarlo nelle varie stesure delle sue opere (compiute e incompiute): si trovava infatti sempre di fronte alla stessa incertezza, al problema di finali che dovevano essere corretti artisticamente ma anche eticamente (altrimenti avrebbe tradito il senso dell’esperienza partigiana). Allora di fronte a queste indecisioni, le varie redazioni delle sue opere sembrano testimoniare un’evoluzione molto simile: dopo aver previsto un finale positivo, l’autore si convinceva che qualsiasi conclusione che non prevedesse la morte del protagonista fosse inadeguata. <142 Fenoglio appare quindi dedito alla forma breve quasi per forza; ma ai racconti si legherà anche la fama (non molta a dir la verità) avuta in vita, e proprio a questi dedicherà alcuni dei suoi ultimi pensieri prima di morire (diede infatti disposizioni su come organizzare una raccolta complessiva). Insomma, vediamo un rapporto particolare con questo genere. Nonostante i racconti siano stati così importanti nella sua vita dobbiamo però segnalare che oggi l’attenzione dei critici è rivolta soprattutto ai romanzi postumi, mentre la forma breve viene generalmente solo sfiorata in quanto anticipazione dei grandi capolavori. <143 In questa sede ci concentreremo allora soprattutto sul racconto, senza dimenticare però di tratteggiare le caratteristiche principali dei romanzi di argomento resistenziale. Per quanto riguarda i dati biografici, così Fenoglio stesso rispondeva a Calvino che gli chiedeva qualche riga di presentazione da inserire nel risvolto di copertina del suo primo libro, “I ventitre giorni della città di Alba”: “Circa i dati biografici, è dettaglio che posso sbrigare in un baleno. Nato trent’anni fa ad Alba (1° marzo 1922) – studente (Ginnasio-liceo, indi Università, ma naturalmente non mi sono laureato) – soldato nel Regio e poi partigiano: oggi, purtroppo, uno dei procuratori di una nota ditta enologica. Credo che sia tutto qui”. <144 Si tratta di una presentazione decisamente scarna, che però riproporrà molto simile diversi anni dopo, nel 1960, aggiungendo solo qualche riga sul perché scrive: “Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati in laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo “. <145 In queste poche righe, che in fondo rispecchiano l’indole del loro autore, così taciturno, vi sono comunque i momenti fondanti della sua vita: il liceo e la lotta partigiana. Arrivato infatti al liceo Govoni di Alba, come piccolo borghese (figlio di un macellaio) tra gli aristocratici, avrà una serie di insegnanti d’eccezione, tra cui ricordiamo Pietro Chiodi (lo stesso autore di “Banditi”, che Fenoglio certamente lesse appena uscito), Leonardo Cocito, e la professoressa Maria Lucia Marchiaro, colei che inizierà Fenoglio alla lingua inglese, aprendogli così anche le porte di quello che sarà per lui un mondo ideale, che vivrà “in una lontananza metafisica dallo squallido fascismo provinciale che lo circondava” <146. L’inglese diverrà però per lui anche un modo per trovare sé stesso e la propria lingua: tradurre dopo l’esperienza della guerra è paragonabile ad un noviziato allo scrivere, infatti, come ha notato Maria Corti, all’atto del tradurre, “i valori formali che lo colpivano nella lingua originale, stimolavano l’ingegno a riscoprirli nella propria”. <147 L’inglese diviene quindi una vera e propria palestra di stile, una lingua mentale, mediatrice nell’atto creativo. L’altra grande esperienza di Fenoglio era stata ovviamente la guerra partigiana. Sorpreso dall’avvento dell’8 settembre 1943, finché si trovava a Roma, al corso per allievi ufficiali del Regio esercito, riesce a fuggire e a tornare ad Alba. In seguito, prenderà parte alla lotta resistenziale, che condurrà in maniera più discontinua rispetto al suo Johnny: vi parteciperà infatti in un primo periodo per qualche settimana nel gennaio del 1944, tra le formazioni garibaldine, e poi dall’estate di quello stesso anno fino alla Liberazione, insieme ai badogliani. Dopo la guerra, vivrà un periodo di difficoltà <148, che si concluderà solo nel 1947, quando viene assunto alla Marengo, ditta vinicola. Da questo momento la sua vita assume un ritmo serratissimo: lavorava durante il giorno, la sera incontrava gli amici al bar e nella notte, come ricorda la sorella, non faceva che scrivere. “Certe sere tornava a casa prima del solito, visibilmente gravido di pensieri da affidare alla carta […]. Si ritirava subito nella camera della scala e attaccava a lavorare. Noi dall’alto percepivamo quei tre segni inconfondibili della sua presenza in casa: il fumo delle sigarette, la tosse, e il battere dei tasti della macchina da scrivere. Scriveva ininterrottamente per ore”. <149 Da questo momento Fenoglio si dedicherà sempre alla scrittura, cominciando e spesso abbandonando molti progetti. Possiamo dire che i grandi temi della narrativa fenogliana sono essenzialmente due: la guerra (dalla Resistenza degli “Appunti partigiani” e i “Ventitre giorni della città di Alba” fino al suo ultimo progetto, rimasto incompiuto, “I Penultimi”, storia di alcuni Fenoglio durante la Prima guerra mondiale) e la civiltà contadina delle Langhe. Tuttavia, se andiamo ad eliminare da tutte le sue opere ogni intreccio, quello che resta alla fine sono un tema e un paesaggio: da una parte la riflessione metastorica (più che storica) sull’uomo posto di fronte al suo destino, alla morte; dall’altra le Langhe, una terra aspra, di fatica e miseria, senza alcun conforto religioso <150, e tuttavia anche luogo affascinante e madre protettrice durante la guerra. Dall’amore per queste colline Fenoglio trarrà la rappresentazione di un paesaggio indimenticabile, che prende parte attivamente agli eventi della guerra (un paesaggio che in realtà aveva già visto un altro narratore d’eccezione: Cesare Pavese, il quale però ne aveva dato una rappresentazione mitica <151). Proprio alle Langhe e alla sua esperienza di guerra continua a tornare negli scritti dei primi anni: dopo gli “Appunti partigiani” (risalenti probabilmente al 1946), si dedica infatti a scrivere alcuni racconti di argomento resistenziale e un romanzo, “La paga del sabato”, sulle difficoltà del reduce. Sarà proprio con queste due opere che tenterà lo sbocco editoriale. Nel 1949 manda “I racconti della guerra civile”, (questo il titolo che sceglie per la raccolta) a De Silva, Bompiani, Mondadori ed Einaudi, ottenendo però solo che Valentino Bompiani gli pubblichi “Il trucco”, uno dei racconti, nella rivista <>. Poi i rapporti con la casa editrice milanese svaniranno all’improvviso.
In seguito, Fenoglio riesce a riproporre i propri racconti all’Einaudi, in particolare nelle persone di Calvino e Vittorini: dopo molti scambi epistolari, aggiustamenti, aggiunte e sottrazioni, “I ventitre giorni della città di Alba” vedrà finalmente la luce a metà 1952 nei <>, con una fisionomia però diversa da quella originale.
Innanzitutto, è mutato il titolo: quel riferimento ad una “guerra civile” significava infatti allontanarsi dalla via consueta, quella appunto celebrativa, per porre invece l’attenzione sull’asprezza della lotta, tanto più tale perché appunto civile e fratricida (e infatti nei racconti fenogliani il nemico è spesso il fascista italiano, e non il tedesco). Per questo Vittorini gli propone subito un titolo diverso: “Racconti barbari”, ma alla fine sarà la posizione di Giulio Einaudi a prevalere, che opterà per dare alla raccolta il titolo del primo racconto.
I racconti di argomento partigiano che formavano “I racconti della guerra civile”, vengono inoltre accompagnati da altrettanti pezzi langhiani e provinciali (tra i quali due racconti tratti dalla “Paga del sabato”, rifiutato da Vittorini); dunque la raccolta sembrava ben rappresentare i vari filoni neorealisti. <152 Nel 1952, però il libro giunge in un mercato già saturo di volumi a tema resistenziale e contadino: probabilmente era questo il motivo per cui Fenoglio aveva fatto tanta fatica a veder pubblicata la propria opera. Lo stesso Vittorini infatti sapeva che i critici contemporanei erano sempre più ostili al neorealismo, accusato di regionalismo, crudezza e manierismo, e per questo nel risvolto di copertina cerca di mettere in evidenza le qualità indiscusse del nuovo autore: “Ed è questo sapore “barbaro” a caratterizzare i racconti che ora presentiamo, rievocanti episodi partigiani o l’inquietudine dei giovani nel dopoguerra. Sono racconti pieni di fatti, con un’evidenza cinematografica, con una penetrazione psicologica tutta oggettiva e rivelano un temperamento di narratore crudo ma senza ostentazione, senza compiacenze di stile ma asciutto ed esatto. Le varie recensioni confermeranno il parere di Vittorini, a partire da quelle positive di De Robertis e Anna Banti. Tuttavia, bisogna dire che probabilmente Fenoglio fu più colpito e amareggiato da un pezzo apparso sull’Unità, a firma di Carlo Salinari e Davide Lajolo, che lo attaccano, definendo il libro “una cattiva azione”. <153
[NOTE]
141 Lettera di Fenoglio a Elio Vittorini, da Alba, 9 giugno 1953, in P. NEGRI SCAGLIONE, Questioni private, Torino, Einaudi, 2006, p. 167.
142 Cfr. G. PEDULLA’, La strada più lunga. Sulle tracce di Beppe Fenoglio, Roma, Donzelli, 2001.
143 Paradossalmente lo stesso L. BUFANO nel suo saggio Fenoglio e il racconto breve (cit.) si sofferma molto sulla ricostruzione delle vicende editoriali, mentre tralascia ogni analisi dei singoli racconti.
144 Lettera di Fenoglio a Italo Calvino, da Alba, 9 febbraio 1952, in P. NEGRI SCAGLIONE, Questioni private, p. 155-156.
145 Cfr. Ritratti su misura, a cura di E. F. Accrocca, in P. NEGRI SCAGLIONE, Questioni private, cit., p. 222.
146 P. CHIODI, Fenoglio, scrittore civile, in ‘Quaderni dell’istituto Nuovi Incontri’, n. 4, 1968, pp.40-41.
147 M. CORTI, Beppe Fenoglio. Storia di un continuum narrativo, Padova, Liviana, 1980.
148 Ben testimoniato dal romanzo La paga del sabato (in Tutti i romanzi, cit.), che però l’Einaudi (Vittorini in particolare) rifiuterà di pubblicargli.
149 M. FENOGLIO, Casa Fenoglio, Palermo, Sellerio, 1995, p. 120.
150 Cfr. R. MOSENA, (Fenoglio. L’immagine dell’acqua, Roma, Edizioni Studium, 2009), che insite proprio sui rimandi alla Bibbia per l’interpretazione dell’opera e del paesaggio (una sorta di Paradiso perduto) fenogliani.
151 Cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, La fortuna letteraria dei ventitré giorni, in Alba libera, Cuneo, Istituto storico della Resistenza, 1985, p. 80. “Non è poco davvero: Pavese ha fatto scendere dall’Olimpo e salire dagli Inferi gli dei per farli muovere sulle Langhe, in mezzo a vigne, contadini, rive, ritani: Fenoglio vi convoca Omero, Virgilio, Tasso, Foscolo, intorno ai “ventitré giorni” di Alba, tanto pochi, certo, rispetto ai dieci anni di Troia […]”. Spesso Fenoglio e Pavese sono stati accostati proprio in virtù di questo paesaggio comune; sembra però che la distanza fosse davvero molta tra i due e che lo stesso Fenoglio non amasse essere affiancato al suo conterraneo.
152 Cfr. L. BUFANO, Beppe Fenoglio e il racconto breve, cit. per una più accurata ricostruzione delle vicende che interessarono questa raccolta.
153 Cfr. G. DE ROBERTIS, Fenoglio scrittore nuovo, in Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, 1962, p. 563, e A. BANTI, Scuola o accademia?, in Opinioni, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 151.
Adele Cavestro, Oralità e temporalità nei racconti della Resistenza, Tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2017/2018