La torta è finita

Nel mentre, le elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992 certificarono la crisi della Prima Repubblica: la DC scese al suo minimo storico, fermandosi al 29,7%, con pesanti flessioni nel Nord-Est a favore della Lega Nord, riuscendo a perdere un terzo dei voti in Lombardia, soprattutto nelle aree dove era tradizionalmente più forte, come le valli bresciane e bergamasche; il PSI arretrò, attestandosi al 13,6% dei voti, e in generale l’alleanza DC, PSI, PSDI e PLI che aveva sostenuto l’ultimo governo Andreotti riuscì a ottenere un solo seggio di vantaggio al Senato, certificando la sconfitta del CAF. Non andava meglio sul fronte dell’opposizione: il PCI, dopo due congressi dalla caduta del Muro di Berlino, evento che portò nel febbraio 1991 al cambio di nome in Partito Democratico della Sinistra, si fermava al 16,6% e Rifondazione Comunista, nata dalla scissione degli ex-PCI contrari al cambio del nome, si fermava al 5,6% (alle Europee di tre anni prima il PCI aveva preso il 27,58%); il nuovo partito La Rete, che metteva insieme l’esperienza milanese e palermitana nella lotta a mafie e corruzione, si fermò all’1,86%, eleggendo solo dodici deputati e tre senatori. La vera trionfatrice fu la Lega Nord, che a livello nazionale passò da un inesistente 0,5% all’8,7% (per un totale di 55 deputati e 25 senatori), il 25,1% in Lombardia e il 18,1% a Milano, dove divenne il primo partito con Bossi che collezionò 240mila preferenze contro le 94mila di Craxi.
Tra le Stragi e le condanne
Sul fronte imprenditoriale, il settore delle costruzioni, storicamente più inquinato dal punto di vista di mafia e corruzione, fu il primo ad abbandonare il sistema: attraverso l’associazione di riferimento, la Assimpredil, il 27 aprile gli imprenditori edili diramavano un comunicato in cui si rendevano a disposizione in via preventiva al dottor Di Pietro per collaborare alle indagini.
Il segnale vero e proprio del cambio di passo fu però l’editoriale in prima pagina sul Corriere della Sera del condirettore Giulio Anselmi, intitolato «La torta è finita», che rilanciava la «la bistrattata questione morale» e invitava la borghesia milanese a collaborare con i magistrati. Toni assai diversi da quelli che fino a quel momento il quotidiano di Via Solferino aveva dedicato a qualsiasi “ingerenza” della magistratura nei fatti economici, si trattasse di mafia o di corruzione <588.
Intanto, per effetto delle confessioni spontanee e delle nuove acquisizioni giudiziarie in termini di sequestri di conti correnti e documenti, la mole di lavoro crebbe a tal punto da costringere l’allora Procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli ad ampliare il numero di magistrati assegnati all’inchiesta, costituendo un vero e proprio pool, di cui facevano parte, oltre a Di Pietro, anche Gerardo D’Ambrosio, Gherardo Colombo, Francesco Greco e Pier Camillo Davigo.
Al fine di ricostruire i percorsi esteri delle tangenti, il 15 maggio il pool milanese inviò al procuratore del Canton Ticino, Carla Del Ponte, un elenco di 42 nomi, 18 dei quali non ancora inquisiti, per verificare se risultassero conti a loro intestati in banche svizzere. Si trattava della prima rogatoria internazionale di Mani Pulite e fu Giovanni Falcone <589, che con Carla Del Ponte aveva collaborato per le inchieste palermitane riguardanti il riciclaggio di Cosa Nostra, a perfezionarla nel suo nuovo ruolo di direttore generale degli Affari Penali del Ministero della Giustizia, sostenendo il lavoro dei giudici di Milano.
Intanto mentre il 25 maggio il Parlamento eleggeva il nuovo Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, il Tribunale di Milano condannava tutti gli imputati della “Duomo Connection”, confermando le richieste del pubblico ministero Ilda Boccassini. La notizia tuttavia fu oscurata da un fatto di mafia più grave: due giorni prima, in località Isola delle Femmine, all’altezza con lo svincolo di Capaci, Cosa Nostra eliminava con 500kg di tritolo il giudice Giovanni Falcone, divenuto nel frattempo direttore degli Affari Penali del Ministero della Giustizia, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Stessa sorte sarebbe toccata 57 giorni dopo al giudice Paolo Borsellino, ucciso da un’autobomba a Palermo in via Mariano D’Amelio il 19 luglio alle 16:58, insieme agli uomini della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Carlo Traina, Vincenzo Li Muli.
L’emozione collettiva per quelle due morti violente insieme ai risultati straordinari dell’inchiesta Mani Pulite, che continuava sempre più a salire i vertici del potere politico nazionale, creò un clima politico tale che sembrò davvero per la prima volta poter cambiare tutto e l’Italia liberarsi dai suoi mali storici: l’affarismo politico da una parte e le organizzazioni mafiose dall’altra. Tuttavia così non fu.
Tangentopoli come ecosistema parassitico
Senza stare a ripercorrere tutte le tappe dell’intricata vicenda, ciò che è importante sottolineare in questo frangente è che il sistema di Tangentopoli non era solo un sistema di finanziamento illecito ai partiti tradizionali con responsabilità di governo nel capoluogo milanese: si trattava soprattutto di un sistema di relazioni economiche e sociali tra esponenti della nuova borghesia milanese divenuta classe dominante negli anni ’80 per agire al riparo dalle turbolenze del mercato e della libera concorrenza, addossando allo Stato, in termini di maggior debito pubblico <590, il costo del sistema che garantiva maxi-profitti nonostante l’assenza di investimenti in innovazione e ricerca. La classe imprenditoriale divenuta egemone in epoca post-fordista non era stata, quindi, in grado di dare nuova linfa e smalto alla ex-capitale morale, anzi, l’aveva fatta sprofondare in una crisi economica e morale ancor più grave, dando linfa a un nuovo e pervasivo ecosistema parassitico, nell’accezione della Mazzucato <591.
[NOTE]
588 Sul tema si veda la ricostruzione contenuta nel libro L’assalto al cielo, di Gianni Barbacetto e Nando dalla Chiesa, Milano, Melampo Editore, p. 169 e ss.
589 Citato in Barbacetto, Gomez, Travaglio, Mani Pulite, p. 62
590 L’economista Mario Deaglio nel 1992 stimò il giro di affari della corruzione in Italia attorno ai 10mila miliardi di lire, con un indebitamento pubblico tra i 150 e i 250mila miliardi di lire e 15-25mila miliardi di relativi interessi annui sul debito, cfr Ibidem.
591 MAZZUCATO, M. (2014). Lo Stato innovatore, Roma, Laterza, p. 37
Pierpaolo Farina, Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020