Un giovane ebreo genovese, comandante partigiano nei Colli Romani

Cronaca di immediata concretezza è anche “Guerriglia nei castelli romani”, di Pino Levi Cavaglione. <17
Se Chiodi mantiene di proposito un registro stilistico volutamente scarno – povero di aggettivi, tutto paratattico e fitto di pause, accordato alla drammaticità dei fatti che racconta – Cavaglione scrive invece con un tono colloquiale fluido ma medio-alto, che non rifiuta l’aggettivazione o una sintassi più complessa quando è richiesta. L’italiano di Cavaglione è il registro linguistico di un cronista, che tenta di restituire al presente gli eventi nei loro dettagli e le riflessioni dell’io narrante su di essi con un ritmo che si accorda di volta in volta alla situazione da raccontare: il testo infatti si pone come semplice obiettivo la cronaca immediata della guerriglia sui colli romani.
Il racconto è un mosaico di episodi, decisioni, azioni. A funzionare da collante tra queste tessere è l’insopprimibile odio del protagonista che ha come unico scopo uccidere, sparare e colpire il nemico per vendicare i genitori, catturati perché ebrei: “Dove saranno ora papà e mamma? Stringo i denti con furore. Non voglio morire così, devo ancora vendicarli. Quanto ho compiuto finora non ha placato il mio odio”. <18
Nemmeno un accenno di pietà verso un nemico che non deve essere mai risparmiato. Cavaglione sa ben rendere la spietatezza della legge di guerriglia, che non prevede compassione, come in questa scena, diversa dalle tante perché capace di smuovere l’umanità del protagonista, sepolta ormai sotto mesi di sangue.
Pino e altri due compagni inseguono quattro tedeschi, responsabili di razzie e violenze ai danni di una famiglia contadina. Raggiuntili, stanno per finirli: “Faccio un passo avanti per finirlo con un colpo di rivoltella in testa. Wassily mi trattiene rudemente per la giacca. Penso che voglia essere lui a sparare e mi fermo. Ma lui non vuole sparare. Si avvicina al ferito con strana lentezza e vibra un terribile calcio su quella faccia stravolta dal dolore e dalla paura. Un brivido di orrore mi si irradia lungo la spina dorsale. È come se fossi stato io a ricevere nel viso quella scarpa ferrata […] Il rumore ritmico di colpi sordi, opachi, riempie l’alto stupore meridiano, insieme a gemiti e urli spezzati. […]. Devo essere pallidissimo e sono scosso da un fremito. Wassily mi guarda asciugandosi con la manica la fronte sudata. – Ho visto centinaia di miei compagni morire così, uccisi a calci o a frustate dai tedeschi nel campo di concentramento. Se tu fossi passato attraverso quell’inferno capiresti”. <19
Questo odio totale, viscerale, impulsivo verso un nemico da annientare lega uno all’altro gli episodi del diario. La comunità partigiana esiste perché creata non da affinità di scelta, di credo politico, di amicizia nata nella precarietà, ma per il comune odio. Tutto il racconto è intessuto di pura fisicità: raramente è concesso spazio a riflessioni e momenti di introspezione. Come specifica l’autore stesso nell’introduzione, l’unica certezza sono le armi, la violenza: “La crudeltà era ovunque attorno a noi in quegli anni; avvolgeva tutto e tutti. Nella catastrofe definitiva di una società senza leggi e senza avvenire, sola certezza apparivano i mitra, le bombe a mano, la rivoltella”. <20
È su quelle sicurezze che il diario si costruisce: nessuno spazio per l’ideologia, per momenti di solidarietà e confronto umano con i compagni. Il protagonista, seppur attorniato da molti giovani come lui, ingaggia con il nemico una sfida che è sempre un corpo a corpo. La comunità partigiana, che ben esiste, scompare in questa battaglia in cui nessuna pietà o comprensione verso l’altro è permessa. L’odio risolve tutti i dubbi che potrebbero turbare l’azione del narratore e mantiene il discorso su una dimensione di primitiva animalità, di lotta per la vita.
Ne scaturisce una Resistenza che non si interroga troppo su se stessa, sui suoi presupposti teorici e sul domani da costruire, ma persegue il primitivo scopo dell’annientamento del nemico. Il racconto è tutto focalizzato sull’io narrante, sul suo odio cieco che ha come solo scopo la vendetta personale e gli impedisce di cogliere e raccontare la collettività attorno a sé.
[NOTE]
17 PINO LEVI CAVAGLIONE, Guerriglia nei castelli romani, Torino, Einaudi, 1945, che cito dall’ed. Genova, Il Nuovo Melangolo, 2006.
18 Ivi, p. 158.
19 Ivi, pp. 155-156.
20 Ivi, p. 10.
Sara Lorenzetti, Narrativa e Resistenza: “invenzione” della letteratura e testimonianza della storia, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, Anno accademico 2014/2015

Giuseppe (Pino) Levi nasce a Genova nel 1911. Laureato in Legge, Pino Levi è un antifascista della prima ora. Nel 1937 viene inscritto nel casellario politico centrale del Ministero dell’Interno. Nello stesso anno raggiunge gli amici di “Giustizia e Libertà” (GL) a Parigi per arruolarsi nelle Brigate internazionali in Spagna ma il suo progetto fallisce per l’intervento del padre. Tornato in Italia, nel 1938 viene arrestato e mandato al confino come antifascista. Dopo l’8 settembre 1943 sfugge a Genova all’arresto e si reca a Roma dove è assegnato alle bande dei Castelli Romani; dopo 40 giorni il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) lo nomina comandante militare. Dopo la Liberazione diventa Alto Commissario di Genova per l’epurazione. Al termine della guerra fa aggiungere al cognome Levi anche quello della madre, Cavaglione, morta col marito ad Auschwitz. Nel 1946 sposa Margherita Garello con la quale ha due figli, Marco e Maura. Avvocato, rimane icritto al Partito Comunista Italiano (PCI) fino all’invasione dell’Ungheria. Il 27 febbraio 1971 si procura la morte per una questione di onore concernente la sua professione.
Redazione, Giuseppe Levi Cavaglione, Cdec

Mercoledì 5 dicembre 2012, ore 17,45
Casa della memoria e della storia
via San Francesco di Sales 5, Roma
Circolo Gianni Bosio, Irsifar e Anpi
presentano il libro
Il ponte sette luci
Biografia di Giuseppe Levi Cavaglione
di Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni
Edizioni Metauro 2012
Un caso fortuito ha permesso agli autori di collegare la prima parte poco nota della vita del giovane ebreo genovese, schedato a 26 anni come antifascista, poi incarcerato e inviato al confino per tre anni con continui spostamenti in luoghi sempre più isolati, alla successiva lotta partigiana come unico comandante ai Castelli Romani per nomina del CLN.
Redazione, Il 5 dicembre presentazione del libro “Il ponte sette luci. Biografia di Giuseppe Levi Cavaglione”, 30 novembre 2012, ANPI Provinciale di Roma

La storia dell’attentato al ponte Sette Luci fu raccontata nel film di Nanni Loy, “Un giorno da leoni”, del 1961. Fonte: Liliana Picciotto, op. cit. infra

Il bilancio dei due attentati compiuti quella notte dai partigiani fu notevole: un convoglio bloccato a 25 chilometri di distanza da Roma, due vagoni rotolati in fondo valle, uno penzolante giù da un’arcata del ponte, e altri due, rimasti sul binario, accavallati uno sull’altro; un altro treno, diretto al fronte carico di carburante e munizioni, distrutto simultaneamente. Il CLN non volle mai attribuirsi le responsabilità del sabotaggio. Nel suo rapporto Pino Levi stesso chiese, infatti, di non darne la notizia alla stampa clandestina, per timore di tremende ritorsioni sulla popolazione locale:
“i tedeschi devono ignorare che siamo stati noi. Si farà anzi il possibile per far credere che il colpo sia opera di sabotatori alleati”.
Le gesta del gruppo partigiano di quella notte sono immortalate nel film “Un giorno da leoni”, di Nanni Loy, del 1961.
Il 23 gennaio successivo arrivò la buona notizia: gli alleati erano sbarcati ad Anzio. I resistenti dei Castelli Romani continuarono le loro azioni, sebbene la zona fosse percorsa in lungo e in largo da truppe tedesche, ammassate tra Genzano, Albano, Ariccia, Frascati, campagne flagellate anche dai bombardamenti anglo-americani. In quel territorio, ormai diventato un gigantesco campo di battaglia usato dai tedeschi come retrovia per contrastare l’avanzata degli Alleati verso Roma, non c’era più possibilità di condurre la lotta armata. Pino Levi, a fine gennaio si ritirò a Roma, da dove fu mandato poco dopo, insieme a Moscati, a Zagarolo e poi a Palestrina.
(a cura di) Liliana Picciotto, Pino Levi Cavaglione, Resistenti ebrei d’Italia