Il mucchio selvaggio: il west è finito per sempre

Fonte: Sentieri Selvaggi cit. infra

Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, forse l’ultimo e “definitivo” western della storia del cinema, compie mezzo secolo. Due volumi recentemente pubblicati celebrano sia il regista (1925-1984) con una corposa biografia di David Weddle Se si muovono, falli secchi per i tipi di Minimum Fax, che il suo capolavoro Il mucchio selvaggio, con un volume di oltre quattrocento pagine di William Kip Stratton pubblicato da Jimenez Edizioni.
La vicenda, ormai cronologicamente fuori dell’epopea del western “classico”, è infatti ambientata nei primi anni del Novecento al tempo della rivoluzione messicana di Pancho Villa, e racconta le avventure di una banda di gringos americani, comandati da un ormai maturo ex ufficiale – Pyke Bishop – sullo schermo William Holden – che, dopo una feroce rapina finita male, inseguiti dai cacciatori di taglie, sono costretti a sconfinare in Messico per organizzare un traffico di armi scendendo a patti con i sanguinari quanto infidi controrivoluzionari lealisti.
Seguendo la poetica del western maturo degli anni Sessanta e Settanta, che ha ormai definitivamente perduto l’innocenza, nel dipanarsi del racconto il confine tra i “buoni” e i “cattivi” si fa sempre più labile ed incerto. Resta solo un oscuro codice d’onore, basato sul mito dell’amicizia maschile, e che mantiene un labile confine tra coloro che, seppur dannati, hanno mantenuto a stento un barlume di umanità, e gli irrecuperabili, cieche belve affamate di cibo, sesso e denaro.
Dopo lungo peregrinare i nostri eroi giungono al villaggio di Agua Verde, presidiato dai lealisti del General Mopuche, dove Angel, il messicano, ritrova dopo tanto tempo, la sua fidanzata, Teresa, costretta a diventare ora una “mantenuta”.
L’uomo, così come raccontano le immagini del film, non crede ai suoi occhi. Quella donna dai capelli corvini e dalle labbra vermiglie, la “sua donna”, la più bella del villaggio, è al braccio del generale messicano, ostentando un sorriso manierato, ma la risata sfrontata sul volto di lei si incrina nel tono increspato della voce.
“Yo soy feliz!”
Le parole dichiarano felicità ma il loro suono evoca dolore e rimpianto.
(“Che tu sia maledetto, ti ho aspettato tanto, ma tu non c’eri!”).
“Putaaa!!!”
L’uomo spara: il colpo di pistola esplode come tuono ed una macchia rossa sul petto spezza la vita della giovane donna, il cui “tradimento” è quello di aver troppo sofferto e troppo amato.
Sam Peckinpah era un anarchico-individualista. La violenza, spesso cruda ed iperrealista, ma quasi mai gratuita, è la protagonista di tutti i suoi film. Una violenza nella quale la pietà per gli umili ed i vinti è pari alla pietà per gli stessi vincitori – illusori e momentanei – perché la sconfitta finale – la morte – non risparmierà nessuno.
Uomini senza donne: fuggiaschi, vedovi, abbandonati, traditori di donne ma soprattutto di sé stessi. La donna è un’immagine lontana ed ormai inarrivabile, ricreata nella memoria in una dimensione remota e quasi onirica, rincorsa attraverso i flash-back del racconto.
All’alba le giovani messicane costrette a fare le prostitute allattano i figli mendicando e strappando ai gringos gli ultimi spiccioli. Gli uomini indossano i cinturoni e, perfettamente consapevoli, seguendo un assurdo codice d’onore, vanno allo scontro suicida. Non è la retorica della “bella morte”, tutt’altro: non hanno più nulla da perdere, né mogli, né figli, né affetto né amore. Sono uomini soli, ed al mondo non c’è più posto per loro.
Il west è finito per sempre: recinti e steccati, strade ferrate, banche e compagnie ferroviarie, ma soprattutto banchieri, politici e azionisti ne decretano la fine. La comparsa improvvisa di un’automobile e di una mitragliatrice sigillano l’epilogo di un’epoca.
Da vero artista – forse senza rendersene conto – Peckinpah aveva colto e descritto mirabilmente la parabola dei suoi “eroi” che, perdendo il rapporto con l’immagine femminile, e di conseguenza con la realtà umana, soccombono al loro tragico destino.
Ne è presagio la scena della partenza dal villaggio, con la sfilata degli eroi a cavallo tra due ali di povera gente assiepata ai bordi della strada. Dalla folla si alza un canto sommesso – “La Golondrina”. A donde ira/ Veloz y fatigada /La golondrina/Que de aquí se va/ Por si en el viento /Se hallara extraviada /Buscando abrigo/Y no lo encontrara (Ma dove andrà/veloce e affaticata,/la rondine/che passa di qua?/E se nel vento/si troverà /smarrita/cercando riparo/e non lo troverà).
Le giovani donne regalano fiori, le anziane cibo e frutta per il viaggio; chi manda un bacio, chi un saluto.
Persino Pike ed il suo amico Dutch – il grande Ernest Borgnine, la roccia – sotto l’apparente impassibilità tradiscono un crollo ineluttabile: qualcuno gli vuole bene, e questo, oltre che imprevisto, è davvero insostenibile!
Roberto Biasco, “Il mucchio selvaggio”: gli uomini che negano le donne, Left. Un nuovo pensiero a sinistra, 29 dicembre 2019

[…] Fare un western per parlare di sé stessi e del rapporto con una America che deve fare i conti con la propria cattiva coscienza e con una violenza che diventa evento pervasivo culturale. Gli assassinii di Martin Luther King e di Bob Kennedy hanno sconvolto l’immaginario collettivo americano che ha già perso la sua innocenza dai tempi di Dallas. Quando nel 1969 esce Il mucchio selvaggio, Sam Peckinpah ha due idee precise nella mente: rappresentare la violenza in maniera realistica utilizzando tutti i mezzi della grammatica filmica e sovvertire le regole del genere trasformando gli eroi della Frontiera in un gruppo di “misfits” che nel 1913, varcando il confine tra gli Stati Uniti e il Messico, prendono atto del fallimento delle proprie esistenze. Già nel 1962 con L’uomo che uccise Liberty Valance, John Ford aveva dato un duro colpo alla leggenda del West, sottolineando la differenza tra la realtà dei fatti e la elaborazione millantatoria del mito. Peckinpah va ancora oltre e sconfina nell’iperrealismo e nel grottesco proprio per scioccare lo spettatore, facendo tabula rasa su tutti le convenzioni del genere. E’ facile identificare in Pike (William Holden) l’alter ego del regista, combattuto tra demonio e santità, inseguito dai falshback di un passato denso di sensi di colpa. E se la Patria è l’ultimo rifugio per un uomo senza più legami ed affetti, a Pike e al suo gruppo di “cattivi selvaggi” è negata anche questa possibilità.
Il mucchio selvaggio è fondamentalmente un “dirty-western” dove l’estetica polverosa del montaggio accompagna l’etica del perdente che si congeda dalla vita con un gesto finale da tardo eroe romantico. Il film è la summa di tutte le tematiche del regista americano: l’arroganza del potere, l’anarchia di “ribelli senza una causa” che si perdono tra alcol e prostitute, il tradimento dell’amicizia, la labilità di un rapporto amoroso, il rimpianto per un passato felice, i poveri prime vittime delle guerre, il mondo infantile e adolescente che ricopia le crudeltà e gli errori degli adulti. All’ordine geometrico di certo cinema classico americano, si contrappone il disordine e una confusione nei ruoli, con la impossibilità a separare il male dal bene.
La scena che apre il film è già un manifesto programmatico: da un lato Pike Bishop in uniforme da Cavalleria Americana che con il suo gruppo di “desperados” sta tentando il colpo alla banca di San Rafael nel Texas; dall’altro Deke Thornton (Robert Ryan) che nascosto su un tetto con altri cacciatori di taglie sta tendendo un agguato al suo ex amico. Il montaggio alterna le immagini dei due antagonisti con quelle allegoriche dei bambini che gettano due scorpioni in un formicaio e con la banda musicale che supporta la Lega anti-alcol. Peckinpah fa sul materiale western un lavoro di destrutturazione e riproposizione seriale (non lontano dalla pop art warholiana) che ha il suo zenit nella carnecifina finale: Il montaggio è frenetico (alcune scene durano 1/10 di secondo), numero spropositato di inquadrature (più di 3600 nel director’s cut), ralenti inseriti nei momenti topici, iperrealismo pulp. Donne calpestate dai cavalli, ponti che saltano in aria, treni che tornano indietro, bambini assassini, “gang-bang” dentro botti di vino (memorabile Warren Oates in una delle sue migliori interpretazioni), fiumi di alcol a obnubilare le coscienze, crudeltà e sadismo, sesso e potere legati da un nodo perverso (il generale Mapache e il suo stuolo di cortigiane). Tutto politicamente scorretto. Tutto volutamente sopra le righe. All’uscita del film schiere di critici condannarono la violenza e ne stigmatizzarono la pericolosità emulativa in un modo non dissimile da quello che accolse nei primi anni Novanta le opere di Quentin Tarantino. In realtà il ruolo di traghettatore di Sam Peckinpah verso i lidi della postmodernità ha fatto entrare Il mucchio selvaggio tra i film più importanti della intera storia del Cinema perché alla novità del linguaggio si accompagnava un preciso intento sovversivo sui contenuti e sulle regole.
Fabio Fulfaro, Il mucchio selvaggio, di Sam Peckinpah, Sentieri Selvaggi, 1 dicembre 2015

3643, questo è il numero delle inquadrature di quello che all’unanimità è considerato l’ultimo western classico o, in alternativa, il primo western moderno. La prima di esse: una atroce lotta di scorpioni aizzati da sadici (“perversi polimmorfi”) bambini. Dal 1969, anno del film, il genere, perduta l’aura del mito e della leggenda, precipita nella Storia, nella realtà, quella sporca, quella senza eroi, quella imbevuta di sangue e popolata di cadaveri. Già il grande John Ford, il suo massimo cantore assieme a Hawks e Anthony Mann, aveva vaticinato la rivoluzione/distruzione peckimpeana e nel 1962, con “L’uomo che ucciderà Liberty Valance”, realizzò l’ultimo capolavoro pienamente classico, intriso di tristezza, conscio di una prossima fine ma ancora fiero di stare dalla parte della leggenda (“Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”). Un personaggio dice : “Tutti sognano di tornare bambini, anche i peggiori fra noi. Forse i peggiori lo sognano di più.” Il genere ha perduto la propria fanciullezza ed è entrato direttamente nella triste vecchiaia. Peckinpah celebra un funerale, quello dei miti della frontiera conducendoci nel regno dei morti. I cadaveri non sono mai stati così tanti, la morte (e non la violenza!) non è mai stata così “coreograficamente” celebrata. L’uomo così com’è per la prima volta fa il suo ingresso nello stilizzato mondo dei saloon e degli speroni nudi.
Le conseguenze in questi 134 minuti di fuoco e di sangue. Peckinpah combina ralenti e immagini subliminali; rompe, o meglio, interrompe la continuità narrativa e del punto di vista (quest’ultimo varia in continuazione); elimina visivamente causa ed effetto e, soprattutto nella strepitosa scena conclusiva, la violenza giunge ad un grado di saturazione tale da rivelare il suo senso più profondo ed inquietante. Il pessimismo del regista é assoluto: la violenza è “le propre de l’homme” (e non “le rire”). Solo l’amicizia virile sembra parzialmente riscattare questi spettri di eroi mai esistiti uomini amorali. “L’atto politico che i protagonisti compiono nel campo messicano trova le sue ragioni nell’amicizia per il compagno barbaramente ucciso (magari alla luce di un passato che deve essere riscattato), non certo in un serio esame dei valori politici dell’atto stesso. […] I personaggi di Peckinpah sono una continua tensione verso la violenza, ogni loro movimento, per quanto normale, quotidiano, sereno, pacifico, riporta al formidabile potenziale di distruzione di cui essi sono capaci nei confronti degli altri.” (Franco La Polla). Di fronte all’annegamento dell’epopea nel lago di sangue della modernità, accettano, ultimo segno/sogno di cinema “sublimante”, di andare verso una morte (“why not?”) che è la loro, che è quella di un genere, che è quella di un mondo che non è mai esistito, di un cinema che lo rappresentava splendidamente. Poi, sarà solo elegia (Eastwood, Penn, Pollack…).
Manuel Billi, gli Spietati, 12 gennaio 1995

Il western finale, maledetto, rito funebre di un’epoca e del Mito (Sam Peckinpah ha dichiarato che era la sua risposta a I Professionisti di Richard Brooks), di un certo tipo di perdenti che, al di là della Legge, crede nell’Onore e nell’Amicizia. “È l’agonia dell’America” (Paul Schrader), un’allegoria, anche, della guerra del Vietnam. Finale nel finale: la pellicola resta immortale per la sua chiusura, cinque minuti, dodici giorni di riprese per 356 inquadrature, con profluvio di pallottole e apoteosi del ralenti, poi imitatissima in ogni dove. L’epica al suo zenit, montaggio di Lou Lombardo rivoluzionario (successione veloce, per la stessa scena, di riprese con differenti angolazioni e velocità). Ma tutta l’opera, barocca, nichilista e iperrealista, è volta alla messinscena dell’assurdità della violenza e delle motivazioni ad agire di ogni essere umano: nel racconto che Peckinpah trae da un soggetto di Walon Green e Roy Sickner (fondatore del sindacato delle controfigure di Hollywood), le numerose fazioni in campo creano un tutti-contro-tutti che ha dell’amaramente paradossale e la violenza, all’epoca inusitata, serve il credo che, per assaporarne la follia, vada presa in faccia (a questo serve il montaggio parallelo fra scene brutali ed esodo degli abitanti del villaggio, vittime innocenti). Autore (perché) ambiguo, Peckinpah prima ne mette in scena le componenti attrattive, poi ne mostra il deleterio spirito di autodistruzione nel segno, anche, del senso di colpa e della necessaria sconfitta del desueto. Circolarono più versioni, quella europea da 145’ e due per il mercato statunitense, da 143’ e 135’ (ridotta per permettere più proiezioni al cinema): nel 1995 è uscito un ‘director’s cut’ con 10’ aggiuntivi. Il “mucchio selvaggio” era il nome della banda di Butch Cassidy.
Niccolò Rangoni Machiavelli, gli Spietati, 14 aprile 1995

Il mucchio selvaggio: un western crepuscolare e malinconico
Fin dalle prime battute de Il mucchio selvaggio, è chiaro che non ci troviamo davanti a un’autocelebrazione di un glorioso genere, ma a un western crepuscolare e malinconico, in cui non esistono buoni o cattivi, ma solo esseri umani marci, corrotti e brutali, mossi esclusivamente dall’istinto di sopravvivenza e dalla voglia di rivalsa nei confronti del prossimo. Un mondo duro, selvaggio e immorale, che diventa quindi terreno fertile per un regista come Sam Peckinpah, libero di concentrarsi sui temi a lui più cari, come la violenza insita in ogni essere umano, la forte critica alle istituzioni e l’amicizia sincera e virile, che gioca un ruolo fondamentale soprattutto nelle battute conclusive della pellicola.
La violenza ne Il mucchio selvaggio non è mai né autocompiaciuta nè il fine ultimo della narrazione
La violenza ne Il mucchio selvaggio non è mai né autocompiaciuta nè il fine ultimo della narrazione, ma un modo estremo e a tratti disturbante per mettere in scena un vero e proprio trattato antropologico sulle miserie e le bassezze dell’umanità e del mondo che ci circonda. Un mondo in cui il potere è rappresentato da banditi, e in cui i banditi dimostrano ben più umanità di governanti e istituzioni. Un mondo in cui è legittimo e giustificabile il massacro di innocenti e di persone indifese in nome della caccia a un gruppo di malviventi. Un mondo in cui gli oppressi si macchiano di delitti e atrocità equiparabili a quelle degli oppressori.
In un contesto simile, sono inevitabilmente due scene di violenza ad aprire e a chiudere il film e a esplicitare la morale del regista. A sottolineare la perduta innocenza della società sono proprio coloro che solitamente vengono dipinti come il simbolo della purezza e dell’amore, ovvero i bambini, rappresentati durante la scena iniziale nell’atto sadico e perverso di gettare due scorpioni in un formicaio, in modo da assistere al macabro spettacolo che ne deriva.
A fare da ideale contraltare a questa sequenza sono invece gli adulti, protagonisti nel finale di uno dei massacri più celebri e cruenti mai visti al cinema: Peckinpah entra di prepotenza nella storia del cinema con uso pionieristico di un frenetico montaggio e di un esasperato ralenti, perfetti per mostrare tutto il lirismo della morte e della violenza. Una sequenza da antologia, che illustra il senso del cinema stesso meglio di centinaia di libri di testo.
Il mucchio selvaggio: un nostalgico e disilluso racconto esistenziale
Lungi dall’essere un inno alla violenza e alle barbarie, Il mucchio selvaggio si rivela invece un nostalgico e disilluso racconto esistenziale, che coniuga la volontà di passare a una narrazione più cruda e realistica, di cui faranno tesoro in tempi e modi diversi altri cineasti come Scorsese, De Palma, Eastwood e Tarantino, con uno sguardo amaro e malinconico al passato e ai suoi valori ormai irrimediabilmente perduti. Un film che travalica il concetto di western, per diventare al tempo stesso cinema d’azione, di denuncia e di introspezione, sorretto da una regia magistrale, dalle pregevoli musiche di Jerry Fielding e dalle memorabili interpretazioni di tutto il cast, in cui si distinguono particolarmente William Holden ed Ernest Borgnine.
Il mucchio selvaggio è un film imprescindibile e imperdibile, inesauribile fonte di ispirazione per intere generazione di cineasti. Una selvaggia e macabra danza che ci rapisce e ci osserva, guardandoci dentro e colpendoci duramente allo stomaco proprio quando meno ce lo aspettiamo.
Una pellicola solo in apparenza sadica e crudele, che utilizza il sangue, il piombo, il sibilo degli spari e la poetica messa in scena della morte per raccontarci una parte di noi difficile da accettare, ma con la quale è necessario convivere.
Marco Paiano, Il mucchio selvaggio: recensione del film di Sam Peckinpah, Cinematographe.it, 15 novembre 2016