Schiller escludeva dunque che il marco potesse diventare una sorta di moneta di riserva internazionale

Il tema atlantico non era l’unico sul quale si misurava la compatibilità degli interessi italiani con le decisioni della Repubblica Federale. Come sottolineato da Arrigo Levi nel commento sopra riportato, un’altra spiegazione che veniva data alla differenza di vedute francesi e tedesche era il permanere di culture economiche e concezioni di politica economica sostanzialmente differenti <106: l’una, quella della Repubblica Federale, orientata alla salvaguardia del libero mercato, e la seconda, quella francese, storicamente più vicina ad un approccio “dirigista” e protezionista <107. Non era solo sui quotidiani italiani che si rilevava questo aspetto <108: anche negli ambienti diplomatici si sottolineava l’apparente paradosso di un sistema «appartenente piuttosto all’economia di stato che a quella liberistica» nella «Francia autoritaria» e della posizione «liberista di un governo socialdemocratico» come era quello di Brandt <109. Da un certo punto di vista questo tipo di commenti coglieva una realtà di lungo periodo valida per ciò che riguardava l’approccio economico tedesco, idealmente rappresentato dai principi ordoliberali e da una struttura economica orientata all’esportazione. L’approdo al governo della socialdemocrazia aveva modificato l’orientamento di politica economica della Repubblica Federale solo in parte. E’ anche vero che dall’osservatorio italiano si sottovalutava quanto l’adesione a tali principi non risolvesse in toto il dibattito sulla politica economica. Nemmeno la Germania era rimasta immune, dopotutto, alle novità introdotte dal keynesismo e il problema di come affrontare le diverse fasi congiunturali non mancava di presentare la propria varietà di soluzioni ai governi tedeschi nei quali il differente “grado di fedeltà” all’ordoliberalismo da un lato e alla cultura socialdemocratica dall’altro (in termini peraltro trasversali ai partiti politici) finiva per giocare un ruolo non marginale nello strutturarsi degli equilibri interni. Già nel maggio dello stesso anno il ministro delle Finanze Möller, membro della SPD, aveva presentato le dimissioni rifiutandosi di assecondare gli aumenti di spesa pubblica contemplati per sostenere l’ampio programma di riforme previste dal governo, dopo che già il moltiplicarsi di strumenti di intervento dell’economia aveva causato un aumento nelle spese dello Stato senza precedenti <110; un’«euforia della pianificazione», come l’ha chiamata K. Dyson, che inizialmente non si spense nemmeno con il passaggio del Ministero a Karl Schiller, promotore, come abbiamo già accennato, della Legge di stabilità e crescita <111. Questo aspetto del management economico tedesco sembrava però passare completamente fuori dai radar degli osservatori italiani, a indicare la poca attenzione con cui agli inizi degli anni ’70 si guardava agli aspetti più concreti della politica economica tedesca. Uno dei pochi a farvi cenno fu Beniamino Andreatta, che in polemica con quanti criticassero «qualunque impiego politico della domanda», faceva notare che gli strumenti di domanda erano utilizzati ovunque, «persino in Germania, dove» aggiungeva però, «il livello della cultura economica non [era] eccessivamente elevato» <112.
Ad interessare gli osservatori italiani era piuttosto un terzo tema, legato agli effetti concreti che la già menzionata cultura economica produceva infine negli equilibri europei ed internazionali, quello cioè della leadership tedesca espressa attraverso la forza del marco, che i fatti candidavano a divenire moneta-guida dell’area europea. In particolare, la resistenza mossa dalla Francia alla proposta tedesca era attribuita ad una «certa logica ugonotta» <113 che respingeva tanto l’egemonia americana quanto la leadership monetaria del marco tedesco, entrambe realtà che invece nel dibattito italiano si tendevano a dare per scontate o a giudicare inevitabili. Quella dei francesi era, secondo Vittorio Zucconi, una «irriducibile e assurda pretesa»: ammesso che fosse possibile «sottrarsi alla influenza politica ed economica americana» attraverso l’avanzamento del processo di integrazione europea – ed in particolare attraverso il percorso dell’Unione economica e monetaria -, non era possibile pensare dunque la contemporanea neutralizzazione del potenziale egemonico del «colosso tedesco» <114. Sul Corriere della Sera emergevano opinioni analoghe che lasciavano trasparire una consapevolezza di fondo circa il ruolo ricoperto dalla Repubblica Federale nel percorso economico dell’Europa. La RFT era, d’altra parte, l’unico paese che nel caso di una unione monetaria avrebbe potuto sostenere le riserve altrui nel caso di ondate speculative, aspetto che ne avrebbe fatto immediatamente il «pilastro valutario della Comunità» <115. Alberto Ronchey osservava dunque come, sul piano economico, la parità tra Francia e Germania stesse venendo meno: “La Germania dei dotti romantici predicava che “il sentimento è tutto”; per la Germania dei professori d’economia, da Erhard a Schiller, “la congiuntura è tutto”. Karl Schiller rappresenta oggi la gran macchina dell’economia che gira come un motore Diesel, la Germania del marco rampante, più che fluttuante. […] Prima c’erano l’oro, la sterlina, il dollaro: così fu il sistema monetario delle passate generazioni. Oggi il marco affiora fra l’oro che ha perso la sua reputazione, la sterlina decaduta e il dollaro che subisce una crisi di super-estensione. […] La prospettiva a breve termine è che l’Europa divenga “area del marco”. Nel ’58, quando il gollismo prese il potere in Francia, un marco valeva un franco. Dopo tredici anni di grandeur e semi-grandeur francese, di guerriglia al dollaro, d’una tesaurizzazione in oro degna della quarta dinastia faraonica, oltreché d’epilessia ideologica, oggi un marco vale un franco e sessanta. Questo dice tutto; ed è questo che rappresenta Herr Schiller”. <116
Quanto questo definitivo “sorpasso” di supremazia economica della Germania sulla Francia si traducesse, o volesse tradursi, nell’espressione di una egemonia anche politica, era tema sempre aperto. In alcuni casi, soprattutto a sinistra, si vedeva nelle azioni tedesche una coerenza decisionale che lasciava intendere un preciso e deliberato disegno volto a massimizzare l’interesse nazionale tedesco, identificato, tuttavia, sempre in termini economici. Antonio Pesenti sottolineava ad esempio «l’aspirazione a raggiungere una supremazia nel mercato dei capitali» attraverso un’ulteriore espansione economica in campo mondiale che però necessitava innanzitutto del raggiungimento di una «posizione di predominio in Europa», ricercata dunque attivamente <117. L’appoggio che Bonn sembrava offrire agli Stati Uniti sul fronte monetario mirava, secondo Carlo Maria Santoro, «alla conquista di un rapporto autonomo e quasi paritario con gli USA, basato sul rafforzamento del ruolo politico tedesco-occidentale della CEE, da ottenersi attraverso il progressivo indebolimento della Francia […] ai fini di una egemonia sostanziale sul continente cui dovrebbe in qualche modo collegarsi anche la Gran Bretagna». Si trattava, in altri termini, del risvolto politico della concorrenza interimperialistica che già aveva causato la fine degli accordi di Bretton Woods e che rimetteva in discussione, secondo il politico comunista, «l’assetto tradizionale dei blocchi contrapposti» e faceva della Germania un potenziale «polo di aggregazione politica europea […] a danno della già consolidata egemonia statunitense sul vecchio continente» <118.
Si rilevava, in queste considerazioni, una valutazione ambivalente: se da un lato si riconosceva alla Repubblica Federale una leadership europea potenzialmente emancipatrice nel quadro delle relazioni transatlantiche – valutazione che seguiva la scia di quanto veniva peraltro espresso nei riguardi dell’Ostpolitik <119 – dall’altro lato permaneva un atteggiamento diffidente di lungo periodo coltivato in particolar modo dalla sinistra italiana nei confronti della Germania che non sembrava spegnersi nemmeno a fronte di un avvicinamento, per quanto ancora blando, tra il PCI e la socialdemocrazia tedesca <120. Ad ogni modo, tali ipotesi dovevano fare i conti con le dichiarazioni pubbliche dei vertici politici tedeschi, che sui quotidiani italiani trovavano peraltro largo spazio, tutte tese a rigettare con forza l’idea di una supremazia tedesca non solo in campo politico, ma persino in quello monetario, dove si voleva naturalmente evitare uno scontro frontale con gli Stati Uniti. Schiller escludeva dunque dall’orizzonte delle possibilità l’idea che il marco potesse diventare una sorta di moneta di riserva internazionale; quanto alla funzione di moneta-guida europea, il ministro tedesco giudicava l’opzione come un «fatale errore economico e politico» <121. Otmar Emminger, vicepresidente della Bundesbank, gli faceva eco dalle pagine de L’Espresso, sottolineando l’importanza che per la Germania federale ricopriva la possibilità di determinare la propria liquidità interna; perdere questo tipo di autonomia era considerata dai tedeschi una «iattura» <122.
[NOTE]
106 Su quanto il processo di integrazione europea abbia costituito un terreno di confronto di diversi approcci economici, L. Warlouzet, Governing Europe in a globalizing world. Neoliberalism and its alternatives following the 1973 Oil Crisis, Routledge, London-New York, 2018.
107 La concezione “dirigista/protezionista” francese e quella “liberista” tedesca avevano costituito motivo di confronto serrato sin dalle origini della Comunità economica europea. Un caso emblematico fu ad esempio quello del “protocollo banane”, sottoscritto durante i negoziati dei Trattati di Roma, che garantiva alla Repubblica federale accesso al mercato delle banane del Sudamerica senza il sovrapprezzo che era stato previsto per proteggere gli scambi con le ex-colonie francesi. Nelle sue memorie, Müller-Armack avrebbe specificato che l’insistenza della Germania a favore del protocollo era derivata dalla volontà tedesca di salvaguardare il principio della competizione senza distorsioni contro l’idea della “fortezza europea”. Si veda Q. Slobodian, Globalists, The end of empire and the birth of neoliberalism, Harvard University Press, Cambridge-London, 2018, pp. 192-193.
108 Vittorio Zucconi, Ciascuno sceglierà la propria via, «La Stampa», 21 agosto 1971; Cesare Zappulli, Due crisi, «Corriere della Sera», 13 settembre 1971.
109 Appunto del Consigliere Diplomatico della Vicepresidenza del Consiglio, 25.8.71, Fondo Francesco De Martino (d’ora in avanti FFDM), 1.1.4, unità 49.
110 H. Giersch, K. H. Paqué, H. Schmieding, The fading miracle, cit., pp. 162-163.
111 K. Dyson, The politics of economic management in Western Germany, in W. Paterson e G. Smith, The West German Model, Perspectives on a stable state, F. Cass, London, 1981, pp. 35-36.
112 Nino Andreatta, La politica economica del centro sinistra, s. d., AAM, b.28, f. 610.
113 Eugenio Scalfari intervista Bancor, L’Antidollaro, «L’Espresso», 29 agosto 1971. Bancor era lo pseudonimo utilizzato da Guido Carli su L’Espresso.
114 Vittorio Zucconi, Ciascuno sceglierà la propria via, «La Stampa», 21 agosto 1971.
115 «Parigi non vuole inchinarsi alla realtà dell’economia tedesca in via di continua, e meritata, espansione; guarda ad un primato del franco, e ad un legame con l’oro, che sono fuori dalla realtà».
Editoriale, Fine di due epoche, «Corriere della Sera», 22 agosto 1971; Vittorio Brunelli, Bonn si prepara a dare battaglia, «Corriere della Sera», 29 agosto 1971.
116 Alberto Ronchey, Aspettando Schiller, «La Stampa», 30 settembre 1971
117 Intervista ad Antonio Pesenti, Cosa succede e che fare, «Rinascita», n. 34, agosto, 1971.
118 Carlo Santoro, Concorrenza fra paesi imperialisti, «Rinascita», n. 36, settembre, 1971.
119 M. Di Donato, I comunisti italiani e la sinistra europea. Il PCI e i rapporti con le socialdemocrazie (1964-1984), Carocci, Roma, 2015, p. 50.
120 D. Pasquinucci, Antigermanesimo e critica dell’integrazione europea in Italia. Dal piano Schuman all’esercito europeo, in D. Pasquinucci, F. Niglia, La Germania nell’Unione europea. Stereotipi e ruolo storico, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma, 2019, pp. 13-36.
121 E. A., Il governo di Bonn favorevole a continuare le fluttuazioni, «Corriere della Sera», 6 settembre 1971.
122 Eugenio Scalfari intervista Otmar Emminger, Il diluvio non verrà, «L’Espresso», 12 settembre 1971.
Lucrezia Ranieri, L’Italia di fronte al Modell Deutschland tra crisi della Repubblica e integrazione europea. Il dibattito politico-economico negli anni Settanta, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia – Viterbo, in co-tutela di tesi con la Goethe Universitat Frankfurt am Main, Anno Accademico 2022-2023