Insomma, i partigiani creavano timore

Il “Turco” arriva alla fine di giugno nella zona dei Fiorentini e di Folgaria. “L’aggancio con il Cln avvenne in modo rapido ed inaspettato. Grazie all’opera di Lino Cappelletti, allora guardaboschi di Folgaria, e già cellula comunista. Questi, avendo notato la presenza sospetta di 1214 individui, avvisò il Rella… dopo due giorni di ricerche, tre uomini dell’altipiano presero contatto con il distaccamento, innescando un processo che si rivelerà fondamentale non solo per la zona di Folgaria, ma anche per i pochi antifascisti rimasti a piede libero dopo i fatti del 28 giugno 1944”. <85
Nell’ottobre del 1944 si costituiscono due distaccamenti autonomi, il “Panarotta” e il “Pasubio”. Il “Panarotta”, che, comandato da Libardi Bruno, raggiunse le dimensioni di battaglione, era costituito da persone nate a Folgaria, Roncegno e Levico. Dalla relazione redatta nel dopoguerra dal “Panarotta”: “il gruppo autonomo di Levico, trasformatosi nel Btg. Panarotta, alle dipendenze dirette della Brig. Pasubiana Div. A. Garemi, si trovava dislocato nel territorio del comune di Levico, ed ha svolto la sua attività combattiva nel territorio dello stesso comune e dei comuni viciniori (Pergine, Borgo, Caldonazzo).” <86
Con il “Pasubio” invece le “Garemi” si spinsero fino a Bolzano, nella Val Sarentina. Secondo Giuseppe Costa “Ivan” lo spostamento di una dozzina di uomini delle “Garemi” a Bolzano, nell’ottobre-novembre del 1944, veniva deciso solamente per snellire le altre formazioni in vista dell’inverno. Il “Pasubio” era comandato da Gaetano Rappo “Ruggero”. Ancora tre battaglioni operanti in Trentino e inquadrati nella “Pasubiana” furono il “Cirillo Bressan”, il “Cesare Battisti” e il “Trentino”; quest’ultimo vedeva la presenza di Lamberto Ravagni, “Libero”, e di molti partigiani folgaretani.
É questo un quadro generale della presenza delle “Garemi” nell’Alpenvorland. Su tale argomento credo si potrebbero compiere ulteriori studi in grado di delineare meglio l’apporto delle formazioni garibaldine nella Resistenza del Trentino-Alto Adige.
La “memoria divisa”
Per questi motivi si può parlare del Trentino-Alto Adige come regione dall’identità divisa, per i contrasti che nacquero tra la popolazione italiana e quella tedesca, ma anche per i forti dissidi che su questo territorio si ebbero tra due regimi apparentemente alleati, quello nazista e quello fascista.
Ancora qualche giudizio su quegli anni.
A conferma delle difficoltà che la Resistenza incontrò in Trentino-Alto Adige c’è la testimonianza di Andrea Mascagni, partigiano: “La Resistenza nella nostra regione è rimasta circoscritta alla presenza di minoranze combattive e tenaci, votate inevitabilmente al sacrificio, precluse di fatto dalla possibilità di dare vita ad un movimento di massa. L’episodica è vasta e ricca di aspetti interessanti e significativi, ma è pur sempre una episodica minuta, articolata a livello di persone e di piccoli gruppi che cospirano, stabiliscono contatti in ambiti territoriali e nei luoghi di lavoro, effettuano azioni di collegamento e di aiuto nei confronti di iniziative più organiche, agiscono anche direttamente, quando le circostanze lo permettono, con azioni di disturbo, di piccolo sabotaggio, o più spesso si preparano per il momento atteso.” <87
Solamente avendo chiari questi sviluppi storici si può in un certo senso capire come mai ci trovi di fronte a giudizi negativi sulla lotta compiuta dai partigiani.
Il Trentino A. A. non ebbe un movimento partigiano paragonabile a quello delle altre regioni. La Resistenza fu spesso qui “importata” da altre città, proprio come fecero molti partigiani delle “Garemi” o delle “Nannetti”.
Un altro fattore può però essere utile a spiegare alcuni giudizi critici nati nei confronti dei partigiani e anche sull’episodio di Malga Zonta, che a me interessa più nel particolare.
Mi riferisco al concetto della “memoria divisa”.
Si parla cioè di un “fenomeno” che accade nei rapporti tra popolazione e, in questo caso, partigiani, che si verifica soprattutto in occasioni di grandi sofferenze che i civili hanno dovuto patire durante la guerra.
Giovanni Contini ad esempio parla della strage di Civitella della Chiana (Arezzo) del 29 giugno 1944, in cui i tedeschi uccisero 115 persone. Nel pensiero della gente però erano i partigiani ad essere almeno in parte colpevoli, perché il 18 giugno avevano ucciso tre tedeschi.
Tale questione si ritrova anche nel caso dell’eccidio di Pedescala (frazione del comune di Valdastico, sulla strada che da Schio prosegue fino al Trentino), in “risposta” all’attacco subito dai soldati tedeschi da parte dei partigiani.
Quando nel 1983 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini consegnò al comune di Valdastico (di cui appunto Pedescala è una frazione) la medaglia d’argento, la popolazione la rifiutò e si espresse così a riguardo dei partigiani: “Spararono poi sparirono sui monti, dopo averci aizzato contro la rabbia dei tedeschi, ci lasciarono inermi a subire le conseguenze della loro sconsiderata azione. Per tre giorni non si mossero, guardando le case e le persone bruciare. Con quale coraggio oggi proclamano di aver difeso i nostri cari. <88 Qui, a Pedescala, le persone dicono: ‘Se i partigiani non avessero attaccato i tedeschi, non sarebbe successo’ “. <89
Anche a Malga Zonta, pur non essendoci stata una strage di civili (i malghesi uccisi furono tre), ma più in generale nel territorio di Folgaria ho ritrovato questo sentimento tra alcune persone. <90
Quindi non solo in presenza di stragi civili, ma anche nel giudicare i partigiani nel suo complesso, la popolazione vede i soldati tedeschi come “esecutori crudeli di una regola di guerra, la rappresaglia; i partigiani come degli irresponsabili estremisti.” <91
Per quanto riguarda il rapporto della popolazione con la violenza, secondo questo sentire, le azioni dei tedeschi rientrano nelle “logiche di guerra”, perché compiute da uomini che sono inquadrati in un esercito regolare, nazionale. Le azioni dei partigiani sembrano essere invece il frutto di scelte soggettive, dettate dal caso o dall’impeto, talvolta ritenute non necessarie.
Infine si perdono di vista, secondo me, i rapporti di causa-effetto: si risale al motivo ultimo della violenza tedesca, scatenata dalla presenza dei partigiani, ma non si indaga da chi effettivamente sia compiuta la violenza.
Santo Peli afferma: “quando la tragedia colpisce direttamente e con ferocia, non vi è, da parte delle vittime, né la volontà né la concreta possibilità di ripercorrere le catene delle concause, risalendo ai motori primi del dilagare della violenza in atto…” <92
Per quanto riguarda invece il rapporto tra partigiani e popolazione civile, è necessario secondo me tenere sempre presente le specificità del territorio in cui i partigiani operavano. È indubbio che nelle piccole comunità locali la presenza partigiana potesse avere molta più influenza nella mente delle persone rispetto a quanta non ne avesse, ad esempio, il movimento partigiano in grandi città: “Nelle vallate e nelle comunità montane la ripresa del dibattito, la possibilità e la necessità di una scelta connesse alla resistenza, sono anche accompagnate dall’approfondirsi del solco che oppone chi si fa partigiano mettendo a rischio, con le proprie azioni, la vita e i beni dei locali, e chi invece segue una strategia della sopravvivenza, del minor rischio possibile. <”93
Insomma, i partigiani creavano timore, perché introducevano in un “sistema equilibrato”, quale poteva essere quello di un piccolo paese, regolato da ritmi e consuetudini affermate, degli elementi di squilibrio rappresentati dalle armi, dalla richiesta di cibo e vestiti, dagli spari, dal fatto stesso di essere “forestieri”, che con la loro presenza finiranno inevitabilmente per attirare in quel luogo anche l’attenzione dei tedeschi.
E questo è proprio ciò che ho ritrovato anche nelle parole di Bruno Plotegher <94, quando mi diceva che a Folgaria, se non ci fossero stati i partigiani, non si sarebbe potuto dire di essere in guerra. Perché fu l’eccidio di Malga Zonta ad interrompere la regolarità del suo lavoro di raccolta del latte presso le malghe.
[NOTE]
85 Antonio Guerzoni, op. cit.,pag. 162
86 Ezio Maria Simini, op. cit., pag. 114
87 Cit. in Vincenzo Calì, Antifascismo e Resistenza nel Trentino, Trento, 1978, pag. 127
88 Il Giornale, 29 aprile 1983
89 Testimonianza di Giovanna Dal Pozzo in Roberto Plebani, Schio. La guerra, il fascismo, il dopoguerra ed altro , 2004, pag. 127
90 Durante alcune interviste mi veniva detto che senza la presenza partigiana non si sarebbe neppure potuto dire che si era in guerra, oppure che chi si aggregava ai partigiani lo faceva per opportunismo. Esemplificativo può essere anche il fatto che Bruno Fabrello, scampato all’eccidio, dava ai partigiani la colpa della sua deportazione in Germania.
91 Gabriella Gribaudi, Guerra, violenza, responsabilità. Alcuni volumi sui massacri nazisti in Italia, in “Quaderni storici”, numero 100, 1999, pag. 136
92 Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2004, pag. 238
93 Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica , Giulio Einaudi Editore, Torino, 2004, pag. 242
94 Si veda l’intervista riportata in appendice
Francesco Corniani, Un marinaio in montagna. Storia di Bruno Viola e dell’eccidio di Malga Zonta, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno accademico 2009-2010