Cesare Zavattini a Milano

È un saggio corposo e rigoroso, ma si legge come un romanzo Cesare Zavattini a Milano (1929-1939) (Libreria Ticinum Editore), ultima pubblicazione di Guido Conti, che alterna l’impegno di scrittore con quello di saggista. Infatti, nonostante si tratti di un’opera ricca di documentazione, frutto evidente di una ricerca importante ed esaustiva, l’autore riesce a coinvolgere il lettore profondamente e con passione nella avventurosa giovinezza di una delle figure più rilevanti della cultura del Novecento, Cesare Zavattini. Così, anche grazie al testo di Conti, capiamo come questo straordinario e particolare intellettuale sia, ancor oggi, un punto di riferimento, nonchè un fondamentale “apripista”, per l’evoluzione della letteratura, del cinema, dell’editoria, del fumetto, della pubblicità, in genere, dei mass media del nostro paese.
[…] Milano tra gli anni venti e i trenta, “nonostante i freni e le resistenze del Fascismo è diventata la locomotiva del paese che si sta industrializzando, entrando pienamente in quei processi produttivi capaci di cambiare i comportamenti degli italiani (…) Cinema, radio e giornali s’impongono come fenomeni di massa…” (p.12). Quando Zavattini si stabilisce definitivamente nel capoluogo lombardo – con moglie e figli -, è in un momento difficile: ha lasciato il suo paese Luzzara, sta elaborando la morte del padre, ha deciso di non impegnarsi nell’azienda di famiglia (il ristorante coperto da debiti) ed è desideroso di affermarsi soprattutto come giornalista e scrittore. A Milano, come si è detto, trova un ambiente vivace, sia dal punto di vista intellettuale sia da quello lavorativo. E se Zavattini non era uno sconosciuto, perchè negli anni giovanili aveva collaborato con riviste rilevanti e frequentato scrittori di fama, nella città lombarda non tarda a inserirsi nell’ambiente culturale e diventare amico di tanti artisti e intellettuali. Assunto come correttore di bozze, a 600 lire al mese da Rizzoli, inizia a collaborare con vari giornali e riviste, mettendo a frutto la sua incredibile creatività. Giustamente Guido Conti parla, in questo caso, di “laboratorio diffuso”, i cui frutti si vedranno anche nei suoi primi testi di narrativa. Tra l’altro, il saggio di Conti ha il merito di fare ordine nelle decine di articoli scritti da Zavattini durante gli anni milanesi, un lavoro che, data la mole, può essere ancora approfondito e che, comunque, riserva sorprese e ci mostra un autore moderno, eclettico, capace di passare brillantemente da pezzi scritti per giornali femminili a quelli di argomento cinematografico, letterario, umoristico. La svolta, che porterà la grande popolarità a Zavattini, è la pubblicazione, nel 1931, di Parliamo tanto di me. Il testo è pubblicato da Bompiani, un editore che stava cercando una sua forte collocazione tra i “grandi” Rizzoli e Mondadori, che aveva conosciuto Zavattini, con cui da subito aveva stretto una collaborazione, alla quale, col tempo, si sarebbe affiancata una durevole amicizia. Bompiani “segue” con attenzione il lancio del libro, supportandolo con ogni mezzo pubblicitario e Parliamo tanto di me diventa un inaspettato successo di pubblico e di critica, un innovativo esempio di narrativa, anche, ma non solo, umoristica. I più importanti recensori letterari dell’epoca gli dedicano pagine, nel complesso, sempre molto positive. Guido Conti ne riporta le più significative, tra le altre, quelle di Pancrazi, Vittorini, Fortunato Formiggini. E se Cino Calcaprina su “Il pensiero di Bergamo” annotava giustamente come il libro avesse successo perché “si rivolge a un pubblico nuovo che vuole leggerezza”, Alessandro Minardi su “La Fiamma” di Parma ha la corretta intuizione di paragonare l’umorismo zavattiniano con quello di Chaplin-Charlot (d’altronde, il regista americano era tra gli idoli cinematografici dallo scrittore di Luzzara). Dopo la grande fortuna di Parliamo tanto di me, il percorso milanese di Cesare Zavattini è ricco di impegni importanti e di notevoli soddisfazioni artistiche ed economiche. Si divide tra Rizzoli e Bompiani, per cui cura, per alcuni anni, l’ “Almanacco letterario”, facendolo diventare un brillante lavoro editoriale sintetizzante in maniera moderna le tendenze della cultura italiana degli anni trenta, servendosi di collaboratori giovani, i quali già dimostravano il talento che li caratterizzerà per tutta la loro carriera. In questo senso, si veda il geniale contributo all’”Almanacco” offerto da Bruno Munari con la sua grafica, i suoi collage, i suoi disegni. Gli “Almanacchi” zavattiniani sono “pieni di elettricità”, ma dimostrano come si possa fare cultura con una buona dose di ironia e di piacevolezza mai banale. A questo impegno si affiancavano le collaborazioni alle riviste, comprese quelle di argomento cinematografico. Peraltro, proprio in quegli anni, Zavattini iniziava a pensare alla settima arte come un linguaggio nuovo su cui sperimentare. Forte della passione che lo aveva sempre accompagnato nella fruizione delle pellicole in sala, frequentate regolarmente, si dedica, firmandolo con l’amico Giaci Mondaini, il primo soggetto, dapprima pubblicato sul “Quadrivio”, poi, acquistato dalla Rizzoli Novella Film diventerà, nel 1934, uno dei più celebri film di Mario Camerini: Darò un milione, interpretato da Vittorio De Sica e Assia Noris. La pellicola sarà un buon successo, ma è ancora solo l’anticamera del futuro, importante impegno cinematografico di Zavattini. Infatti, lo scrittore deve ancora trascorrere alcuni anni a Milano realizzando altre esperienze editoriali e lettererarie, nello stesso tempo, esaltanti professionalmente e complesse per quanto riguarda la vita privata. Intanto, licenziato dalla Rizzoli per dissapori di cui l’editore si pentirà amaramente, passerà con un contratto, economicamente lusinghiero, alla Mondadori. In questa azienda, si occupa di fumetti, di cui scrive alcune sceneggiature, dimostrando, ancora una volta, di essere attento ai nuovi linguaggi artistici e capace di dominarli, come, per esempio, in Saturno contro la terra. Si occupa, poi, di realizzare nuove riviste, riprende con un successo straordinario “Le Grandi Firme”, un progetto che da direttore editoriale condivide con Pitigrilli (il quale resterà, come scrive Conti, “direttore nominale più che di fatto”) e con il fondamentale apporto del disegnatore Gino Boccasile. Il giornale diventa da una piatta rivista di novelle, a un magazine moderno, “indirizzato a un pubblico vario…Il settimanale veicola un sogno collettivo di abbondanza, di bellezza, erotismo e sensualità, soprattutto di svago in un momento molto difficile” (p.406). L’immagine della donna proposta dalle “Grandi Firme” è all’antitesi di quella supportata (per quanto, a sfogliare altre riviste femminili del tempo, poco ascoltata) dalla propoganda ufficiale del regime, ma anche i contenuti sono spesso “spregiudicati”, tanto che la il giornale, nel 1939, viene fatto chiudere. Per capire la popolarità di questa rivista, Guido Conti ci ricorda che arrivò a vendere 250 mila copie! Il periodo delle “Grandi Firme” coincide con l’uscita del secondo libro di Cesare Zavattini: I poveri sono matti (1937). Chi si aspettava il sequel di Parliamo tanto di me rimane deluso. Non manca il sottile, surreale umorismo zavattiniano, ma siamo in un altro ambito di stile e contenuti. Conti sottolinea come questo testo possa essere “la cartina di tornasole di un intellettuale che vive al tempo del fascismo, con queste drammatiche contraddizioni che restano nascoste nel più profondo dell’anima e che lo scrittore porta a galla” (p. 420). Zavattini sembra sprofondare “nel buio dell’anima (…) un dissidio metafisico che influirà profondamente sui suoi pensieri d’uomo e di scrittore” (p. 421). Infatti, probabilmente, inizia, in questo periodo, quel momento di ripensamento velato da elementi depressivi che porterà, a fine decennnio trenta, Zavattini a decidere un cambiamento radicale nella sua professione e nella sua residenza. Se ancora per Mondadori tenterà di creare un giornale umoristico “milanese” (“Settebello”) in grado di contrapporsi al romano di gran successo “Marco Aurelio” e darà pure vita a riviste interessanti, quanto di mediocre successo (“Il Milione”), nel 1939, Cesare Zavattini si licenzia da Mondadori, lascia una rilevante sicurezza economica e parte per Roma verso un’ennesima esaltante avventura, quella del cinema, “diventando un protagonista mondiale”.
Elisabetta Randaccio, Cesare Zavattini a Milano di Guido Conti, Teorema, 2 aprile 2021

[…] I dieci anni vissuti da Cesare Zavattini a Milano (1929-1939) sono fondamentali per ricostruire la sua vita, per capire la sua opera e la cultura negli anni Trenta durante il Fascismo. Milano diventa una capitale moderna e all’avanguardia dove confluiscono scrittori e poeti da tutta Italia e artisti di ritorno da Parigi, si aprono gallerie d’arte e molti scultori e pittori apportano esperien- ze artistiche diverse, in un clima culturale di grande fermento. Zavattini, sull’onda del mito del Bagutta, da Luzzara sbarca a Milano senza una lira, e nel giro di pochi anni diventerà “il padrone di Milano”. Dopo il clamoroso successo del suo primo romanzo Parliamo tanto di me pubblicato da Bompiani nel 1931, da correttore di bozze diventa responsabile di tutti i settimanali femminili per Rizzoli, portando le sue idee e la sua carica innovativa. Con la collaborazione agli almanacchi letterari Bompiani Zavattini sperimenta con la fotografia seguendo le avanguardie europee, portando con sé collaboratori giovanissimi come Bruno Munari ed Erberto Carboni. Za intreccia così la sua vita con giovani scrittori, poeti, artisti, segnando il loro destino: Attilio Bertolucci, Giovannino Guareschi, Carlo Bernari, Salvatore Quasimodo, Raffaele Carrieri, Giorgio Scerbanenco, Vittorio Metz, Giovanni Mosca, sono solo alcuni dei tanti autori che fa collaborare ai rotocalchi o debuttare come scrittori. Zavattini fa reagire, con la carica innovativa dell’umorismo che ha come riferimento Carlo Collodi, la tradizione emiliana, le avanguardie letterarie e artistiche europee, e la tradizione dei giornali satirici e umoristici ottocenteschi, che con lui contaminano i rotocalchi e l’alta letteratura, ridisegnando così un panorama letterario novecentesco completamente dimenticato o snobbato dalla storiografia. Sono gli anni in cui si diffonde la radio in tutte le case, c’è un nuovo pubblico affamato di notizie e di storie, che vuole nuovi giornali e settimanali. Il cinema, con il suo immaginario, entra prepotentemente nella quotidianità, in uno dei periodi più difficili della storia d’Italia. Questo grande fermento è in attrito con il regime fascista, sempre più oppressivo e reazionario, che vuole piegare i media al consenso e alla fascistizzazione della vita degli italiani. Il passaggio da Rizzoli a Mondadori, come direttore editoriale, segna il suo ingresso nel mondo dei fumetti di fantascienza con Saturno contro la terra, e l’inizio di nuove collaborazioni a diversi settimanali satirici: «Marc’Aurelio» e «Settebello» di cui sarà direttore. Il settimanale «Le Grandi Firme» diventerà un fenomeno di costume con tirature da capogiro, a cui segue, non ultimo, la carica innovativa de «Il Milione». Zavattini è uno scrittore inquieto, che attinge alla tradizione dell’umorismo e dell’antiromanzo, portando la novità della sua scrittura ne I poveri sono matti (1937), che lo consacrano come un autore decisivo non solo per quegli anni. E poi la radio, l’editoria, i soggetti per il cinema come Buoni per un giorno (1934), il disegno: tutte esperienze che fanno di Zavattini un intellettuale eclettico e coerente, vitalistico e rivoluzionario, che la critica ha ridotto a sceneggiatore di film. Questo lungo saggio dimostra come Zavattini sia un umorista consapevole, con solide basi teoriche, che mescola i generi, sperimenta continuamente con i nuovi media, elabora strategie narrative innovative, creando i presupposti per una modernità che ci riguarda ancora oggi. Un saggio che apre gli orizzonti verso un Novecento tutto da riscrivere e da raccontare.
[…] La collaborazione con gli editori Rizzoli, Bompiani e Mondadori, porta Zavattini ad essere un protagonista di primo piano di questo momento di trasformazione epocale, sperimentando modi e forme sempre diverse di scrittura e comunicazione. Zavattini è un centro di rapporti, è una calamita: attira e irradia energie, condivide idee e progetti con altri, inventa rubriche coinvolgendo giovani che segneranno la storia culturale del nostro paese lungo tutto il Novecento. Al macero, la raccolta uscita da Einaudi nel 1976 a cura di Giovanni Negri e Gustavo Marchesi, è solo la punta di un iceberg, e questo lavoro vuole riaprire una porta verso lo studio di quegli anni, quando Zavattini diventerà “il padrone di Milano”.
Il periodo milanese di Zavattini rimette in discussione l’edizione della sua opera e la pubblicazione dei suoi scritti, impone una seria riflessione sulle tradizioni letterarie del Novecento e come queste interagiscono tra loro, sul ruolo e la figura del critico letterario che deve allargare le sue conoscenze ad altri campi come la fotografia, il cinema, il giornalismo non solo culturale, la grafica e il design, le nuove forme della comunicazione della radio e della televisione, in un continuo intreccio dove la narrativa e la narrazione vengono incessantemente contaminate dai nuovi linguaggi […]
Cesare Zavattini a Milano, Corso Italia 7, olioofficina, 14 ottobre 2019

Zavattini Cesare: 7 L di Zavattini del 1942 e del 1951; 1 M di UB: dopo rinnovate richieste di Zavattini, UB gli invia tre piccoli dipinti (un paesaggio, un autoritratto, una figura di bambina) che rientrano nella sua collezione di quadri minimi 8 x 10 [038].
L’Archivio Ugo Bernasconi, Carteggi, Manoscritti, Documenti a stampa (1874-1960). Inventario, Carteggi: elenco dei corrispondenti, a cura di Margherita d’Ayala Valva, Edizioni Scuola Normale Superiore Pisa, 2005