Si può rileggere Amendola come si leggono Salvemini ed Einaudi, come un classico

Giorgio Amendola – Fonte: Corriere della Sera

Sono altamente onorato di recare la mia testimonianza di compagno di lotta di Giorgio Amendola qui in Torino, una città che gli era cara come culla del Risorgimento Nazionale e del Movimento operaio italiano.
Per formazione culturale Egli considerava Torino e Napoli, le capitali dei due Regni, come le città che sia pure in modo differente avevano dato vita all’Unità d’Italia, il sommo bene nel pensiero di Giorgio Amendola.
Aveva diretto la Resistenza armata nella capitale per delega del Comitato di Liberazione Nazionale ed aveva svolto un ruolo politico di primo piano nel collegamento con tutto l’antifascismo.
Alcide De Gasperi lo considerava il comunista col quale potesse parlare in modo confidente.
Giorgio chiese ed ottenne di non restare a Roma, di poter partecipare alla guerra di liberazione che nel proposito di Luigi Longo e della direzione del PCI doveva divenire guerra di popolo per sconfiggere gli occupanti nazisti a cui si era asservito il regime fascista dopo la disfatta. Era fiero di aver potuto operare in Torino dove il movimento partigiano ed i comunisti dovevano non solo radicare le proprie basi nella classe operaia e tra i contadini ma misurarsi con l’alta intellettualità e con le tradizioni socialiste e liberali e con la stessa borghesia industriale.
L’insurrezione di Torino lo vide protagonista. Grande era la fierezza sua per queste città, a partire da Napoli, che non avevano atteso la liberazione dagli Alleati, Firenze, Bologna, Genova, Milano: l’onor dell’Italia era stato salvato dall’antifascismo.
Ho salutato Amendola in una calda giornata di fine Giugno del 1945. Venne nel Salernitano, al di fuori di ogni programma centrale di partito. Nel Collegio di Suo padre vi era un appuntamento speciale, del sentimento e della storia. Era reclamato dagli amici di Giovanni Amendola e da noi giovani meridionali che operavamo in un Sud dolente per le condizioni materiali e morali, rimasto spettatore per quasi due anni prima della distruzione del bunker hitleriano. Sentivamo il bisogno di avere un capo ed un piano politico per il nostro Mezzogiorno.
Pietro, suo fratello, ci aveva raggiunto a Salerno nell’Agosto del 1944 e lo eleggemmo Segretario della Federazione. Toccò quindi a me aprire la manifestazione.
Giorgio, accaldato, svolse un discorso lungo, pieno di riferimenti alla sua esperienza partigiana e ciellenistica, parecchio lontana dall’opinione prevalente nella città che era stata capitale provvisoria, abbastanza aperta verso una prospettiva democratica ma dominata dal moderatismo verso cui trasformisticamente si orientavano ceti e uomini che avevano tratto profitto dal fascismo.
Non posso fare a meno di riferirvi la visita a Sarno, il centro della tradizione amendoliana. Giorgio e Pietro camminavano avanti e li lasciammo avanti nel percorso, tra due ali di popolo, silenzioso e accorato, tante donne, tanti vassoi colmi di petali che venivano lanciati al loro passaggio. Seguivamo noi, i loro compagni con Germaine e Ada, attonite e commosse, aggrappate alle mie braccia.
Questa manifestazione ebbe un carattere di tipo religioso e civile, come un rito antico di accoglienza agli Eroi. Il padre era stato sacrificato barbaramente, essi tornavano vittoriosi in mezzo al proprio popolo dopo persecuzioni, carcere, esilio, pericoli e rischi di ogni genere.
Giorgio Amendola tornerà nel Mezzogiorno, a Napoli, l’anno dopo, come Segretario Regionale di una smisurata regione che comprendeva anche la Basilicata ed il Molise, oltre alla Campania.
Napoli era stato il suo punto di partenza. Commesso di libreria a ventuno anni, la maggior età di allora, aveva scelto quell’osservatorio e la casa di Benedetto Croce per guardarsi intorno e trovare la via da seguire. Conobbe Enrico Sereni, lo scienziato biologo, già legato ai fratelli Rosselli e al PdA.
Enrico fu il tramite per la conoscenza con Emilio che, ricercatore a Portici, aveva ricostituito il Partito comunista.
In un incontro famoso, Amendola sciolse il dilemma PdA o PCI per l’intervento determinante che fece Gennaro Rippa, mitico tornitore della Precisa, luminosa figura del Movimento operaio napoletano.
Avvenne «la scelta di vita».
Giorgio si indignava per la pubblicistica che categorizza «i politici», quasi una corporazione. «Io avrei pagato per fare quello che ho fatto»; scoppiò a dire una volta.
Giorgio Amendola è stato un rivoluzionario. Non un rivoluzionario leninista come fu o voleva essere Emilio Sereni. Il Partito comunista era per lui lo strumento necessario, ideale per compiere la rivoluzione antifascista del popolo italiano. Prima di qualsiasi approccio a Marx, che avrebbe frequentato con attenzione negli anni seguenti, l’ideologia del PCI e la sua organizzazione gli garantivano la determinazione in un cammino di lotta che avrebbe portato alla distruzione del fascismo come il male assoluto. Gli garantiva inoltre la sicura volontà dell’azione politica all’interno della società italiana, senza aspettare quali che fossero i rischi.
L’azione per il bene comune era anche un caposaldo di una filosofia ereditata da Giovanni, «la volontà e il bene» da coniugare nella vita politica e morale.
[…] Giorgio Amendola con il suo coraggio politico ed anche fisico svolse un ruolo decisivo nella giornata dell’11 giugno 1946.
Le forze reazionarie avevano preparato un colpo nella città di Napoli per mettere in difficoltà il governo nazionale tra gli stessi Alleati. Avevano animato una sommossa del popolino napoletano per distruggere la sede del PCI in Via Medina, per creare in tutto il Mezzogiorno una sollevazione che mettesse in forse l’esito del referendum. Verso quello stesso popolino, Giorgio si rivolse con un’iniziativa straordinaria. Con il concorso delle forze civili della città e con l’abnegazione e la perizia di centinaia di operai, diecimila bambini delle famiglie più sofferenti furono condotti nelle regioni rosse e soprattutto in Emilia. Un’esperienza storica resa possibile dalla generosità e dall’intelligenza dei comunisti emiliani e dal popolo di quella regione. Un’esperienza che ha lasciato tracce profonde sia a Napoli sia in Emilia. Un moto di solidarietà popolare e nazionale di grande significato per l’unità morale e culturale del paese. […]
Abdon Alinovi in (a cura di) Giovanni Cerchia, La Famiglia Amendola. Una scelta di vita per l’Italia, Cerabona Editore, Il meridionalismo di Giorgio Amendola, Studi, Convegni, Ricerche della Fondazione Giorgio Amendola e dell’Associazione Lucana Carlo Levi, 27, Edizioni Il Rinnovamento, Torino, 2011

Un giovane Giorgio Amendola

Chissà se un giorno non valga la pena di scrivere la storia dei comunisti napoletani. Pietro Valenza ci stava pensando, insieme a Gaetano Arfè, e ne parlò con alcuni amici. Poi Pietro ci ha lasciati, ma la curiosità e la voglia rimangono. Perché a lungo, nella seconda metà del secolo scorso, i comunisti napoletani hanno rappresentato una peculiarità, un originale punto di forza della cultura politica riformista nel PCI (anche rispetto all’Emilia Romagna, che ha tutta un’altra storia).
Giorgio Amendola è stato l’artefice e il massimo esponente di questa peculiarità, per la sua forza di elaborazione e di iniziativa politica. E per la sua cura nella formazione di gruppi dirigenti radicati nella società, espressione di tradizioni, culture, interessi che superavano steccati ideologici e di partito per misurarsi in campo aperto con gli altri. Aver dovuto fare i conti ravvicinati col pensiero crociano e con posizioni libera-ldemocratiche, particolarmente forti a Napoli, insieme a quelle socialiste e cattoliche, ha segnato nel profondo i caratteri del comunismo napoletano. Aver posto al centro della propria iniziativa politica la battaglia democratica e socialista per la rinascita dal Mezzogiorno, nodo irrisolto della rivoluzione risorgimentale e del processo di unità nazionale, ha allargato i confini e gli orizzonti di quel partito in questa parte del paese.
Fermo restando il ruolo prioritario assegnato agli operai di fabbrica e al popolo dei quartieri, la collaborazione con settori della borghesia intellettuale e con qualificati esponenti della cultura e delle professioni è stato determinante nella battaglia per lo sviluppo e la tenuta democratica della città. Ma sbaglierebbe chi, scrivendo la storia dei comunisti napoletani, trattasse questo aspetto solo nel capitolo sulla «politica delle alleanze», perché ha fatto parte della loro identità complessiva, del loro modo di essere, di ragionare, di agire. Senza ovviamente dimenticare la specificità e l’autonomia delle correnti d’opinione e dei movimenti dei quali i comunisti furono una delle parti in campo, a volte in maggioranza e a volte no. Per ritrovare quindi le radici del PCI napoletano, non si potrà non ripercorrere per intero il cammino democratico della città, le tappe della sua crescita politica, civile e morale, dando a ciascuno il suo. Dalla resistenza antifascista, alla ricostruzione, alle prime amministrazioni comunali del CLN, ai partigiani della pace, ai comitati per la rinascita, alle battaglie contro le mani sulla città durante la lunga notte laurina. Alle Giunte Valenzi a Palazzo San Giacomo.
[…] Nel 1980, all’indomani della sua scomparsa, Francesco De Martino scriveva che: “Ad Amendola è toccata la sorte abbastanza rara di essere un grande uomo in un’epoca che sta tramontando, della quale egli è stato figlio senza però tramontare con essa e divenire un superato e un sopravissuto”.
[…] La mia opinione – già espressa in qualche altra occasione – è che si dimentica Amendola quando si smarrisce la memoria storica, il senso della politica, il gusto della cultura, il rapporto con i problemi della società. Quando la politica comincia a morire nella glaciazione burocratica e leaderistica dei partiti personali, trasformati in aride macchine elettorali (la cui efficienza è tutta da discutere) svuotati di idee, valori, passioni.
[…] Ecco oggi mi sembra impossibile dimenticare Amendola.
Per ragioni di tempo e di spazio accenno soltanto al ruolo straordinario avuto da Giorgio Amendola nella formazione umana, morale e culturale di quanti ebbero la ventura di conoscerlo e frequentarlo. Anche in questo caso lo faccio con un ricordo personale. Il mio primo incontro con lui (un vero e proprio impatto, e che impatto!) avvenne agli inizi degli anni Cinquanta nella sede del PCI in Via Loggia dei Pisani. Era la tarda mattinata di un bel giorno di Maggio. Mi incontrò nel corridoio stretto e lungo che portava al Comitato regionale. «E tu che fai qui a quest’ora? Perché non sei a scuola?». Io frequentavo il Liceo Umberto con ottimi voti. Ma avevo lasciato gli studi per dedicarmi a tempo pieno alla politica, come tanti studenti, specie universitari, in quegli anni di ferro e di fuoco. Gonfiai il petto «Non vado più a scuola, compagno Amendola, perché lavoro per la Federazione Giovanile». Mi puntò un dito sul petto: “Tu non vai a scuola perché sei un somaro. Un somaro e uno sfaticato. Il partito e il paese non hanno bisogno di studenti falliti. Non sanno che farsene. Servono persone colte, lavoratori seri, professionisti e ricercatori validi”.
Somaro? Sfaticato? Mi sentii punto nel vivo. Proprio come voleva Amendola. E tornai a scuola.
Andrea Geremicca in La Famiglia Amendola op. cit.

Giorgio Amendola

[…] Amendola era fortemente legato alla Basilicata. Aveva guidato i comunisti lucani nelle grandi lotte per la terra, dal melfese al metapontino, culminate nell’eccidio di Montescaglioso. Nel colloquio che ebbi con lui, quando divenni segretario regionale del PCI lucano, mi rimproverò perché non conoscevo il nome del primo segretario della federazione comunista di Potenza, un partigiano inviato dal centro del partito a mettere ordine nel profondo Sud. Poi mi parlò della sua amicizia con Carlo Levi e della sua diffidenza verso la propensione di Levi e Scotellaro a mitizzare il mondo contadino lucano.
Quando gli raccontai che alla festa de l’Unità di Matera che si svolse nei Sassi, era il 1977, i vecchi compagni avevano partecipato a fatica, osservò che avevano ragione. I contadini non sarebbero mai venuti a far festa nei Sassi dove ogni pietra ricordava loro l’inferno della vita nelle grotte.
Amendola si era battuto con energia e passione per modernizzare il Sud e la Lucania.
[…] Senza il suo partito, Giorgio Amendola è impensabile. Fedelissimo al partito e al tempo stesso coraggiosamente anticipatore.
Questo fu Amendola.
A differenza di altri dirigenti del Pci, a cominciare da Togliatti, che proiettavano i destini del partito in un orizzonte temporale lungo, il tratto più caratteristico dell’atteggiamento politico di Amendola fu l’impazienza. Avvertì con drammatica urgenza la questione della prospettiva politica e della funzione di governo del Pci. Capì che il suo partito non poteva continuare ad esistere, lo disse una volta, «come un esercito che passi il suo tempo a lucidarsi i bottoni».
Di qui le sue intuizioni.
La più radicale, l’apertura di un processo di unificazione della sinistra italiana. La proposta che Amendola, dialogando con Bobbio, avanzò fu quella di un partito nuovo in cui la sinistra di ispirazione socialista potesse ritrovarsi superando le ragioni della sua storica divisione. Egli esortava con forza la sinistra a prendere atto delle sue sconfitte e della necessità di seguire strade mai battute.
Si avverte nell’Amendola del 1964 forte il fastidio verso l’ideologia dei tempi lunghi, l’assillo per il futuro di una: “organizzazione che non ha raggiunto i suoi obiettivi in un cinquantennio, con almeno tre generazioni di militanti […] che deve ricercare le ragioni di questo insuccesso e sapersi trasformare”.
Se accolta, quella proposta avrebbe potuto aprire la strada ad un diverso futuro per la sinistra italiana e per il paese.
C’è in Amendola una eccezionale capacità intuitiva che lo avrebbe portato a porre periodicamente l’esigenza di un salto in avanti, di una rottura della «bonaccia». Egli è l’unico dirigente del comunismo italiano che sembra avvertire che non essendoci più nulla da attendere, le risorse e le forze dei comunisti andrebbero apertamente usate in altro e più immediato modo.
[…] Non percepì che lo stesso radicamento del comunismo italiano aveva i suoi tratti di caducità. E tuttavia un fatto è certo: delle tesi e della cultura con cui egli venne combattuto non è rimasto granché. Non c’è veramente niente lì che possa dirci qualcosa per aiutarci ad affrontare i dilemmi e gli interrogativi che agitano la sinistra nel nuovo secolo.
Oggi, in questa Italia alle prese con problemi e sfide difficili si può rileggere Amendola come si leggono Salvemini ed Einaudi, come un classico, come una delle espressioni più acute della letteratura politica italiana del ‘900.
Umberto Ranieri in La Famiglia Amendola op. cit.

fONTE: wWw.partigianiditalia.beniculturali.iT

A vent’anni di distanza uscì un altro libro, sempre italiano seppur dal genere e dai toni diversi, che lo colpì particolarmente: in vecchiaia ricorderà Una scelta di vita, <1036 l’autobiografia di Giorgio Amendola, con commozione e stima. <1037 In esso verosimilmente Hobsbawm aveva potuto vedere messa a fuoco, attraverso il percorso individuale e familiare dell’autore, la pratica dell’antifascismo da punti di vista generazionali e politici differenti, dove comunque restava marcata la diversità sul piano morale oltre che su quello politico dei comunisti; si trattava di un libro che non a caso era stato dato alle stampe alla metà degli anni Settanta. <1038
[NOTE]
1036 Amendola, Una scelta di vita.
1037 Hobsbawm, Anni interessanti, 149.
1038 Sul boom autobiografico tra i quadri del PCI a partire dall’inizio degli anni Settanta e sul ruolo che Amendola, colui che più spingeva verso l’entrata nel governo del suo partito, vi giocò nell’interpretarle a fini politici si veda: Casellato, Giuseppe Gaddi, 164-7.
Anna Di Qual, Eric J. Hobsbawm tra marxismo britannico e comunismo italiano, Studi di storia, 14, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2020