Revisionismo, e non solo, in proposito della Resistenza

Eppure, c’è chi, come il senatore Marcello Dell’Utri (Popolo delle Libertà), dichiara che: “I libri di storia, ancora oggi condizionati dalla retorica della Resistenza, saranno revisionati se dovessimo vincere le elezioni. Questo è un tema del quale ci occuperemo con particolare attenzione” <903.
“Un’idea che non sta né in cielo né in terra”, sbotta Giovanni Sabbatucci, professore alla Sapienza, editorialista e autore di uno dei manuali con maggiore fortuna nei licei. “Che qualcuno voglia revisionare un libro di storia, o anche tutti i libri di storia, non mi spaventa. Ma che ciò sia legato al successo elettorale, è semplicemente inquietante. Se non allucinante” <904.
A Dell’Utri risponde anche Franco Cardini: “Ma poi chi la farebbe, questa revisione? Incarichiamo Ignazio La Russa? Già, perché di sicuro non andranno bene nemmeno gli aborriti professori universitari, i quali, orrore, sono di sinistra. Massì, e lo dico io che non sono di quell’area, facciamo a meno di Prosperi o di Desideri… Ma se non ci fidiamo degli storici, la storia potremmo sempre farla riscrivere a qualche giornalista di bella penna. L’idea stessa di fare una commissione per riscrivere i libri di storia mi sembra un salto all’indietro, un ritorno al “libro di Stato” del fascismo. E guardi che all’epoca c’erano valenti studiosi, che naturalmente sottostavano alle veline del ministero”. Va bene: un’idea sbagliata. Ma sarebbe possibile? “Oggi la produzione di libri è materia di libera scelta. C’è il mercato. Di qualche manuale si può dire che è invecchiato o fatto male. Ma alla fine sono i professori che scelgono. E sa, c’è la libertà d’insegnamento”. <905
Quella che sembra una provocazione, diventa, dopo qualche tempo, e dopo il successo elettorale ottenuto dal Popolo delle Libertà, una Indicazione ministeriale che suscita immediate reazioni e proteste: “La Resistenza non c’è. La si cerca invano nel programma di storia per l’ultimo anno dei licei. Ecco il fascismo. Poi la crisi del ’29 e le sue conseguenze nel mondo. Il nazismo. La shoah e gli altri genocidi del XX secolo. La seconda guerra mondiale. Ecco, forse arriva ora la guerra partigiana. No, a seguire c’è la guerra fredda, il confronto ideologico tra democrazia e comunismo. Ed ancora, l’Onu. Siamo troppo avanti, bisogna tornare alla riga precedente: ma dov’è la Resistenza? Non si vede. Si prova a domandarlo al consigliere del ministro Gelmini, Max Bruschi, che reagisce: «Ma non ha letto qui, dopo la voce Onu? È ben esplicitato: Formazione e tappe dell’Italia Repubblicana. Naturalmente è sottintesa la Resistenza. L’abbiamo inclusa senza citarla tra i capitoli fondativi della storia repubblicana. È un modo per rafforzarla, no?”. […] Scusi l’insistenza, dottor Bruschi, ma se è “un momento significativo della storia d’Italia” perché non nominarla esplicitamente nel programma scolastico? “Forse che indichiamo esplicitamente la prima guerra d’indipendenza quando si parla di Risorgimento?”. Ma le sembra un paragone appropriato? Stiamo parlando di un passaggio fondamentale dell’Italia democratica che è stato oggetto nell’ultimo quindicennio di un tentativo storico-politico di liquidazione: quando avete steso il programma, ve ne siete dimenticati? “Eh, ma quanta suscettibilità. Noi non volevano urtare la sensibilità di nessuno. Ripeto: nessuna esclusione ideologica. Se è un problema, non abbiamo alcuna difficoltà a indicare esplicitamente la Resistenza nei programmi scolastici. Per noi era scontato. Sarebbe come insegnare la matematica senza le tabelline”. Ovvio, no?” <906
La decisione ministeriale registra anche qualche adesione.
[…] “I conti con Mussolini sembrano non chiudersi mai. Non tanto sul piano storiografico, dove l’imponente biografia defeliciana (otto densi volumi, pubblicati tra il 1965 e il 1997) rappresenta un ineludibile riferimento per ulteriori ricerche, quanto sul piano della divulgazione giornalistica e televisiva. Su una parte della stampa d’opinione e sul web, infatti, il dittatore tiene banco con interpretazioni benevole e commenti agiografici. […] I tratti fondamentali della vulgata buonista che oggi va per la maggiore sono stati elaborati nel primo quindicennio del dopoguerra, con alcuni fortunati volumi e una dovizia di articoli su periodici popolari” <919.
I principali autori di questa “vulgata” sono soprattutto due giornalisti famosi, già aderenti al fascismo: Indro Montanelli <920 e Paolo Monelli <921.
“L’autoassoluzione del Mussolini buonuomo non è soltanto il frutto di un animo generoso e incline al perdono, ma – e qui entra in gioco il vissuto di Montanelli – rappresenta l’autoassoluzione dell’entourage del dittatore: dai gerarchi che in buona fede avevano costruito il piedistallo al duce sino ai milioni di italiani sedotti dall‟uomo di Predappio” <922.
[NOTE]
903 Francesco Grignetti, Dell’Utri: via dai libri di scuola la retorica della Resistenza, La Stampa.it, 9 aprile 2008.
904 Ivi
905 Idem
906 Simonetta Fiori, La “Resistenza” c’è ma non si vede. E la parola scompare dai licei, “la Repubblica”, 31 marzo 2010.
919 Mimmo Franzinelli, Mussolini revisionato e pronto per l’uso, in La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, a cura di Angelo del Boca, Neri Pozza, Vicenza 2009, pp.305 e 307.
920 Quinto Navarra [Indro Montanelli], Memorie del cameriere di Mussolini, Longanesi, Milano 1946; Indro Montanelli, Il buonuomo Mussolini, Edizioni riunite, Milano 1947. Su questi libri e sull’operazione compiuta da Montanelli, vedi Sergio Luzzatto, Il corpo del duce, cit.
921 Paolo Monelli, Mussolini piccolo borghese, Garzanti, Milano 1950
922 Mimmo Franzinelli, Mussolini revisionato e pronto per l’uso, cit., pp.209-210.
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

Il caso italiano ruota tutto intorno ad un oggetto ben specifico: la riabilitazione della memoria della destra, cresciuta attorno al rancore per un tradimento subito e sempre più orgogliosa della propria specificità storica. Ma il problema non si limita a quanto appena detto. Contemporaneamente la riabilitazione si è sempre più trasformata nell’esigenza di legittimazione ed allora il discorso dal campo scientifico si è spostato in quello mediatico, perché stavolta il nodo cruciale è rappresentato dalla imprescindibilità del consenso, che solo il battage mediatico quotidiano può assicurare. A questo punto il passo dalla revisione storiografica al revisionismo politico è diventato breve.
L’ansia di fuoriuscire dall’angolo morto dentro il quale era stata cacciata la memoria saloina si è nutrita di poderose opere di chi storico di professione non è, ma che nonostante questo ha deciso di rendere un prezioso omaggio alla propria nazione decidendo di scrivere quello che era successo dopo il 25 aprile. Il caso in questione è il libro di Pansa, ‘Il sangue dei vinti’, che usando come strumenti di critica storica la vasta letteratura e memorialistica saloina, ha deciso di dare alle stampe il suo ‘Il sangue dei vinti’, un libro dove vengono raccontati, da sinistra, tutti gli eccidi compiuti dai partigiani dopo il 25 aprile del 1945. “Dopo tante pagine scritte, anche da me, sulla Resistenza e sulle atrocità compiute dai tedeschi e dai repubblichini, mi è sembrato giusto far vedere l’altra faccia della medaglia. Ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale italiana” <87. Dopo aver speso tanto tempo a raccontare la Resistenza italiana, Pansa decide di dare voce anche all’atra faccia della medaglia. Quella di Pansa vuole essere un’operazione di equanimità verso i vinti concorrendo ad una demitizzazione della Resistenza attraverso la scoperta che i cattivi sono da tutte e due le parti. Se per decenni Pisanò come Serena erano stati poco ascoltati perché la loro matrice non era certo garanzia di obiettività, Pansa, di contro, all’opposto fornisce tutte le garanzia di serietà professionale. Puntare le lenti della ricerca sulla violenza della Resistenza è spesso un modo di fare i conti, in maniera trasversale, con una lotta di Liberazione decontestualizzata, dove emergono solo la violenza e la mancata pietas per il nemico, tutto questo porta lontano dal senso profondo di quei giorni, ovvero la capacità di sviluppo in senso democratico che ha avuto la Resistenza. Il tono scandalistico che ha accompagnato i lanci del libro, come pure il tono incalzante della scrittura dell’autore non sono soltanto la cifra del discorso proposto, ma rappresentano, in maniera più ampia, un comune sentito dire, dove non si sa mai né chi ha detto, né chi ha sentito, ma dove basta poco, veramente molto poco per far diventare affermazioni affastellate, verità storiche incontrovertibili. Come dire la violenza esercitata dai nazifascisti è tollerabile, perché cattivi, quella compiuta dai partigiani no, loro sono buoni, non possono uccidere. Lo ha più volte ricordato Rosario Bentivegna e molti altri partigiani, la guerra di liberazione è stata una guerra e in quanto tale le armi erano fatte per uccidere, non solo per difendersi ma soprattutto per cacciare foss’anche uccidendolo il nemico. Lo stupore per le affermazioni di Pansa, e soprattutto per la poca robustezza della base storiografica su cui poggiano le sue teorie, hanno comunque fornito un terreno di scontro alla destra italiana particolarmente pericoloso, poiché adesso abituati alle comode poltrone governative, e dopo avere apparentemente fatto i conti con il loro passato, gli esponenti della destra italiana guardano a quanti hanno ancora il coraggio di sostenere il significato della Resistenza, anche nelle sue inclinazione meno nobili, come coloro che non hanno più nulla di cui pentirsi. Nessuna differenza quindi, tutti siamo uguali nel peccato e nella gloria. Cosa rimane se non riappacificarsi per trattare il passato come tale, e sulla base di questa riconciliazione guardare al futuro sull’ottica di una ritrovata identità nazionale? Operazioni altrettanto pericolose sono state condotte da due noti storici italiani di cui tante volte abbiamo già discusso. Il primo, Ernesto Galli della Loggia, che con il suo ‘La morte della patria’ ha segnato un momento particolarmente alto della polemica sulla fine dell’identità italiana dopo l’8 settembre del 1943. Il secondo, Renzo De Felice, autore della monumentale biografia mussoliniana, ha dato il via ad un’opera che se inizialmente è stata di revisione, sul fascismo, è finita per apparire l’opera più importante di revisionismo storicopolitico della storiografia italiana. Ma se la polemica fosse stata confinata al purgatorio accademico, sicuramente oggi solamente gli addetti ai lavori discetterebbero di zona grigia. Invece questi termini sono entrati nel gergo televisivo con la forza dirompente che solamente il rimbalzamento da un’emittente ad un’altra, da un programma di approfondimento ad un altro consente, tutto ciò accompagnato dall’imprimatur dell’agenda politica, che spesse volte si è servita di questi concetti al fine di risolvere ingarbugliate situazioni. Il problema è ora capire fino a che punto è la politica vittima dell’uso pubblico della storia e quanto è la politica, nella fattispecie, i partiti a fare uso pubblico della storia.
La questione sicuramente è molto complicata, basta pensare alla propaganda interna che da sempre si è servita di autentiche operazioni di ups, ma possiamo sicuramente con forza affermare che l’impellente necessità di fuoriuscire dalla zona grigia della cultura italiana, ha fatto sì che i partiti della destra italiana, hanno tanto inventato le proprie forme identificative, vedi la Lega, quanto prodotto e cavalcato forme storpie di storiografia, spingendo verso figure accentuate di revisionismo storico.
In Italia sicuramente non mancano le occasioni per capire quanta sia grande l’ignoranza su alcuni fatti, che di colpo ci vediamo catapultati sulle prime pagine dei più importanti quotidiani, rispettando le opportune ricorrenze <88. È chiaro come sia necessaria una profonda revisione dello statuto epistemologico e professionali di due mestieri, lo storico e il giornalista, che a causa dell’accentuato ipertrofismo del passato, si trovano spesso a configgere su materia di relativa competenza. Le differenze di metodo e contenuto ne plasmano la successiva incomunicabilità. Questa riflessione risulta necessaria al fine di evitare dannose polemiche, anche se dai toni garbati, come quella scaturita fra Bruno Vespa e Rosario Bentivegna. L’occasione è stata data da uno strafalcione, non l’unico, di Vespa che in ‘Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi’ continua a parlare dei gappisti romani come dei terroristi e vigliacchi. Bentivegna con la forza e le argomentazioni di chi in via Rasella c’era e non si è mai pentito di esserci, invita il dott. Vespa a trattare con più ordine i fatti, invitandolo magari a leggere il meraviglioso libro di Alessandro Portelli che su quei fatti, servendosi di fonti orali, aveva definitivamente smentito la versione di destra della memoria comunitaria. Per cui nonostante l’avviso di presentarsi, nessun partigiano ebbe il coraggio di farlo lasciando la mano al carnefice tedesco. L’avviso non ci fu mai, ma di questo Vespa non si era mai accorto, almeno fino alle precisazioni di Bentivegna. A questo punto è facile capire come la distorsione, la mistificazione, indica il grado di consolidamento dell’incultura che gravita su una comunità. Tutto questo alimenta ancora lo stato di confusione morale sulla vicenda italiana, con una destra che sembra non volersi rassegnare al ruolo che loro stessi si sono ritagliati, in cambio la verità vacilla quotidianamente sotto i colpi dell’untore di turno.
Se portiamo il discorso in profondità, e non è difficile farlo, ci rendiamo conto che l’obiettivo ultimo di tutta questa polemica ruota in torno alla possibilità di riconciliare un paese riscrivendo la Costituzione. L’operazione da destra è magistrale, avendo acquisito la dignità politica, dopo Fiuggi, a governare, e quella culturale secondo quanto viene spesso scritto sulla Resistenza, l’obiettivo, quello più importane è adesso cancellare l’ordinamento costituzionale che dalla Resistenza, che di certo non appartiene alla destra, è nato.
In conclusione vorremmo tornare su un punto prima accennato, cioè il rapporto fra la politica la memoria e l’ups. Per chiarire questo nodo, evitando che i cappi diventino lacci del procedere logico del nostro discorso, basti rileggere gli ultimi discorsi pronunciati dal presidente della Repubblica Ciampi in occasione delle giornate commemorative della lotta di Liberazione, e le relative polemiche che ne sono seguite sui quotidiani nazionali. La polemica, anche se con toni garbati, è forte fra il Presidente della Repubblica e Ernesto Galli della Loggia. Se il primo rivendica come testimone e come carica istituzionale la forza della Resistenza e della conseguente rinascita di una patria democratica e solidale, lo storico difficilmente lascia il passo al politico ed anzi – come dice Eugenio Scalfari – lo bacchetta rispettosamente. Ad ogni presa di posizione pubblica di un’alta carica dello stato, nei confronti dei «teorici della morte della patria», immediatamente dopo sul giornale di via Solferino spunta una replica, quasi a ricordare che la memoria della Resistenza ormai non può più fare a meno di confrontarsi con l’altra memoria, diventata nell’ultimo decennio la memoria della riabilitazione di una parte politica. I nodi così vengono al pettine, la politica dipende nelle sue argomentazioni giustificative e consolatorie, quelle che producono consenso, dall’uso che della memoria storica la stessa ne fa. Così non c’è da stupirsi se a Ciampi si contrappone Galli della Loggia, entrambi ribadiscono sul palcoscenico del dibattito mediatico le ragioni contrapposte di appartenenze contrapposte.
[…] Con fare da vestale la nuova dirigenza politica di destra, sotto il canone del consolatorio patriottismo, volge spesso il suo sguardo verso il passato, cercando di fasciare con il tricolore ogni divisione traumatica compiutasi durante i venticinque mesi del ’43-’45, ignorando che quel periodo ha introdotto gli italiani nella repubblica ma attraverso appartenenze separate, piuttosto che attraverso un canale unitario. Assistiamo così ad una nuova fase dove la cancellazione del passato e l’ipertrofia dei riferimenti storici stanno tranquillamente vicino, come ad ignorare la lezione fornitaci dagli storici della prima guerra mondiale: la guerra è uno spartiacque che attiva un abito mentale dicotomico permanente, rileggendo la vita quotidiana secondo le appartenenze ideologiche e valoriali che proprio dall’esercizio della guerra sono scaurite. Il significato profondo di questa operazione condotta, nell’ultimo quindicennio, dagli assertori del verbo post-fascista, segna il limes fra il relativismo politico e morale e le solide basi democratiche sulle quali è nata la nostra repubblica. Ad avere la meglio in questo calderone indistinto che galleggia fra una memoria divisa e un eccessivo uso pubblico della storia, è stata l’antipolitica come forma metastorica di una condivisione identitaria debole nella pars destruens, inesistente nella parts costruens. Come dire che fascisti e antifascisti, rossi e neri tutti quanti hanno pagato il prezzo della loro inutile contrapposizione novecentesca.
Le posizioni in campo, però negli ultimi anni, si sono diversificate e all’anticomunismo e all’antifascismo si è affiancato il terzismo, equidistante dai due totalitarismi del Novecento, ma da non confondersi con il qualunquismo. Il terzismo – come ammette Sergio Luzzatto – è ammissione di responsabilità rispetto al duplice disastro novecentesco. Ma nella versione scadente a cui ci ha abituato tanto la carta stampata, quanto il piccolo schermo, il terzismo si è tramutato nell’ideologia di un colpo al cerchio ed uno alla botte, nessuna presa di posizione scandita, ma semplicemente esercizio intellettuale di comodo per non scontentare nessuno, ormai l’alternanza di governo è un fatto assodato.
Il culmine di questo nuovo indirizzo cultuale e politico è rappresentato nell’attacco furibondo alla costituzione italiana. A questa ammissione di colpa non si sono tirati indietro neanche i post-comunisti, che all’indomani della crisi del sistema partitico hanno anche loro aperto le porte al dibattito per la riforma costituzionale.
[…] Il primo baluardo antifascista, inizia così lo scorso decennio accettando la possibilità di una revisione della carta costituzionale che dalla Resistenza era nata e che i partiti della Repubblica avevano ampliato nelle sue funzioni esecutive. Da quel momento in poi l’argine culturale era stato definitivamente infranto per primi da quelli che fino a qualche anno prima ne avevano difeso l’incorruttibilità. I post fascisti edulcorati i temi della propaganda e mutata la dialettica nazionalista si apprestano ad avanzare con più forza e più vigore l’esigenza di una revisione dei testi scolastici e della costituzione. Come per far dimenticate quanto era successo sino a quel momento, con l’obiettivo di riunificate la memoria nazionale sotto un termine vecchio ma rinnovato nel significato. La patria viene adesso proposta, davanti alla necessità di una ridefinizione del canone nazionale all’interno dei processi di globalizzazione mondiale, come il paravento per una nazione che mai è stata profondamente antifascista, ma che alle soglie del duemila si scopre ancora profondamente anticomunista. A questo punto il prezzo da pagare per una memoria condivisa è quello di una smemoratezza patteggiata.
[NOTE]
87 Intervista da «Repubblica», 10 ottobre 2003 a cura di Simonetta Fiori, riportata anche da F. Focardi in La guerra della memoria, cit., p. 305.
88 R. Bentivegna, La storia mistificata. Carteggio con Bruno Vespa, cit.
Lina Severino e Gabriele Licciardi, Narrazione egemonica, uso pubblico della storia e «memorie resistenti», Academia.edu

Sul significato del 25 aprile si è acceso, negli anni, uno scontro politico che ha contrapposto chi non ha mai riconosciuto la legittimità di quella data (e di quell’avvenimento) <890 e chi, invece, ha ritenuto che fosse l’atto fondativo della Repubblica, nata dalla Resistenza <891. Non bisogna pensare, tuttavia, a una contrapposizione schematica, riconducibile a due schieramenti predominanti e omogenei al proprio interno. La stessa celebrazione della Resistenza ha assunto caratteri diversi <892, così come, d’altra parte, diverse sono state le componenti che hanno caratterizzato la lotta di liberazione e come, infine, diverse sono le memorie <893. Questo scontro ha coinvolto anche storici, scrittori, giornalisti, intellettuali, registi, forze sociali, attraverso una discussione che in alcuni casi è stata anche accesa ma contenuta; in altri, invece, ha assunto i caratteri della contrapposizione ruvida e astiosa <894.
[NOTE]
890 Giorgio Almirante, Non è festa, “Il Secolo d’Italia”, 24 aprile 1955, in Filippo Focardi, La guerra dellamemoria, cit., pp.164-167; L’Italia ha detto no alla festa del decennale, Comunicato della Presidenza Nazionale Federazione Combattenti Repubblicani, “Il Secolo d’Italia”, 27 aprile 1955, in ivi, pp.167-168. Per cogliere, all’interno dello stesso schieramento, una diversità di atteggiamenti e di sfumature, vedi anche: Franz Maria D’Asaro, Venticinque aprile, “Il Secolo d’Italia”, 25 aprile 1975, ivi, pp.229-231; Fini: il mio 25 aprile? Antitotalitario, Paolo Franchi, “Corriere della sera”, 23 aprile 1994. Intervista a Gianfranco Fini, ivi, pp.265-267.
891 Uniti contro il fascismo, “Avanti!”, 25 aprile 1948, in ivi, pp.138-139; Enrico Berlinguer, La Resistenza oggi, “l’Unità”, 25 aprile 1965, ivi, pp.184-186; Leo Valiani, Festa di concordia, “Corriere della sera”, 25 aprile 1994, ivi, pp.268-270; Norberto Bobbio, Democratici e no, “La Stampa”, 25 aprile 1994, ivi, pp.270-272; Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a Ascoli, il 25 aprile 2002, ivi, pp.340-342.
892 Il modo migliore di servire il paese. “Il Popolo”, 24 aprile 1949. Discorso di Alcide De Gasperi a Milano il 23 aprile 1949, in ivi, pp.144-145.
893 “Sarebbe bene non parlare di “memorie condivise”. Le memorie sono storicamente divise, ed è un bene che lo siano; ogni memoria ufficiale è l’imbalsamazione dei ricordi, l’azzeramento della loro soggettività, la plumbea anticamera del pensiero unico. Può esserci invece una storia collettiva, momenti di cui è possibile riconoscere una storia di tutti; ma allora questa va ricercata dove la ricerca colloca questi momenti, nella loro realtà non nell’artificio istituzionale”, Giovanni De Luna, Il senso di una celebrazione, in Treccani scuola, Dossier “I sessant’anni della Liberazione” (www.treccani.it)
894 La insostenibilità di alcune posizioni non deve indurre a sottovalutare l’impatto che una “critica” della Resistenza può avere su un “pubblico” non sempre attrezzato da un punto di vista storiografico. D’altra parte, certe affermazioni meriterebbero una maggiore attenzione anche per cogliere lo “spirito del tempo” e per poter misurare la distanza che ci separa da quegli avvenimenti e dal diverso modo di affrontarli. Al di là del “fenomeno Pansa”, che dire di altre pubblicazioni che non hanno avuto lo stesso clamore mediatico ma hanno comunque richiamato l‟attenzione? Un caso singolare (uno dei tanti) è il libro di Romolo Gobbi, Il mito della Resistenza, Rizzoli, Milano 1992, recensito da Vittorio Messori su Avvenire: “[…] Si tratta di uno storico torinese , Romolo Gobbi, che, non appartenendo alla “nuova generazione” (ha 55 anni) ha un preciso passato alle sue spalle. E’ stato, infatti, ideologo tra i più fanatizzati del Movimento sessantottardo: uno che dava del “fascista” a tutti quelli che non erano comunisti “alla albanese” o “alla cinese”, uno che ha fatto parte della redazione di riviste dal nome sinistro (è il caso di dirlo…) per chi ha vissuto quegli anni come ‘Quaderni rossi’ e ‘Classe operaia’. Ebbene, proprio questo Gobbi già gruppettaro, il suo pamphlet rizzoliano lo ha intitolato ‘Il mito della Resistenza’. La tesi, per dirla subito, è così riassunta: “tutti i popoli hanno bisogno di miti. Nel dopoguerra l’Italia ufficiale ha dato corpo al mito della Resistenza per ricostruire un’identità nazionale e per assolvere i suoi cittadini dalla colpa di essere stati in larghissima maggioranza fascisti e di essere scesi in guerra al fianco della Germania hitleriana”. Continua, implacabile, questo “pentito”: il “mito della Resistenza e dell’unità antifascista è durato sino al crollo del comunismo e, con l’invenzione dell’arco costituzionale, ha impedito il formarsi di una corretta dialettica tra maggioranza e opposizione”. In poco più di 100 pagine, ma dense di documentazione storica, Gobbi smonta uno per uno gli elementi del “mito” ormai cinquantennale. In realtà, si sapeva bene (ma si osava soltanto sussurrarlo) che compito principale dei ben 60 “Istituti per la storia della guerra di liberazione” non era stabilire come fossero andate le cose; ma, al contrario, rafforzare una leggenda lucrosa per tanti (e soprattutto per i comunisti); e, spesso, far sparire o manipolare documenti compromettenti. Così, già il comunista “duro e puro” Romolo Gobbi ci mostra che gli scioperi nelle fabbriche del Nord, esaltati da sempre dai cantastorie della sinistra come manifestazioni della ferrea volontà antifascista della classe operaia, non furono in realtà politici, ma salariali, determinati non dalla ideologia ma dalla ben più concreta fame. Ci mostra, il nostro, quanto pochi siano stati coloro che si diedero alla macchia per motivazioni ideali: in gran maggioranza furono giovani che cercavano soltanto un nascondiglio per sfuggire ai bandi di leva della Repubblica di Salò. Così, se Mussolini fosse stato più avveduto e avesse fatto appello ai volontari, astenendosi dalla leva di massa, avrebbe quasi svuotato le montagne dei giovani che vi erano saliti più per celarsi che per combattere. Stando sempre all’impietosa ricostruzione di Gobbi, se scarso e non di massa (come hanno voluto farci credere i comunisti) fu l’apporto della classe operaia alla resistenza, quasi nullo fu l’appoggio dei contadini. Checché ne dicano le storie oleografiche, nelle campagne i partigiani furono visti con diffidenza e paura: depredavano provviste e raccolti, consegnando in cambio ricevute senza valore e, in più, attiravano su paesi e cascine rappresaglie che colpivano poi soltanto gli inermi e gli innocenti, mentre gli “eroi” se la davano a gambe lasciando agli altri il salatissimo conto da pagare. Addirittura, si ricorda che i pochi contadini che entrarono nelle bande partigiane lo fecero quasi sempre per cercare di proteggere i parenti dai saccheggi dei “patrioti” con un fazzoletto rosso al collo. Ma proprio nulla lascia in piedi il Gobbi. Qualcuno aveva già cominciato ad ammettere che, sul piano militare, la Resistenza fu ben poca cosa; e, fosse stato per i partigiani, i tedeschi sarebbero ancora sugli Appennini. Ma almeno, si diceva, il ruolo positivo della Resistenza si manifestò alla fine, quando l’insurrezione popolare del 25 aprile salvò gli impianti industriali dalla distruzione dei nazisti in ritirata. Io stesso, lo ammetto, cresciuto nelle scuole e poi negli ambienti editoriali e giornalistici della Torino “di Gramsci e di Gobetti” (come si diceva quasi parlando dei santi Cirillo e Metodio, Cosma e Damiano) avevo creduto in un qualche ruolo partigiano nella salvaguardia delle fabbriche. Il guaio è che – come ‘Il mito della Resistenza’ amaramente ci rivela – sinora gli “storici” (non dimentichiamo i 60 istituti ad hoc!) ci avevano nascosto che il generale delle SS Karl Wolff, plenipotenziario militare tedesco in Italia, l’8 marzo del 1945 si incontrò a Zurigo con Allen Dulles, capo del servizio segreto americano, e concordò con lui la resa delle truppe in Italia. Come prova di buona volontà, il 6 aprile “Wolf comunicò a tutti i comandi tedeschi che sarebbero stati responsabili di ogni danno alle fabbriche, alle istallazioni industriali, alle infrastrutture italiane”. A che servì dunque la mitica “insurrezione” del 25 aprile, visto che i nazisti se ne andarono da soli o si arresero senza fare danni? Servì, risponde Gobbi, “ai partiti del Cln per spartirsi le cariche pubbliche prima dell’arrivo degli Alleati: così a Torino il sindaco toccò ai comunisti, il prefetto ai socialisti, il questore agli azionisti e il presidente della provincia ai democristiani”. Così, mentre dei guai finivano, altri ne cominciavano, come oggi ben sappiamo”, Vittorio Messori, La fine di un tabù (titolo redazionale), “Avvenire”, 22 novembre 1992.
Antonio Gioia, Op. cit.