Uno dei falsi americani nascosti dietro un grottesco nom de plume altri non è che Giorgio Scerbanenco

Il 6 novembre 1937 è un’altra data epocale nella prima parte della vita di Giorgio Scerbanenco: dopo tre anni di indefessa attività, si licenzia infatti dalla Rizzoli passando clamorosamente alla concorrenza di Mondadori <52. Prima però che la separazione si consumi a seguito di un episodio troppo letterario e leggendario per esserne la sola vera ragione motivante, tra maggio del ’36 e agosto del ’37 fa ancora in tempo a partecipare a una bizzarra iniziativa editoriale firmata Rizzoli e destinata ad avere fondamentali ripercussioni nella maturazione creativa del giovane Scerbanenco il quale offre una decisiva dimostrazione di appartenenza a un genere – quello del noir – che sarebbe poi diventato la sua cifra migliore nel quinquennio magico di fine anni ’60 durante il quale venne alla luce la figura di Duca Lamberti.
Tra le molte testate rizzoliane sulle quali Scerbanenco scrive dal momento in cui viene assunto come redattore dei vari periodici che costituiscono l’articolata galassia editoriale del colosso di Piazza Erba <53, il settimanale “Il Secolo Illustrato” era quello che aveva il compito di informare il pubblico in maniera superficiale e spicciola garantendo intrattenimento letterario senza eccessive pretese. Il 30 maggio del ’36 la rivista lancia una rubrica nuovissima con un titolo che è tutto un programma: “Gangsters e G-Men. Tutt’azione. Come un film” <54. Con cadenza settimanale, nell’arco di poco più di un anno, 46 autori diversissimi gli uni dagli altri per provenienza geografica e formazione culturale si alternano sfornando 56 racconti programmaticamente incentrati su vicende tratte dallo scontro tra le forze del Bene incarnate dai Governativi dell’FBI (per l’appunto i noti G-Men) e la criminalità comune. Scenario fisso di questa lotta senza quartiere sono le metropoli nordamericane, trasformate in gironi infernali in cui la violenza e il degrado quotidiano di uomini e cose sembrano essere il solo segno di vita lasciato dal ciclone della Grande Depressione. Un incubo socio-economico che si rivela però essere l’incubatrice naturale di una fioritura di grande letteratura successivamente riassunta nel sottogenere un po’ generico del cosiddetto hard-boiled che, pur nella discontinuità dei risultati produttivi forniti dai vari autori accomunati sotto questa etichetta di comodo, vanta comunque acuti di qualità assoluta quali i romanzi di Dashiell Hammet e Raymond Chandler.
Dei 46 autori di cui vengono pubblicati i racconti su “Il Secolo Illustrato” più della metà erano nordamericani già affermatisi in quel vasto arcipelago di riviste specializzate in diffusione di letteratura popolare di vario tipo poi conosciute come “pulp magazine” <55, deputate – proprio come “Il Secolo Illustrato” – a fornire intrattenimento di facile consumo attraverso racconti riconducibili a vari generi letterari in voga all’epoca. Accanto a queste note firme americane di autori attivi già da tempo nell’universo della letteratura hard-boiled, sul settimanale rizzoliano fanno la loro comparsa giallisti italiani che, pur firmando i racconti con i propri nomi reali, li ambientano rigorosamente nel tipico contesto della violenza metropolitana del Nord America e ripropongono in maniera un po’ pedissequa l’eterno e spietato scontro tra delinquenti comuni e agenti governativi col pelo sullo stomaco. Ma sulle pagine de “Il Secolo Illustrato” c’è poi anche una terza categoria di scrittori, più difficili da catalogare e da ricondurre a realtà anagrafiche chiaramente identificabili: si tratta di quanti pubblicano alcuni dei brevi racconti celandosi dietro fantasiose identità fittizie create in maniera goffa sulla scorta di originali americani mal masticati e ancor peggio traslitterati. Ecco quindi apparire, in mezzo a personalità autentiche quali gli americani veri Matt Taylor, Leo Hosban, Franck Conon, Norbert Davis o gli italianissimi Gastone Tanzi e Nicola Manzi, degli involontariamente spassosi Reader Conner, Warren Galahan, Albert De Corque e via di questo passo. Notizia questa che potrebbe sembrare del tutto irrilevante all’interno della nostra ricerca, se non fosse che uno dei falsi americani nascosti dietro un grottesco nom de plume altri non è che Giorgio Scerbanenco <56. 6 dei summenzionati 56 racconti apparsi tra il 30 maggio del 1936 e il 18 dicembre del 1937 sono firmati da un non meglio identificato Denny Sher, mentre un settimo risulta opera di Denny Sheer, evidente errore tipografico di trascrizione dello stesso nome fittizio che conferma quanto maldestra fosse l’operazione di mascheramento onomastico di alcuni giallisti italiani che, non essendo ancora sufficientemente affermati, non venivano rischiati con le proprie generalità ma spacciati come statunitensi nel calderone onnicomprensivo dell’offerta poliziesca insieme a tutti gli altri americani autentici.
Aldilà di queste considerazioni di natura puramente esterna ai contenuti e l’inevitabile ironia che si può fare su certi atteggiamenti di faciloneria editoriale che non erano affatto motivo di disagio estetico per i poco avveduti lettori dell’epoca, i sette testi meritano invece un esame quanto mai accurato perché permettono di confermarne la paternità scerbanenchiana e di mettere in evidenza le doti di creatività mimetica da parte di un autore destinato a produrre il meglio di sé proprio nel genere letterario – il noir nudo e crudo – che questi brevi racconti documentano a livello di primo contatto conoscitivo.
Per capire quanto questi sette testi siano intimamente diversi da tutti gli altri usciti su “Il Secolo Illustrato” nella sezione dedicata a celebrare lo scontro tra G-Men e criminalità comune basterebbe fare un confronto a livello formale e contenutistico tra i vari racconti. Scerbanenco sembra più autentico anche degli americani “veri”, capace com’è di descrivere con pochi tocchi magistrali un ambiente metropolitano di cui non sa evidentemente quasi nulla e che forse conosce soprattutto per quanto ha visto al cinema in quegli anni <57 e non certo perché legga cronache sui giornali o si documenti. Non dovendo – come poi sarà costretto nel Ciclo di Jelling – descrivere in maniera analitica gli ambienti in cui si muovono i suoi degradatissimi anti-eroi, non ha materialmente lo spazio per creare quell’effetto di disagio geografico e toponomastico che la lettura dei romanzi incentrati sul personaggio dell’archivista della polizia di Boston induce nel lettore anche meno attrezzato. Una cantina che sembra l’anticipazione del tarantiniano Reservoir Dogs, un alberghetto sulla newyorkese 12ma strada, la Stazione ferroviaria di una grande metropoli, una villetta isolata nella campagna di un paesino che sarebbe fatica sprecata cercare sulle carte, la metropolitana di New York chiamata senza alcuna vergogna con un nome (“tub”) che avrebbe un senso solo a Londra se fosse scritto in modo corretto, cocktail-bar dai nomi improbabili ma suggestivi (Terapic, Metropole), città industriali perse nella più impoetica delle province del Midwest: sono questi gli scenari in cui Scerbanenco, con pochi tocchi magistrali, allestisce il suo teatrino di marionette violente che agiscono in preda a istinti primari facendo della ferocia belluina la sola sintassi possibile per le proprie relazioni interpersonali. A scenari tanto essenziali corrispondono baratri infiniti di barbarie travestita da umanità: tutti contro tutti in una guerra senza vincito-ri né vinti nella quale il Bene e il Male sono le due facce della stessa me-daglia e il caos regna sovrano a squinternare le previsioni fatte sulla base della logica.
I personaggi positivi non esistono: è vero che Scerbanenco si adegua ai dettami della letteratura hard-boiled e di conseguenza mette in scena delinquenti e poliziotti con la stessa bava alla bocca e l’allergia alle buone maniere e ai valori di un’etica che non paga. Così come non va dimenticato che la feccia che popola le poche ma destabilizzanti pagine di questi sette raccontini è un plotone di cloni di laboratorio assemblati alla perfezione su stampi di fabbrica nati altrove e solo in quell’altrove capaci di farsi simbolo esasperato di un universo vero pur nella sua surreale esagerazione da fumetto malvagio. Ma va anche sottolineato come i suoi cattivi siano cattivi da archetipo che potrebbero stare perfettamente a proprio agio in qualunque romanzo dell’epoca e che sembrano saltare di pari passo tutto il ciclo di Jelling, gettando la propria lunga e sinistra ombra sui balordi e sulla feccia assortita che popola l’universo milanese percorso con rabbia da Duca Lamberti nonché scenario costante dei racconti più incisivi tra quelli contenuti nelle raccolte “maggiori” di ‘Milano calibro 9’ e ‘Il Centodelitti’. Come se l’operazione di adattamento a un modello letterario del tutto decontestualizzato dalla realtà cui il giovane Scerbanenco si adegua sulla scorta di un’iniziativa editoriale nella quale viene coinvolto fosse una fortunatissima anticipazione di quegli scenari di degrado urbano che, di lì a trent’anni, saranno invece lo specchio realistico di quella Milano putre-scente di metà anni ’60 che non si accorge di essere una versione attua-lizzata delle metropoli americane del dopo Grande Depressione tanto care alla letteratura pulp e si atteggia a capitale industriale di un paese, l’Italia, sospesa tra il baratro della barbarie e l’illusione della modernità.
Se è ovviamente impensabile aspettarsi che i malviventi siano meno che belve assatanate, è però più sorprendente che anche i pochi e presunti personaggi positivi non riescano a essere tali sia per il fatto di vivere nel tritacarne che appiattisce tutti senza escludere nessuno, e sia perché spesso si devono adeguare alle modalità comportamentali di quelli cui danno la caccia o accettare paradigmi etici necessari per entrare in sinto-nia con le persone cui vogliono dare una mano. È il caso di Dubby Rean, la sfortunata G-Woman protagonista di Tiro all’uomo <58: infiltrata dai governativi in una banda di gangster insieme al fidanzato nonché futuro sposo Al, dovendo evitare di destare sospetti per dar prova di essere una del gruppo, non ha esitazione a sparare il colpo di grazia proprio al povero Al, accusato di voler far fessi gli altri componenti della ghenga e involarsi col bottino di una rapina in banca. O ancora di Rosalinde Burton ne ‘La mamma di Burton’ <59: dopo aver saputo dove si trova il figlio, il quale ha appena rapito un bambino per ottenerne un riscatto e aver tentato invano di parlargli siccome non lo vede da tre anni, quando la polizia la interroga, non ha un attimo di esitazione e mente come se fosse una criminale incallita:
“La Signora Burton era calma e tranquilla, come gli altri giorni.
«Da quanto tempo non avete notizie di vostro figlio?», domandò Mealton.
«Da tre anni, signore. Da quando andò a New York a lavorare da Meys e C».
«Da allora non lo avete più rivisto?».
«No, signore».
«Certo non vi ha scritto mai, vero?».
«Oh, sì. Una volta, da New York. Mi chiedeva del denaro».
Il sergente fece una smorfia: «Allora non ve l’avrà chiesto una volta sola…».
La signora Burton mentì candidamente: «Proprio così, signore, una volta sola».
«E qual era il suo ultimo indirizzo?».
Essa mentì ancora e non dette l’indirizzo della pensione.”
Non è infatti un caso che la donna faccia una fine del tutto non in sintonia con la propria natura di brava mamma in ansia per il figlio scapestrato: ingannata da un G-Man che si finge amico del figlio Bob e dice di essere stato mandato da questi a chiederle denaro per poter fuggire, la donna prende tutti i contanti che ha e si reca in fretta e furia dal figlio, ignara di essere stata circuita e non è ovviamente preparata a finire colpita da una pallottola vagante che le trapassa il volto mentre il figlio e i suoi compagni soccombono in un violento conflitto a fuoco con un commando di governativi.
Che l’America immaginaria di Scerbanenco/Sheer non sia un paese per buoni lo dimostra in maniera quasi paradigmatica il racconto Brandson diventa onesto <60, probabilmente uno dei migliori dei sette e così vicino alla produzione dello Scerbanenco maggiore di ‘Milano calibro 9’ e de Il Centodelitti da sembrare una specie di mini enciclopedia di anticipazioni di temi e forme di quella fortunata stagione degli anni ’60 […]
[NOTE]
52 Se le già ricordate circostanze nelle quali Scerbanenco venne assunto da Rizzoli a se-guito dell’interessamento di Zavattini possono di per sé sembrare alquanto romanzesche, quelle delle sue dimissioni – a soli tre anni dall’inizio del rapporto di lavoro – hanno qualcosa che le colloca in una terra di nessuno a metà tra la deformazione epica e lo sberleffo picaresco: montatosi la testa per il rapido passaggio dalla miseria più nera a una condizione di agiatezza mai sperimentata prima, Scerbanenco pare si fosse comprato un macchinone americano vistosissimo con tanto di autista che lo accompagnava alla sede della Rizzoli in piazza Erba togliendosi il cappello della divisa dopo averlo scodellato a destinazione. Quando una volta il “Commendatore” Angelo assistette a questa scenetta, ne rimase allibito e non risparmiò commenti acidi allo scrittore. Il quale, per mera ripicca, non si limitò a vendere la macchina e a licenziare in tronco lo chauffeur, ma arrivò addirittura a passare alla concorrenza Mondadori come estremo sberleffo per lo sgarbo subito. Il gustoso episodio, che evidentemente era diventato un qualcosa tra una storiella e un mito orale nelle stanze della Rizzoli, è stato raccontato dal “solito” Oreste Del Buono in più di un’occasione (cfr. Del Buono O., Scerbanenco. Una vita in rosa e in noir, “Tuttolibri”, XVII, 793, 14 marzo 1992, p. 5; Introduzione, in Scerbanenco G., Il falcone maltese e altri racconti inediti, Frassinelli, Milano, 1993, pag. VIII; ma anche Vergani L., Così Che-cov arrivò sui Navigli, “Corriere della Sera”, 8 novembre 1993, p. 29).
53 Quando, il 22 agosto del 1936, appare su “Il Secolo Illustrato” Tiro all’uomo, ovvero il primo dei sette racconti hard-boiled a firma di Denny Sher/Sheer, Scerbanenco ha già letteralmente invaso le pagine dei periodici Rizzoli: in due anni vi ha infatti pubblicato un romanzo (Gli Uomini in Grigio), 35 racconti (3 su “Piccola”, 5 su “Cinema Illustrazione”, 10 su “Novella”, 13 su “Lei”, 3 sul “Novellino” e 1 su “Novella-Film”), e la bellezza di 104 articoli di varia natura culturale (di cui 3 su “Perseo”, 61 su “Piccola”, 4 su “Cinema Illustrazione”, 30 su “Lei” e 4 su “Il Secolo Illustrato”).
54 Non è escluso che l’iniziativa possa essere nata come tentativo di contrastare il grande successo della rivista “Il Cerchio Verde”: uscita nel biennio 1935-37, era un rotocalco molto popolare che ospitava novelle e romanzi a puntate polizieschi di autori anglosassoni accanto a scritti dei più noti giallisti italiani dell’epoca, ma anche resoconti di celebri processi, articoli di cronaca giudiziaria e addirittura quiz destinati a suscitare la curiosità del lettore mettendone a prova il talento investigativo (cfr. Padovani Gisella e Verderame Rita, L’almanacco del delitto. I racconti polizieschi del “Cerchio Verde”, Sellerio, Palermo, 1990). Si veda comunque il Capitolo 5, nota 44.
55 Alcune di queste testate (“Black Mask”, “The Gangster Stories”, “Detective Tales”, “Detective Story Magazine” e via dicendo) erano incentrate in maniera quasi esclusiva sulla narrativa di stampo poliziesco con le caratteristiche formali e contenutistiche prima menzionate di ritratti più veri del vero di una realtà così omogeneamente violenta da ridurre le forze dell’ordine allo stesso livello della criminalità cui viene data la caccia. Per un’informazione completa su questa variegate galassia editoriale che ospitò moltissimi generi letterari oltre a quello del poliziesco violento e iperrealistico poi divenuto la cifra tipica dell’hard-boiled, si vedano Gunnison J. – Locke J., Adventure House Guide to the Pulps, Adventure House, Silver Spring 2000; Parfrey A. (a cura di), It’s a Man’s World: Men’s Adventure Magazines. The Postwar Pulps, Feral House, Port Townsend 2003; Locke J. (a cura di), Pulp Fictioneers – Adventures in the Storytelling Business, Adventure House, Silver Spring 2004; Robinson F. – Davidson L., Pulp Culture, Collector’s Press, Portland 2007.
56 Come di recente dimostrato in maniera indubitabile da Roberto Pirani (cfr. Pirani R., Il primo Scerbanenco (1932-1943), in Pirani R. (a cura di), Scerbanenco. Riflessioni scoperte proposte per un centenario. 1911/2011, op. cit. pp. 28-29 e Idem, Tre tempi in noir, Postfazione a Scerbanenco G., Nebbia sul Naviglio e altri racconti gialli e neri, Sellerio, Palermo 2011, pp. 197-201).
57 Nei sette anni compresi tra il 1931 e il 1936 arrivano in Italia alcuni gangester movie di fondamentale importanza per la definizione stessa del sottogenere cinematografico e dei suoi caratteri tipici assolutamente contigui a quanto partorito dalla letteratura hard-boiled e da tutta la congerie di autori attivi intorno alle riviste pulp. Si tratta di titoli – solo per citare alcuni dei più noti – quali Public Enemy di William Wellman e Little Caesar di Mervyn LeRoy del ’31, Scarface di Howard Hawks del ’32, G-Men di William Keighley del ’35 e Bullets or Bullots dello stesso Keighley l’anno successivo.
58 Cfr. Denny Sheer, Tiro all’uomo, “Il Secolo Illustrato”, XXV, 34, 22 agosto 1936, p. 2.
59 Cfr. Denny Sher, La mamma di Burton, “Il Secolo Illustrato”, XXVI, 13, 27 marzo 1937, p. 2
60 Cfr. Denny Sher, Brandson diventa onesto, “Il Secolo Illustrato”, XXV, 45, 7 novembre 1936, p. 2.
Guido Reverdito, Giorgio Scerbanenco e il cuore nero del giallo di casa nostra. Viaggio al termine dell’ossessione di una vita, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2013