Le vicende resistenziali di Fenoglio si concludono quasi tutte con l’uccisione dei protagonisti

Situazioni assimilabili all’archetipo della “discesa agli inferi” si riscontrano anche nei testi resistenziali di Calvino, in particolare in alcuni racconti. Come in Attesa della morte in un albergo, <303 che vede i protagonisti reclusi nell’angusta cella del carcere ricavato da una vecchia fortezza, da cui: “Ogni giorno un certo numero di loro veniva smistato; alla vita o alla morte”, <304 e dove un personaggio continua a muoversi come un animale in gabbia, smarrito, come se stesse cercando di “abituarsi a non esistere”, con un compagno che segue con sguardo ansioso quella sua “camminante agonia”, <305 parafrasi e anticipazione del Dead Man Walking, come verrà detto negli Stati Uniti il detenuto rinchiuso nel braccio della morte. L’assunto si fa poi ancora più esplicito nel racconto Uno dei tre è ancora vivo, <306 dove tre prigionieri tedeschi vengono gettati in una sorta di foiba che scende nel ventre della montagna, e uno di loro riesce a guadagnare un’insperata salvezza dopo aver percorso un interminabile e angusto budello sotterraneo. Preparata nel luogo dell’attesa, oscuro, sotterraneo e “infernale”, la fucilazione vera e propria avviene poi in luogo aperto, appunto il muro, spesso quello di un cimitero, che si pone come icastica rappresentazione del destino umano.
E tornando a Fenoglio possiamo ricordare la frequenza nonché la pregnanza reale e simbolica che esso acquista a cominciare proprio dal racconto Un altro muro, dove nel dialogo fra i condannati ricorre innumerevoli volte (“andare al muro”, “ci troveremo tutti e due al muro”, “parlare del muro”, “Ci porteranno a un muro qualunque e a un certo punto occheremo questo muro con la schiena” ecc) come metafora della morte. <307
Nutriti riferimenti a questo, inoltre, come ha ampiamente messo in luce nel suo già citato saggio Gabriele Pedullà, <308 si ritrovano anche in Una questione privata, nei cui riguardi è d’obbligo il riferimento al muro inserito come ultima immagine e penultima parola del libro, quando dopo la sua folle corsa inseguito dai soldati repubblicani Milton si infila in un bosco e: “Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò”. <309 Sappiamo come questo celebre passo abbia dato vita a diverse ipotesi interpretative, complicate ovviamente dal fatto che il romanzo è postumo, e quanto incompiuto non è dato sapere. Che si voglia o meno ravvisarvi la morte di Milton, resta vero comunque che le vicende resistenziali di Fenoglio si concludono quasi tutte con l’uccisione dei protagonisti, dai racconti dei Ventitré giorni al Partigiano Johnny, a L’imboscata, ivi compresa quella di Johnny in Primavera di bellezza. <310
La morte tende a presentarsi come evento incidentale, che spesso irrompe nella pagina in modo improvviso e inatteso. Non le vengono attribuite connotazioni psicologiche, motivazioni ideologiche o consolatorie. Non le viene tributata alcuna sacralizzazione, ma appare in una dimensione di assoluta fisicità, come frutto di una violenza ineliminabile e inspiegabile, che travalica ed elude qualunque ipotesi di giustificazione. Acutamente Jacomuzzi parla in questo senso di “morte non moralizzata”. <311 Così è nei Ventitré giorni per i partigiani uccisi nel finale de L’andata, per il fascista fucilato in Il trucco, per Blister e per Lancia, e con lo stesso registro Fenoglio rappresenta di frequente la morte e i corpi morti nelle opere successive, a cominciare dal Partigiano Johnny. Ad esempio riguardo a un giovane soldato nemico: “Il ragazzo danzava a trenta metri, accecato dal suo stesso coraggio: magro ed elastico, inebriato del suo coraggio, della sua astuzia bellica e della natura boschiva. Johnny gli sparò senza affanno, senza ferocia, e il ragazzo cadde lentamente, così come Johnny lentamente si aderse sui gomiti, nell’ascensionale sospensione davanti al suo primo morto”. <312
Oppure di un altrettanto giovane partigiano, il cui corpo ostruisce la strada: “Johnny sedette a fianco di esso, sull’erba rigida, innaffiata di sangue. La sua faccia era glabra e serena, i suoi capelli ben ravviati ad onta dello scossone della raffica e del tonfo a terra. Il sangue spicciato dai molti buchi nel petto aveva appena spruzzato l’orlo della sua sciarpa di seta azzurra, portata al collo alla cowboy, e che era l’unico capo di una certa quale e shocking lussurità, in quella generale povertà di un partigiano apprestantesi all’inverno”. <313
Siamo ancora una volta alla massima distanza possibile da L’Agnese va a morire della Viganò, dove la morte della protagonista, annunciata già nel titolo, trova compimento nelle ultime righe del romanzo: “L’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve”. <314 Un’immagine in sé scarna, che però in forza di tutto lo sviluppo precedente si carica di una chiara valenza morale e ideologica, che rientra in pieno nel modello vigente, quello di una connotazione persuasiva e commovente, tesa a suscitare l’adesione emotiva del lettore e a configurargli un’immagine di eroico sacrificio, di esemplare martirio individuale come contributo alla collettiva e gloriosa vittoria finale. Se vogliamo invece riferirci a Calvino, il dato più saliente è una sorta di elusione e di silenzio riguardo alla morte, che nei suoi testi di argomento partigiano di norma non viene mostrata e che se mai colpisce quasi solo fascisti e tedeschi. Sappiamo come questa ritrosia diventi ancora più evidente nelle opere successive, nelle quali i protagonisti non muoiono, ma se mai scompaiono, come nel finale del Barone rampante accade a Cosimo di Rondò, che in tarda età, eludendo la categoria stessa del morire, viene raccolto dalla cima di uno dei suoi alberi e portato via da una mongolfiera, a ribadire l’impianto fiabesco già annunciato nelle opere resistenziali e pienamente estrinsecato nella trilogia I nostri antenati, come anche in seguito.
Nella sua assoluta e tutta fisica evidenza, non giustificata da ragioni di ordine superiore, priva di sacralità e di gloria, nelle pagine di Fenoglio la morte irrompe invece con violenza e lascia sgomento e attonito sia il lettore che, quando è presente, l’osservatore interno alla storia, che coglie implicitamente l’essenza della sua assurdità. Viene così di nuovo da pensare a una lezione attinta dal pensiero esistenzialista, senza però che con questo Fenoglio ricorra alle connotazioni nichiliste presenti nelle pagine di Sartre e di Camus. La morte può essere altresì stupida e futile, frutto di negligenza e faciloneria, come accade nel racconto eponimo dei Ventitré giorni ai quattro partigiani che stanchi di fare la guardia si sono messi a giocare a poker in un casotto da pesca e, sorpresi dai nemici, vengono uccisi con le carte in mano. <315
Così, mossa da “gratuita crudeltà” e “mortale dilettantismo”, può colpire il partigiano Paul, che nel Partigiano Johnny si spara accidentalmente con la pistola che porta in tasca mentre si trova sulla sedia del barbiere. <316 Eppure, nel contempo, la morte risponde a un principio di assoluta necessità, poiché come ricorda Johnny a un compagno: “senza i morti, i loro ed i nostri, nulla avrebbe senso”. <317
La morte dunque, per quanto assurda o futile, è il prezzo da pagare che al partigiano, quasi per sua stessa natura, viene richiesto. La sua esistenza precaria, la sua identità di morituro, lasciano intravedere la condizione stessa dell’uomo, di ogni individuo, ma la morte violenta e prematura appare destino ineludibile per lui, quasi una sorta di estrema e suprema forma di coerenza. Al partigiano sembra non offrirsi altro modo di condurre fino in fondo l’esperienza della guerra, e lo conferma la sorte di disadattato che Fenoglio consegna al sopravvissuto, come si è visto in La paga del sabato da cui è tratto il racconto Ettore va al lavoro. Niente più che un dolente limbo, poiché dopo essere scampato all’inferno, nessun paradiso, fosse anche solo quello della normalità, sarà mai raggiungibile.
[NOTE]
303 in I. Calvino, Ultimo viene il corvo, op cit
304 ivi pag 100
305 ivi pag 102
306 ivi pp 151-59
307 B. Fenoglio, RR, op cit, pp 69-86 A questo proposito si veda anche il saggio di M. G. Di Paolo, Beppe Fenoglio fra tema e simbolo, Longo, Ravenna, 1988, in particolare Il “muro” e la morte, pp 57-73).
308 G. Pedullà, La strada più lunga. Sulle tracce di Beppe Fenoglio, op cit pp 131-150 309 B. Fenoglio, RR, op cit pag 1141
310 B. Fenoglio, Primavera di bellezza, Einaudi Torino, 1959, nell’edizione Isella pp 291-421
311 A. Jacomuzzi, Alcune tesi sullo scrittore Fenoglio, op cit pag 74
312 B. Fenoglio, RR, op cit pag 513
313 ivi pag 780
314 R. Viganò, L’Agnese va a morire, op cit pag 239
315 B. Fenoglio, RR op cit pag 15
316 ivi pag 719
317 ivi pag 537
Alessandro Tamburini, L’uomo al muro. La visione della guerra nei “Ventitré giorni della città di Alba” di Beppe Fenoglio, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, 2014