Nel primo pomeriggio dell’11 febbraio 1944, nei pressi di una cava di argilla a Colle Pineta di Pescara, nove giovani e giovanissimi partigiani teatini – Piero Cappelletti, 28 anni, Nicola Cavorso, 23, Stelio Falasca, 18, Massimo Beniamini Di Matteo, 18, Raffaele Di Natale, 30, i fratelli Alfredo e Aldo Grifone, 23 e 20 anni, Vittorio Mannelli, 23, e Aldo Sebastiani, 17 anni – furono barbaramente trucidati dai nazisti per il solo fatto di essersi opposti alla loro crudele e sanguinaria dittatura. Furono arrestati tra il 16 gennaio e il 4 febbraio, in seguito alla delazione di collaborazionisti fascisti di Chieti e furono processati il 9 e 10 febbraio 1944 da un tribunale militare tedesco che operò presso il municipio di Chieti. Erano stati inizialmente condannati all’impiccagione e successivamente alla fucilazione in seguito all’intervento del vescovo di Chieti, monsignor Giuseppe Venturi. Altri tre patrioti, pure arrestati (Guido Grifone, Floriano Finore e Giovanni Potenza), furono graziati.
(a.i.), L’Anpi onora gli eroi di Colle Pineta, il centro, 11 febbraio 2017
L’11 febbraio 1944, nove partigiani della banda “Palombaro” furono fucilati da paracadutisti tedeschi nei pressi della pineta di Pescara. Catturati a Chieti dai fascisti repubblicani guidati da Mario Fioresi, furono rinchiusi, torturati e poi consegnati ai tedeschi che, dopo un sommario e farsesco processo ne decretarono la condanna a morte:
Pietro Cappelletti, Nicola Cavorso, Aldo e Alfredo Grifone, Massimo Beniamino Di Matteo, Raffaele Di Natale, Stelio Falasca, Aldo Sebastiani e Vittorio Mannelli
pagarono, così, con la vita il desiderio di libertà che li aveva portati a combattere a Palombaro, a pochi chilometri dal fronte, in nome di un futuro ancora da scrivere.
L’ANPI di Pescara ricorda il valore di questo sacrificio, uno dei tanti che hanno permesso all’Italia di riscattare il passato fascista. I valori di libertà, giustizia e democrazia, propri di questi nove ragazzi la cui età era compresa tra i 16 e i 31 anni, sono infatti i medesimi che sono alla base della nostra Costituzione democratica e repubblicana. Ma vi è un altro motivo per cui l’ANPI di Pescara ritiene imprescindibile ricordare questi nove partigiani: la memoria storica di quel periodo e di quegli eventi, che vanno sotto il nome di Resistenza, costituisce il nostro patrimonio spirituale e culturale, la nostra identità di popolo.
Nel luogo in cui i nove partigiani furono fucilati, oggi sorge una scuola elementare nel cui cortile, a pochi metri dall’edificio scolastico, vi è il cippo commemorativo. Questa circostanza non ha soltanto prodotto un incredibile legame tra questa comunità scolastica e gli uomini fucilati in quel lontano 1944, ma ha favorito un percorso di educazione alla pace ed alla cittadinanza consapevole, che si rinnova annualmente grazie al lavoro degli insegnanti. Dal 1998 la scuola ha assunto il nome di “11 febbraio 1944” e, da quel momento, ha avuto un ruolo più attivo sia nella cura del Cippo che ricorda il luogo della fucilazione, sia nella formazione della “memoria”: nacque così il progetto “Gocce nel mare” che si occupa di educare alla pace mediante l’acquisizione di conoscenze, comportamenti e valori, in un’ottica democratica, interculturale, antirazzista.
Redazione, Ricordo dei 9 fucilati della “Palombaro”, ANPI, 11 febbraio 2013
Dichiarazione della Sig.na Vittoria Clama
La sera dell’11 febbraio 1944 io mi trovavo nella cantina dello stabile di Gradoni Cauta 3 (poco chiaro nel testo originale ndr.) assieme agli altri abitanti della casa per ripararmi dalle granate. Di lì a poco vennero due dei tre gendarmi che avevano preso una stanza nella casa. Io, desiderosa di sapere qualche cosa sugli ultimi momenti dei nostri poveri fucilati, attaccai discorso con loro. Uno parlò e disse ch’era stato presente all’esecuzione. Allora chiesi com’erano morti. Lo feci per poter poi eventualmente riferire alle famiglie. Disse che avevano paura, che tre s’erano dimostrati molto coraggiosi. Chiesi, facendone la descrizione, di Nicola Cavorso con quale avevo avuto dei colloqui politici scambiandoci i nostri sentimenti e le nostre speranze, quando, nel febbraio 1943, mi trovavo all’ospedale e lui veniva qualche volta a trovarmi. Il gendarme mi disse ch’era morto da eroe, mettendosi sull’attenti. L’ultima volta che avevo visto libero Nicola Cavorso era una mattina, sul poggiolo della sua casa, che stava fumando la pipa. Era, credo, poco prima del suo arresto.
Ci salutammo e scambiammo qualche parola.
F/to Vittoria Clama
Chieti 15 novembre 1945
Dichiarazione riguardante il Patriota Nicola Cavorso assassinato dai tedeschi l’11 febbraio 1944
Noi compatrioti Grifone Guido, Floriano Finore, Potenza Giovanni, dichiariamo quanto segue:
Il giorno 24 gennaio 1944 dopo vane ricerche, i fascisti riuscirono per tramite di spie a catturare il Patriota Nicola Cavorso che maltrattarono alla presenza dei familiari. Fu portato in camera di sicurezza e la notte fu chiamato dal Fioresi per l’interrogatorio. Non gli riuscì a cavare di bocca nemmeno mezza parola dopo averlo frustato a sangue per un’ora e mezza circa. Nessuna lacrima, nessun gemito uscì dalla bocca del Cavorso, il quale rivolgendosi ai carnefici e scoprendosi il petto disse: “Ecco il mio petto, fate di me quello che volete, ormai sono nelle vostre mani”. Il Fioresi essendo stanco smise di batterlo: allora il milite D’Intino prese il posto del Fioresi e gli diede calci e pugni e nervate tanto da strappargli i calzoni e ferirlo al ginocchio. In seguito lo bastonarono più volte ma il Cavorso non rivelò mai nulla. Dopo aver interrogato tutti, ci portarono alle carceri dove restammo fino al giorno del processo, che durò due giorni. Il Cavorso si comportò magnificamente difendendosi e difendendo tutti, ma il processo condotto con modalità illegali si concluse con la condanna a morte per tutti gli accusati. Ci riportarono in carcere e uno alla volta salutammo i familiari trattenendosi non più di cinque minuti. Al sentire le grida dei congiunti il pensiero di doverli lasciare per sempre ci abbatté molto. La notte nessuno dormì. Molti di noi pensando alla famiglia piangevano, ma il Cavorso era fiero del dolore e generosamente confortava tutti con queste parole: “Siamo stati forti fino ad ora e adesso piangete come bimbi” e queste parole si riferivano specialmente a me, Floriano Finore, perché piangevo molto. Terminò dicendo “Non piangete amici, andiamo a morire senza una lacrima. Sappiano gli italiani e gli inglesi che siamo morti serenamente”. La mattina seguente tutti eravamo accasciati, ma lui col suo sorriso ci volle ancora confortare dicendoci: “Piangiamo adesso, ma quando verranno gli aguzzini a prenderci, vi raccomando fratelli dobbiamo uscire fuori tutti col sorriso sulle labbra, senza battere ciglio e così resteremo anche davanti al plotone di esecuzione perché
faremo vedere loro che della morte ce ne freghiamo ché noi siamo italiani ma non traditori”.
In fede di quanto sopra ci sottoscriviamo:
F/to Grifone Guido – Floriano Finore – Potenza Giovanni
Dichiarazione di Luigi Cipolla
La sera del 27 settembre [1943], per non essere preso dai tedeschi, partii da Chieti per recarmi a Fara S. Martino. Erano circa le 23 quando la macchina che ci conduceva fu assalita da una quindicina di Patrioti nelle vicinanze di Palombaro. Riuscimmo ad evitare incidenti perché avemmo l’accortezza di gridare subito “amici”. Appena scesi a terra riconobbi fra questi il Prof. Nicola Cavorso comandante della pattuglia. Dopo un cordiale abbraccio il Cavorso mi confessò che dalla mattina non provava cibo ed io che avevo avuto una merenda proprio dalla madre del Cavorso fui ben lieto di offrirgliela. M’intrattenni con la pattuglia circa un’ora e dopo aver dato appuntamento per il mattino successivo ripartii alla volta di Fara. La mattina del 28 mi recai all’accampamento, presi contatto con altri partigiani, ma mi fu impossibile parlare con il Cavorso in quanto quel giorno comandava una pattuglia in esplorazione. Il mattino del 29 lo trovai puntualmente all’accampamento e dopo avermi dato alcune bombe a mano mi dichiarò che stava malissimo per il cibo. Cercai di fargli giungere subito dei generi alimentari che sfortunatamente, per ragioni a me ignote, il Cavorso non ricevette. Il 1° ottobre mi disse che era giunto il momento di prendere e punire magari con l’arresto i fascisti. In quella occasione cercai di dissuaderlo rimandando la spedizione punitiva di qualche giorno e cioè non appena le truppe liberatrici fossero arrivate sul Sangro. Il Cavorso in parte ascoltò il mio consiglio e il pomeriggio con pochi patrioti si recò a Fara S. Martino dopo aver piantonato le due strade di accesso alla Piazza Municipale, con le armi in pugno entrò al Municipio prima e poi alla casa del fascio e sequestrò tutte le bandiere fasciste che vi si trovavano. L’azione riuscì in pieno senza incidenti e ancora oggi la madre del Cavorso conserva uno dei gagliardetti e qualche altro oggetto del fascio di Fara S. Martino. Intanto nei primi di ottobre i tedeschi divenivano sempre più numerosi. I patrioti si erano arricchiti di alcune armi automatiche ed il cozzo divenne inevitabile. Il 20 ottobre i patrioti di Palombaro assalirono un primo automezzo tedesco e dopo breve combattimento i tedeschi rimasero uccisi. Il 3 ottobre due automezzi tedeschi furono anche assaliti e nel combattimento che ne seguì i patrioti riuscirono a catturare una motocicletta ed ammazzare due tedeschi. Con un camion un ufficiale tedesco e due soldati riuscirono a mettersi in salvo dandosi alla fuga. I patrioti si lanciarono all’inseguimento con la stessa motocicletta sequestrata ai tedeschi prima e con la camionetta dopo. I tedeschi furono raggiunti nella contrada di Lama dei Peligni “Corpisanti” e di lì si riaccese la lotta. I due soldati tedeschi furono presi prigionieri, mentre l’ufficiale gravemente ferito riuscì a raggiungere Lama dei Peligni e di lì, dopo essersi fatto mettere a disposizione del maresciallo dei CC. RR. una macchina, raggiunse il proprio Comando a Sulmona. La mattina del 4 a Fara S. Martino erano appena le sei quando le prime mitragliatrici tedesche aprirono il fuoco. Da una finestra vidi due o trecento soldati, che più tardi venni a conoscenza essere SS, che sparavano come pazzi sulle finestre e nelle strade del paese ed alcuni altri con i lanciafiamme si preparavano ad incendiare il paese. Ci fu uno sfollato che in tempo avvisò il comandante dei patrioti che si trovavano in montagna, così il paese soffrì solo delle razzie e due vittime tra la popolazione civile. La colonna proseguì subito per Palombaro e di lì i tedeschi si recarono all’accampamento dei patrioti. Questi ultimi, in numero di appena 16, si ritirarono in montagna per non essere trucidati. Dopo questa spedizione punitiva le popolazioni di quei comuni erano state prese da un folle terrore e nessuno, uomo o donna, osava uscire di casa se arrivava una macchina tedesca. La sera del 6 ottobre, verso le ore 20, il Cavorso ed un tenente di cui non ricordo il nome si recarono a casa mia a chiedere del pane. I due patrioti erano armati di fucile mitragliatore, di pistola mitragliatrice catturata ai tedeschi e di un certo numero di bombe a mano. Li feci trattenere a casa fino a sera inoltrata e con l’occasione il Cavorso mi dichiarò che era conscio del pericolo a cui andava incontro, ma dopo quello che era avvenuto si sentiva impegnato dinanzi a Dio di vendicare le due innocenti vittime fatte dai tedeschi durante la rappresaglia. Li feci mangiare e a notte inoltrata se ne tornarono in montagna. Il mattino successivo consegnai ai pastori del pane, della farina e delle patate per farle giungere al Cavorso. Seppi dal pastore che i generi che avevo inviato non erano sufficienti perché si dovevano sfamare 5 patrioti e 4 prigionieri alleati liberati. I giorni successivi mandai ancora della roba e il 10 venni a sapere che i patrioti se ne erano andati e che i prigionieri si erano incamminati per passare le linee.
Chieti 10 dicembre 1944 F/to Luigi Cipolla
La figura del patriota Nicola Cavorso – Dal settimanale “La Rinascita D’Abruzzo” del 29 ottobre 1944 – Chieti
Non era agevole distinguere il serio ed il faceto nel suo dire. L’ingegno vivido rimaneva l’esuberanza della giovinezza, con frizzi ed arguzie che, solo di rado, lasciavano trapelare dal viso di eterno fanciullo la fermezza del carattere. E lieto e fermo fu sempre Nicola Cavorso, nella casa accanto alla mamma che adorava, nella scuola, nella vita permeata di ideali e di passione per la Patria. Seguì negli ultimi anni il declino della vita nazionale e coll’intuizione dei giovani ne intravide la rovina e la necessità di opporsi, e a Roma nei primi di settembre prese parte coi granatieri alla battaglia contro le formazioni corazzate tedesche e i battaglioni M. scampando a malapena, dopo la sopraffazione, alla morte e alla rappresaglia. Fermato, nel viaggio di ritorno, da un reparto germanico che stazionava ad Avezzano, fu interrogato. Gli tolsero quanto aveva seco, ma allorché vollero strappargli la bandierina che portava nel taschino della giacca si ribellò, malmenato, si oppose con violenza. Venne chiuso in una stanza per essere condotto prigioniero e giudicato, ma riuscì ad evadere e ritornò a casa. La bandierina lacera rimasta sul petto gli fu orgoglio ed ispirazione. Aderì perciò con entusiasmo alla lotta organizzata dalla Banda Palombaro: radunò armi, indumenti, viveri e partì con una camionetta una notte di settembre alla volta di Palombaro, assieme ad altri amici. Ideatore di beffe ai persistenti fasci locali, fece chiudere e devastare varie case del fascio, compì con rischio e dedizione le missioni e rimase con pochissimi sul posto anche dopo l’ultimo combattimento del 4 ottobre. Il 6 ottobre, alle dieci di sera, bussava lacero ed affamato alla porta di un amico in Fara San Martino; rinfrancato alquanto, ritrovò la vena briosa e parlò di tante cose. All’amico che cercava persuaderlo a lasciare la montagna, irta di pericoli, rispose che era impegnato innanzi a Dio per vendicare due compagni vittime dell’atrocità tedesca. L’uno, La Corte Biagio, ferito gravemente il 4, abbandonato disumanamente nel sangue; l’altro, Di Pietro Adalgiso, trucidato sul Ponte Villa, il corpo gettato dall’alto di venti metri e sfracellato sui roccioni della riva destra dell’Aventino. Assolto l’impegno, tornò a Chieti. Cooperò alla riorganizzazione della Banda, all’opera di sabotaggio, al servizio d’informazioni, stette saldo anche quando attorno a lui cominciarono le prime fucilazioni: alacre e sebbene prudente, non sospettò che lo tradisse chi aveva aiutato e beneficato. Arrestato fu sottoposto, la notte dal 24 al 25 gennaio, ad interrogatorio ed alle prime staffilate. Le risposte calme ed ironiche indispettirono gli aguzzini che lo rinviarono alle carceri. Ma la notte seguente ve lo trassero di nuovo; fu martoriato in ogni guisa e, quando dopo tre ore di inutili domande e torture Fioresi già briaco di cognac e di collera gli disse: “Peccato che sia stanco e le mani mi dolgano, altrimenti ti strangolerei”, un milite vile ed ignobile investiva l’inerme Cavorso con furia di calci e nervate moltiplicando le lacerazioni che, già numerose, coprivano ogni parte del corpo, strappandogli i calzoni e fratturandogli un ginocchio. Non versò lacrima né ebbe lamento; nelle carceri, quando alcune ore dopo tornava Cappelletti ugualmente piagato, Cavorso gli offriva la
branda onde meglio posasse, e s’adagiava sul nudo ed umido pavimento. Gli serrava il petto il bruciore del tradimento, l’ombra della mamma vedova, sola, dolente e del fratello ignaro e penante in lontana prigionia; eppure perdonò cristianamente a tutti, rincorò i compagni e sorrise sempre, anche alla morte, che si profilava ormai nella luce della gloria.
Maria Carla Di Giovacchino, La Banda Palombaro nella Resistenza abruzzese, Tesi di laurea, Università degli Studi “G. D’Annunzio” Chieti – Pescara, Anno Accademico 2015-2016