La principale intuizione della Nuova Destra francese fu comprendere come la vicenda politica generale si spostava sul piano europeo

Fu proprio a partire dalla sconfitta elettorale alle elezioni francesi del 1962 che alcuni intellettuali parigini che avevano avuto costanti frequentazioni con le organizzazioni clandestine della destra radicale cominciarono una riflessione sulle strategie politiche della “Nuova destra”. In maniera ancora confusa, si comprendeva la necessità di cercare un nuovo pensiero per affrontare le nuove sfide della modernizzazione globale, dal momento che appariva inequivocabile che le vecchie convinzioni conservatrici, l’esasperato nazionalismo, l’impotente nostalgia per le passate glorie, non solo non producevano alcuna autonoma azione politica, ma condannavano gli esponenti della destra ad una realtà clandestina ad uso e consumo dello scontro USA-URSS. Nacquero in quel periodo nuove associazioni prevalentemente a carattere culturale che elaboreranno spunti teorici, fondamentali per comprendere il rapporto tra la Lega e il Fronte Nazionale di Le Pen. In particolare diventò fondamentale in questo quadro la riflessione di Alain de Benoist <38.
Dopo un breve periodo di latitanza in Italia per la sua vicinanza all’OAS dove ebbe modo di incontrare Pino Rauti e altri dirigenti dell’organizzazione di estrema destra Ordine Nuovo, de Benoist tornò in Francia e iniziò una doppia sessione di studi universitari (in Lettere e in Diritto) presso la Sorbona. Fu in questo periodo che sottopose a profonda analisi critica il nazionalismo tradizionale tipico della destra francese: “Il nazionalismo giacobino che pone al suo centro lo Stato-nazione va superato perché incapace di tener conto dei veri confini, quelli di sangue, gli unici capaci di legare saldamente l’uomo alla sua terra natia… Quella giacobina perciò è solo una patria fittizia artificiale e geograficamente arbitraria <39.” Al vecchio nazionalismo, quindi, contrappose un vero nazionalismo basato sul radicamento e sulle “patrie carnali”.
Si comprende come partendo da queste premesse culturali il pensiero di Alain de Benoist e in generale di tutti gli altri esponenti della nuova destra francese tenderà sempre più a radicalizzarsi, quanto più i processi d’integrazione europea accentueranno i limiti della vecchia sovranità nazionale e quanto più le ondate migratorie seguenti alla decolonizzazione modificheranno l’originaria stratificazione sociale francese.
Così nel 1972 de Benoist scriveva in “Riflessioni sul radicamento” che diventerà una specie di vangelo per i primi dirigenti della Lega italiana: “La patria è il territorio di un popolo e la terra dei padri… La regione è concretamente ciò che la nazione non sempre è…. il quadro naturale dove si riconoscono coloro che si somigliano veramente. L’etnismo è la rinascita delle patrie carnali. E la patria carnale è la regione che costituisce la struttura e la dimensione più propizia al radicamento… La ricchezza dell’Europa è la personalizzazione delle regioni all’interno della cultura e della civiltà da cui sono nate <40”.
La principale intuizione della Nuova Destra francese fu comprendere come la vicenda politica generale si spostava sul piano europeo e che solo su questo terreno la destra avrebbe potuto riguadagnare autonomia politica e incidere sugli orientamenti futuri.
La destra e l’Europa.
L’Europa stava diventando in quegli anni la risposta più concreta ai processi di ricostruzione e di rinascita economica del vecchio continente. Dopo che nell’immediato dopoguerra gli Stati Uniti attraverso il Piano Marshall avevano indicato modi e condizioni della nascita della nuova Europa, furono proprio i principali leader politici francesi a proporre una serie di organismi d’integrazione economica per contrastare l’egemonia anglo-americana.
Fu in particolare Jean Monet che spinse gli altri paesi dell’Europa occidentale ad estendere i compiti della CECA (l’unica comunità sovranazionale allora esistente e che coordinava la produzione del carbone e dell’acciaio) anche ad altri settori come i trasporti e l’energia. Nel 1955 nella Conferenza di Messina fu unanimemente deciso di istituire due nuovi organismi sovranazionali per coordinare le iniziative europee: uno avrebbe dovuto gestire l’integrazione nel settore dell’energia nucleare (l’EURATOM), l’altro l’integrazione economica (la CEE). Nel 1957 con il Trattato di Roma firmato da sei paesi dell’Europa Occidentale (tra cui Francia, Italia e Germania dell’Ovest) si stabiliva l’eliminazione dei dazi doganali, l’introduzione di politiche comuni nel settore dell’agricoltura e dei trasporti, la creazione di un Fondo sociale europeo e l’istituzione della Banca Europea degli Investimenti.
L’ingresso nel 1958 sulla scena europea del generale de Gaulle conferì un’ulteriore accelerazione alle politiche d’integrazione. Il generale era convinto che l’integrazione tra i vari paesi europei fosse necessaria ma a condizione che in questo processo gli Stati nazionali avessero assunto più peso e responsabilità, dichiarava infatti: “non ci può essere altra Europa che quella degli Stati, tutto il resto è mito, discorsi, sovrastrutture <41”. Spinse perciò per un’accelerazione dei vari passaggi previsti nel Trattato di Roma in particolare per l’attuazione di quelli che prevedevano una maggiore integrazione delle politiche agricole nella convinzione che la Francia ne sarebbe stata la maggior beneficiaria.
La principale preoccupazione gollista era che delegare alle istituzioni comunitarie la sovranità nelle scelte economiche avrebbe alla lunga comportato lo svuotamento delle sedi della decisione politica e la stessa funzione dello Stato- Nazione. Infatti, se da una parte de Gaulle sperava che avanzando il processo d’integrazione l’Europa si sarebbe potuta porre come terza forza nello scontro tra USA e URSS ed attirare sotto la sua egemonia una serie di nazioni che reclamavano, specie nel Terzo mondo, il diritto alla propria indipendenza, dall’altra non era assolutamente disposto a consentire che gli organi burocratici, che accompagnavano il processo d’integrazione, sottraessero agli Stati margini di decisione.
Ben presto questa preoccupazione diventò un tema permanente nel dibattito francese tanto più quando gli interessi degli agricoltori francesi rischiarono di essere messi in pericolo dalle autonome decisioni della Commissione competente, istituita con il Trattato di Roma. Ed è proprio dentro questo terreno di confronto che s’inserisce la riflessione di Alain De Benoist <42 e di altri autorevoli intellettuali riuniti intorno ad importanti riviste. Per De Benoist il rischio che alla lunga si potesse affermare una struttura sovranazionale priva della necessaria legittimità e che nonostante ciò questa finisse con l’assumere decisioni essenziali per la vita dei cittadini, non si poteva più contrastare proponendo la vecchia idea centralista dello Stato. Occorreva rifiutare l’idea di Stato-nazione sviluppatosi nel XV secolo con la nascita delle monarchie nazionali, per riaffermare le antiche autonomie locali di matrice feudale; solo attraverso queste si sarebbe potuto rifondare il principio identitario (etnico) di appartenenza unico fondamento di legittimità accettabile. Al nazionalismo tradizionale andava quindi contrapposto un nazionalismo continentale europeo, unito all’idea d’impero che fosse capace di amalgamare le piccole comunità. Non quindi il micro nazionalismo, ma una specie di modello imperiale in grado di forgiare le numerose identità etno-nazionali presenti nel continente, accomunate dalla comune matrice indoeuropea. La forza galvanizzante che avrebbe dovuto legare le innumerevoli patrie locali sarebbe stato proprio il mito imperiale. Questo modello, inoltre, sarebbe stato auspicabile perché “mira a unificare a un livello superiore senza sopprimere le diversità delle culture, delle etnie e dei popoli… esso si fonda su un modello federativo basato sui principi di sussidiarietà e differenza <43”.
Resta inteso che l’Europa delle piccole patrie ipotizzata da Alain de Benoist e dai filosofi della Nuova Destra francese è l’esatto contrario del modello anglo-americano prevalente: “La civiltà occidentale (quella anglo americana) non è la civiltà europea. E’ il frutto mostruoso della cultura europea (da cui ha preso a prestito il dinamismo e lo spirito d’iniziativa ma alla quale si oppose radicalmente) e delle ideologie egualitarie” <44. La mentalità americana, aggiunge De Benoist: “È totalmente materialista, mercantilista e quantitativa; è scomparsa la tradizionale legittimità delle elite, ora concepita solo sull’utilitarismo commerciale… Nelle consultazioni elettorali i due partiti, Democratici e Repubblicani, rappresentano visioni diverse della stessa ideologia liberale che predomina nella società statunitense, e non sono altro che grossi comitati elettorali che gestiscono gli interessi di quello o di quell’altro candidato, dietro cui si muovono potenti lobby economiche che dettano i temi dell’agenda politica. E’ il trionfo della concezione mercantilista e utilitarista del “politico” nella società; il predominio dell’Economia sulla Politica, dell’Interesse sull’Ideologia, dell’Individuo sul Gruppo, della Società sulla Comunità” <45.
In definitiva il dominio e la dittatura della civiltà americana con l’idea di un governo mondiale o repubblica universale pacificata in nome del credo americano si equivale, se non sarebbe anche peggio, della prospettiva utopica marxista della società senza classi. Naturalmente gran parte delle ipotesi teoriche della Nuova Destra che a prima vista sembrano più ispirate da istinti visionari cominciarono a diventare concreti temi politici agli inizi degli anni ‘90.
La caduta del muro di Berlino e il rapidissimo crollo dell’intero sistema dominato dalla Russia comunista, ridefinì rapidamente le chiavi di lettura dell’evoluzione politica mondiale. Le stesse ragioni della Destra Conservatrice e nazionalista, che si fondavano proprio sulla necessità di costituire un solido baluardo all’estensione della egemonia marxista nell’Europa occidentale vennero immediatamente meno. La fine del comunismo sovietico rappresentava anche la fine dei soggetti politici che avevano fondato la propria identità unicamente sull’anticomunismo. Non solo. Ma la sostanziale vittoria del modello americano su tutto il pianeta rappresentava ora un rischio concretissimo e si accompagnava con l’idea, ampiamente espressa dai teorici americani, che la futura pax americana nel mondo sarebbe coincisa con la fine delle ideologie e con la fine della storia.
Restava solo un elemento che sembrava capace di contrastare la crescente affermazione del pensiero della Nuova Destra; la tenuta del modello economico occidentale basato sull’egemonia del dollaro e sulle risorse impiegate nello Stato Sociale.
[NOTE]
38 M. L. Andriola, La nuova destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist, Paginauno, 2014
39 Ibidem
40 Ibidem
41 Ibidem
42 A. de Benoist, Disfunzione di un sistema. La causa del popolo, in «Linea», 2004.
43 Ibidem
44 A. de Benoist “Una riserva di democrazia” in Le virtù del populismo in «Ideazione», 2000.
45 ibidem
Valentina Marini Agostini, La destra radicale nel dopoguerra: un confronto tra Francia e Italia, Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2015-2016