E questi cosacchi nei paesi andavano a vivere nelle case

Le truppe russe dislocate in Carnia avevano una composizione varia. Accanto ai cosacchi vi si trovavano caucasici e georgiani. Essi erano in gran parte prigionieri di guerra catturati a Sebastopoli nel maggio 1942 e a Kerc (Crimea). A questi, durante i vari combattimenti sostenuti dai nazisti in terra di Russia, si affiancavano anche elementi civili della popolazione dei cosacchi del Don, Kuban, Terek, e del nord del Caucaso. In Germania, oltre ai prigionieri di guerra, vennero trasportati infatti più di 3 milioni di lavoratori impiegati in opere di finalità bellica. Tra questa massa di deportati, circa 200.000 aderirono volontariamente alla proposta di essere liberi e divenire incorporati in reggimenti speciali fedeli alla Germania. Ebbe così origine la Ruskaja Osvobodetelnaja Armja (comandata dal supremo generalissimo Wlasov) che la propaganda tedesca definì, presentando i russi per la prima volta ai friulani “nemici irriducibili del bolscevismo, combattenti le bande comuniste del Litorale Adriatico”.
In Polonia, le truppe cosacche vennero impiegate nella lotta contro i partigiani polacchi, agli ordini del generale Bor-Komorowski. L’armata di Wlasov collaborò infatti con le forze tedesche, per domare l’insurrezione di Varsavia dell’agosto-settembre 1944. Parte di queste truppe russe, dopo essere stata nei pressi di Berlino, venne infine inviata in Italia. In Carnia, dove vi era il più consistente raggruppamento di partigiani, le truppe vennero poste agli ordini del generale Krasnoff, coadiuvato dal generale Salamakin, il cui comando fu posto a Verzegnis. Krasnoff era un ex ufficiale zarista, già combattente nella controrivoluzione russa ed autore di un noto libro. Al comando di un battaglione di georgiani (passati più tardi fra le file dei partigiani) vi era un principe, il colonnello Zulikize. Soltanto questi soldati presentavano una discreta levatura sociale. Nei reparti dei cosacchi e dei caucasici prevalevano, infatti, tra la truppa gli elementi estremamente primitivi e rozzi, in netto contrasto con i loro superiori: quasi tutti di un certo livello intellettuale ed appartenenti ad antiche famiglie della nobiltà zarista.
Terminata la fase iniziale dell’occupazione, contrassegnata da incresciosi fatti, da uccisioni, razzie e maltrattamenti, con saccheggi quasi totali di numerosi paesi, iniziò in Carnia un vero insediamento di popolazione di un altro ceppo. Si trattava di 20.000 persone tutte parzialmente a carico dei 60.000 carnici. Le valli meridionali vennero occupate dai cosacchi del Don e del Kuban mentre nelle settentrionali, con un separato comando a Paluzza, si insediarono i caucasici, distinti in circassi o grusini, e poi ancora i georgiani. A Cavazzo, Verzegnis, Arta, Paluzza, Treppo, Ligosullo e Paularo <82 gli abitanti furono costretti a sgomberare metà dell’abitato, in favore degli occupanti.
Fidalma Garosi ricorda quegli episodi: “Era una cosa tremenda camminare dove c’erano loro perché s’erano di grillo buono andava dritta e noi ci salutavamo – buongiorno, buonasera -, sorridevamo ai bambini. Bisognava usare i mezzi che si aveva. Queste persone avevano un attaccamento tale alla loro famiglia, alla moglie, ai bambini, che era una roba incredibile. E questi cosacchi nei paesi andavano a vivere nelle case e mettevano la famiglia di origine a dormire per terra, di sotto, mentre loro vivevano nelle camere, erano loro i padroni”. (p.221)
Oltre alle razzie di tutti gli animali da cortile, gravi furono i danni provocati da più di 6000 cavalli russi, liberi nelle campagne o nutriti con le già magre riserve di fieno dei civili”. <83
Lida Lepre racconta: “I cosacchi con noi si sono sempre comportati bene, ce ne era solo uno che era proprio cattivo e che andava in giro a chiedere fieno per il suo cavallo e se qualcuno, in genere donne o vecchi, diceva che non ne aveva o che la stalla era lontana, prendeva un sacco di botte. Un giorno è venuto a casa mia sempre per chiedere del fieno e quando io gli ho detto che la mia stalla era fuori dal paese ha cominciato a urlare e ha estratto la pistola. Io gli ho subito detto in malo modo di riporre la pistola, poi ho preso un cappello da postino che avevo rubato in posta, sul quale c’era un simbolo con il fascio. Gli ho mostrato quello e gli ho detto che ero un ufficiale e che se non faceva come dicevo io sarei andata a Comeglians, al comando tedesco e gli avrei fatto rapporto. Lui si è subito calmato e mi ha chiesto scusa. Allora l’ho fatto accompagnare da mio zio nella stalla di mia cugina che gli ha dato del fieno. Da quel giorno tutte le volte che mi vedeva in paese mi urlava: “ciao belle gambe, grazie fieno!” “(p.238)
Durante i primi giorni dell’occupazione i russi, fornitissimi di lire italiane, aumentarono disastrosamente la circolazione cartacea. Per saziare il loro smodato appetito o per procurarsi l’alcol ed il tabacco, che ricercavano assiduamente, essi organizzarono mercati sulle piazze commerciando latte, cavalli e sale con i civili. In seguito si diedero esclusivamente ad una vita di razzie. <84
Che questi popoli si abbandonassero spesso all’abuso di alcol era risaputo e ben testimoniato da Ornella Fabbro: “Ripresi il cammino verso Tolmezzo, non passava nessuno, non una macchina, non un camion. Dopo circa 2 km, da Amaro uscì una carretta russa con due uomini a bordo. Feci cenno se potevo salire dietro ed essi annuirono e mi fecero salire. I due erano seduti al posto del cocchiere e io mi sedetti dietro, in un angolo, sulla valigia. Parlavano fra di loro in russo ed ogni tanto si scambiavano una bottiglia di grappa. Erano ubriachi! Sulla strada non c’era nessuno, solo io e loro due. Il cavallo andava piano ed il sole stava calando, non vedevo l’ora di arrivare in un luogo abitato. Ad un certo punto, i due russi, scolata la bottiglia della grappa, la scagliarono all’indietro che quasi mi colpivano alla testa. Capii allora che erano tanto ubriachi che si erano dimenticati di avermi dietro: ciò mi tranquillizzò non poco! Finita la grappa, sferzarono il cavallo che iniziò a correre, mentre loro cantavano come potevano. Alla prima casa di Tolmezzo scesero. Quella casa doveva essere un’osteria. Io scesi e con sollievo infilai un sentiero che portava alla stazione ferroviaria: non c’era nessuno”. (p.202)
Vi è poi la testimonianza particolare di Lida Lepre di Rigolato che va in controtendenza rispetto a tutte le altre. Lei ricorda i cosacchi, o sicuramente alcuni di loro, come brave persone che hanno anche aiutato la popolazione del suo paese e con le quali aveva stretto anche dei rapporti di stima e rispetto. “Qui da noi c’erano solo i cosacchi che come prima cosa hanno sequestrato tutte le radio in modo tale da tagliarci fuori dal mondo per non farci sapere niente di quello che succedeva. C’era però un cosacco che era un bravo ragazzo e che prima di sequestrarci la radio ha avvisato mio marito di portarla via e che poi avrebbe potuto riportarla a casa, magari nascosta nel camion della frutta e verdura, che nessuno avrebbe detto niente. Con questa scusa a casa mia c’era sempre un va e vieni di gente che veniva a sentire la radio: sia cosacchi, sia partigiani. I cosacchi che avevamo qui da noi non erano così cattivi, anzi ci hanno anche aiutato fermando dei rastrellamenti dei tedeschi che venivano giù da Sappada comandati dalle SS. C’era una vecchia strada che da Sappada portava a Rigolato passando per Ludaria e che i tedeschi usavano per venire a fare dei rastrellamenti improvvisi. Una volta le SS stavano proprio scendendo di là quando i cosacchi, di stanza nel nostro paese, li fermarono sparando loro addosso, perchè quello era territorio loro e si sarebbero arrangiati da soli a combattere i partigiani. Un’altra volta poi, quando alcuni miei compaesani mi hanno denunciata perché partigiana, due cosacchi sono venuti ad avvisarmi di ciò e comunque non mi hanno fatto niente. Loro capivano la situazione in cui ci trovavamo noi. Quando sono andati via volevo salvarne due di quelli che stavano sempre a casa mia. Uno di loro dormiva su una panca vicino alla cucina economica, era ingegnere e quando la mattina mia madre si alzava, lui si svegliava e si metteva la giacca. Era una persona perbene”. (pp.237-238)
Lida Lepre racconta, poi, della partenza di questi popoli quando ormai le sorti della guerra erano segnate così come il loro triste destino: “Una notte eravamo appena andati a letto quando sentiamo bussare alla porta. Vado ad aprire e vedo Michele (li chiamavo uno Michele e uno Miša per distinguerli, giacché si chiamavano tutti uguali) che mi chiede se posso restituirgli la giacca che aveva dimenticato a casa mia. E io gli dico “adesso vado a prendertela, ma dove devi andare a quest’ora di notte?” E lui “partiamo… “Mi affaccio dalla porta e vedo sulla strada tutti i loro carri, con sopra tutte le loro cose, le donne e i bambini, tutti con le ruote fasciate di stracci per non farsi sentire. Io gli ho detto “Michele, non andare perché vi faranno fare una brutta fine. Se rimani qua io ti difendo e testimonio che sei una brava persona.” Era stato lui infatti che mi aveva messa in guardia dalle persone che mi avevano denunciata. Le mie parole però furono inutili perché lui non poteva abbandonare la sua gente, così è partito e sappiamo tutti che fine hanno fatto. Quella notte sono arrivati fino a Ravascletto per poi raggiungere il passo di Monte Croce Carnico. Il giorno seguente sono passata per Ravascletto con mio zio e tutta la Val Calda, dove adesso ci sono le seggiovie, era completamente coperta da lettere, stracci, stivali, cianfrusaglie di ogni genere: era tutto ciò che i cosacchi avevano abbandonato pensando che fosse superfluo, in modo tale da poter viaggiare più leggeri. Era uno spettacolo sconvolgente”. (p.238)
Dall’estate del ’44 fino alla fine della guerra, quindi, i militanti della Resistenza friulana dovettero combattere, oltre che per la distruzione del nazifascismo, anche contro questo enorme e variegato insieme di popoli per riconquistare la libertà, la pace e le proprie case.
[NOTE]
82 P. Stefanutti, Quando il Friuli diventò terra cosacca, in “Patria indipendente”, 23 giugno 2002
83 M. Gortani, Il martirio della Carnia, Leonardo editrice, 2000, pp.53-58
84 F. Vuga, La zona libera di Carnia e l’occupazione cosacca, Del Bianco, Udine 1961, pp.124-126
Eleonora Buzziolo, Partigiane in Friuli: storia e memoria, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2003-2004

I cosacchi seguivano una tattica precisa quando si apprestavano ad assaltare le compagini partigiane, attaccando prima dell’alba; per questo motivo, in modo da non farsi sorprendere alla malga Avedrugno, i partigiani passavano spesso le notti sugli alberi che circondavano la valle. <10 L’Ors di Pani durante questi eventi si prodigò con generosità; destinò gran parte del suo gregge per sfamare la popolazione e i combattenti partigiani, che nascose e ospitò nella sua valle. Alla fine della guerra i suoi animali risultarono pesantemente decimati.
I cosacchi vennero a conoscenza del suo collaborazionismo e salirono fino ai suoi casolari per arrestarlo, ma di fronte al suo implacabile silenzio decisero di metterlo al muro. L’Ors di Pani, generosamente e coraggiosamente corse il rischio della fucilazione. Intervenne Maria, la figlia, supplicando i cosacchi di non giustiziarlo, cercando di giustificare le accuse rivolte al padre, ma le sue preghiere rimasero inascoltate. Gli fu intimato di alzare le braccia e gli furono puntate addosso le carabine cosacche. Alla fine fu liberato presumibilmente in forza del suo aspetto. <11 Sembra infatti che di fronte alla sua corporatura imponente, al suo sguardo ed ai suoi occhi chiari ed alla barba rossiccia ed arruffata i cosacchi videro in lui il prototipo dei Kulaki, ovvero quei milioni di contadini benestanti che vennero sterminati e deportati nei campi di lavoro da Stalin poiché si opponevano alla collettivizzazione delle terre. Probabilmente, essendo essi stessi fuggiti dalla Russia bolscevica di Stalin, in quanto filozaristi, provarono empatia per quest’uomo che ricordava loro i connazionali ingiustamente decimati. <12 Non riuscirono ad eseguire l’ordine, posarono le armi e la fucilazione fu sospesa. Sfidando la minaccia di un agguato partigiano, i cosacchi qualche giorno dopo ritornarono nelle proprietà dell’Ors di Pani per donargli un colbacco bianco di pelle d’agnello. Questo particolare colbacco nella tradizione cosacca era un segno di distinzione e per questo indossato dai dignitari. Lui ringraziò con la consueta rudezza. <13
[NOTE]
10 CARNIER P.A , L’armata cosacca in Carnia 1944-1945, Milano, Mursia, 1990, pp. 83-88.
11 CARNIER P.A., “L’Ors di Pani” in Vento di Carnia, Udine, tipografia G.B. Doretti 1957, pp. 77-138.
12 Ibidem.
13 Ibidem.
Ilaria Toscano, L’Ors di Pani: tra mito e realtà, Tesi di laurea, Università degli Studi di Udine, Anno Accademico 2009-2010