Quel comunista triestino che attraversò il secolo breve

Vittorio Vidali, Missione a Berlino, Milano, Vangelista, 1978, pp. 155, lire 3.300.
Poco a poco il quadro dell’esistenza di Vittorio Vidali si ricompone, esce dallo schema tradizionalmente mitico di una concezione sopravvissuta per anni e va assumendo contorni se non precisi, tuttavia meglio definiti, e il mosaico di una vita tende a ricomporsi. Non tutte le tessere sono ancora al loro posto, chiazze di fondo grezzo sono ancora visibili, non soltanto perché il protagonista deve ancora completare l’autobiografia, ma anche perché c’è una discontinuità di racconto, laddove l’autore ha messo mano alle sue memorie, per cui ancora più evidenti appaiono le chiazze di intonaco non coperte dalle tessere del mosaico.
Missione a Berlino non sfugge a questa impressione e forse qui parlarne è solo pretesto per una più ampia considerazione su tutto quanto di autobiografico è comparso finora presso l’editore Vangelista che certo è, oltre che un amico, un affettuoso pungolo alla fatica dell’autore.
Vidali, dopo anni di milizia, non ancora del tutto a riposo, sta in questi anni alacremente scrivendo di se stesso. Ma dire di « se stesso » è usare un termine o un’immagine impropri, perché non c’è mai l’elemento di contrapposizione fra il protagonista e gli avvenimenti, tra l’attore e il palcoscenico della storia su cui opera.
Sembra vi sia quasi riluttanza a parlare di sé, a indicare il ruolo personale, il fatto legato alla propria persona. Semmai vengono posti al centro dell’attenzione la riflessione sulle cose, la valutazione dei fatti, il confronto con gli avvenimenti, lasciando al lettore il giudizio sul ruolo del protagonista.
È così anche per cinque episodi di Missione a Berlino; che raccontano alcune vicende degli anni venti e trenta. Nell’episodio che dà il titolo al libro Vidali è inviato a Berlino per una missione che inizia sotto il segno dell’ambiguità già a Mosca. I personaggi che deve cercare di sottrarre alla Gestapo sono in realtà già segnati ed egli stesso, se non fosse quel combattente di razza che è, rischierebbe di essere coinvolto in un tranello. Se si salva, se si sottrae a un destino che sembra designarlo come vittima predestinata non è tanto per il fiuto che lo contraddistingue e lo aiuta, ma perché ha già dietro le spalle un pesante fardello di esperienze e di prudenze costruite e affinate nella lotta contro il fascismo italiano.
E tuttavia sorge una curiosa domanda per questo e altri capitoli dei suoi scritti: perché Vidali ci racconta questa storia, un episodio fra i tanti della sua milizia, un avvenimento di non grande rilievo a confronto con le imprese epiche di Spagna, ad esempio? E in quanti altri casi ci sono nate le stesse domande, ci si è chiesti il perché di talune annotazioni, di talune pagine, di certi racconti? Una volta ancora, quindi, leggendo Vidali, si ha l’impressione (ma perché non dire anche la certezza?) che le pagine oggetto della lettura trascendono i fatti, diventano elementi di una più vasta e generale considerazione sul personaggio.
Andranno forse rilette alcune riflessioni che Claudio Magris esprimeva su un quotidiano, tempo fa, relativamente al dato umano del personaggio, proprio per Missione a Berlino. Nemmeno per Magris il dato immediato di lettura degli episodi autobiografici sono l’elemento immanente e permanente dello sforzo di Vidali. C’è un segno più interiore in tutto questo che va colto con qualche sforzo concentrando su più piani la lettura, stratificando i significati del singolo episodio: una lettura fine a se stessa di puro racconto, di ricostruzione a posteriori di un fatto; un giudizio intrinseco all’avvenimento con tutte le sue implicazioni dialetticamente critiche; una attualizzazione del discorso che vuol essere il vero motivo della rievocazione riportata alla luce del presente come contributo diretto, immediato, contingente e attinente alla categoria del politico.
Citeremo un passo, il più scoperto che ci viene alla mano, ma che è chiave di lettura per altri meno evidenti, meno appariscenti, più sfumati e variegati pur senza essere geroglifici.
Vidali correndo su un treno verso Mosca ricorda un arresto avvenuto a Trieste nel Capodanno del 1918 per aver salutato l’anno nuovo con un « Viva la rivoluzione russa! Viva Lenin! ».
« Scrivendo queste righe – egli annota in Missione a Berlino (p. 132) – e ricordando la nostra gioventù spesa al servizio di una causa giusta e vittoriosa, penso ai tanti giovani che oggi guardano al presente e al futuro come di fronte a una girandola di trampolini, dai quali saltare per arrivare sempre più in alto, verso la cima dell’albero della cuccagna, senza riguardo a ideali e sentimenti. Penso ai ‘nuovi filosofi’ che assomigliano a quelle scimmiette che si depongono la cacca nelle zampette per gettarla sui passanti: soddisfatti di sfogare la loro frustrazione intellettuale, la loro gioventù bruciata, le loro delusioni da superuomini e la loro rabbia nichilista contro tutto e contro tutti». Al contrario, Vidali dice, con Paul Vaillant-Couturier, che « se in periodi di tempesta la coscienza di un comunista si ribella, che egli gridi la verità a qualunque prezzo. Perché la verità è fatta di troppe cose che si devono compiere senza entusiasmo per non votarsi, anima e corpo a quella che si crede essere la verità ».
In un giudizio critico che colpisce a destra e a sinistra e in quello che potrebbe essere definito anche come un epigramma, c’è la lezione di Vidali, il suo più o meno scoperto desiderio di parlare non da storico o da biografo, non da memorialista o in sede confessionale, ma da militante che continua a sentirsi in trincea, che non demorde dall’esprimere giudizi e quindi dalla presenza, anche fisica, al posto di lotta.
Ma non si fraintenda: Vidali, se quanto si è detto rappresenta un’ipotesi che in qualche modo può trovare una conferma, non ricorre ad un mezzo strumentale, non intende piegare l’episodio e l’esperienza storica a principio di polemica politica; semmai individua nell’episodio e nell’avvenimento una significazione e un contenuto che sono in diretto collegamento con precisi elementi di attualità, che possono in qualche modo essere ripensati e rivisitati come storia del presente più immediato.
In sostanza una lezione storica, da non disperdere, da non sottovalutare, da non subordinare a certe forme di infelice pragmatismo politico. La storia, in sostanza si trasforma in elemento di stringente attualità.
Insomma il « presente come storia ».
Eppure questo scrivere autobiografico, questo raccontare una propria storia giustamente caricata di significati più generali finisce per non accontentare più. Perché financo lo storico si perde nei meandri dei ricordi che ritornano, delle esperienze che si rincorrono, degli abbozzi che si ritrovano in più quadri. Risulta spesso difficile ricomporre il dipinto riconducendo riflessioni e avvenimenti ad un unico nucleo tematico arricchito di tutti i particolari necessari, dispersi in questo o in quel libro, a volte anche in scritti occasionali, certamente non inferiori a quelli più lungamente meditati e pensati.
Perché troppo spesso in un libro si ritrovano momenti non solo tematicamente disomogenei, ma persino temporalmente non unitari.
Anche in Missione a Berlino ricorre questo caso.
Soltanto Vidali potrà ricondurre, d’altra parte, ad un disegno unitario le sue meditazioni sul XX congresso, o sulla Spagna, o sul Messico, o sulla battaglia contro il browderismo, o i pensieri sparsi del Giornale di bordo o di Dal Messico a Murmansk, o le pagine per Tina Modotti o le affettuose e ammirate riflessioni su Giordano Pratolongo.
Nessun biografo potrà, per quanto ammirato e distaccato insieme, ricomporre una figura cristallina e complessa come quella di Vidali, se non Vidali stesso. Ora Vidali deve rendere ancora un importante servizio al movimento operaio di cui è stato uno degli esponenti più prestigiosi e ricchi di carica internazionalista, non lasciare nulla nell’ombra, ricomporre e completare lo sparso bagaglio autobiografico per quanto questo sforzo gli possa costare altre ferite e lacerazioni. Sono in sostanza le stesse ferite e lacerazioni del movimento operaio internazionale con il quale, per tanta parte, Vidali si identifica.
Adolfo Scalpelli, Vittorio Vidali, Missione a Berlino, Recensioni, Italia contemporanea n. 131, 1978, Rete Parri

Introduce Anna Di Giantonio che dialoga con l’autore Patrick Karlsen
Nato nel 1900 e formatosi nella Trieste post-imperiale del primo dopoguerra, Vittorio Vidali è stato un rivoluzionario e dirigente del movimento comunista internazionale, la cui pluridecennale militanza è passata attraverso momenti e scenari di capitale importanza nella travagliata storia della prima metà del Novecento. La periodizzazione scelta, dal 1916 al 1956, è legata allo stalinismo di Vidali: inteso sia come quel complesso di principi, norme e pratiche in vigore nell’Unione Sovietica e nel Comintern nel periodo in cui Stalin fu al potere, quale approdo soggettivo di un percorso di vita e di formazione politico-culturale. Ciò perché il comunismo è inteso sia nella sua dimensione di rete politico-organizzativa di ampiezza globale, ma anche in quella esistenziale, come visione del mondo ed esperienza individuale intessuta di relazioni e scambi transnazionali. La fisionomia di Vidali quale ‘agente del Comintern’ si va man mano strutturando nel corso delle missioni negli Stati Uniti e nel Messico degli anni Venti, intersecandosi per sua stessa natura con gli oscuri ambiti di competenza propri dei servizi segreti sovietici. A lungo sentimentalmente legato alla fotografa Tina Modotti e circondato dall’amicizia di figure di spicco dell’ambiente intellettuale e artistico del suo tempo (da Ernest Hemingway a Pablo Neruda, da Joris Ivens a Hannes Meyer, a Rafael Alberti), come fondatore del Quinto Reggimento e protagonista della difesa di Madrid durante la guerra civile spagnola il nome di Vidali, ammantato nel leggendario appellativo di comandante Carlos, assume un rilievo internazionalmente riconosciuto all’interno del movimento comunista e dell’antifascismo in generale. Frutto avvelenato della medesima stagione, parallela al mito e altrettanto duratura prende forma intorno a Vidali una leggenda nera che lo vorrà coinvolto in alcuni tra i più chiacchierati delitti politici di sospetta matrice sovietica a cavallo della Guerra fredda.
Anna Di Giantonio, Vittorio Vidali. Vita di uno stalinista di Patrick Karlsen. Presentazione, Friuli Occidentale. La storia. Le storie, 29 ottobre 2019

Una lettera scritta da Enea Sermonti (Vittorio Vidali) a Bartolomeo Vanzetti, in carcere, nel 1926 – Fonte: Elisabetta Michielin, art. cit. infra [n.d.r.: si presume ripresa da www.digitalcommonwealth.org ]
Seconda pagina della lettera di Vidali a Vanzetti
Una lettera scritta da Bartolomeo Vanzetti a Vittorio Vidali – Fonte: www.digitalcommonwealth.org

[…] Il documentatissimo saggio di Karlsen che si avvale di ricerche approfondite condotte su numerose fonti giornalistiche, documentali e archivistiche dei Paesi nei quali si è svolta la vita di Vidali (Italia, Unione Sovietica, Spagna, Messico, USA, e brevi tappe in altri Paesi) ricostruisce – in 5 capitoli dai titoli molto significativi – la parabola politica e personale del nostro dall’esperienza negli Arditi Rossi nella Trieste degli anni ’20 e il bordighismo iniziale insieme alla diserzione alla chiamata alle armi, all’esilio in USA fino al 1927, alla lunga tappa messicana con i suoi rapporti con l’URSS fino al 1935, alla fase centrale della Guerra di Spagna dove arriva nel 1936 (comandante Carlos Contreras), fino al suo ritorno a Trieste nel 1947 e alla sua ultima battaglia contro i titini.
Il saggio è godibilissimo, sia per chi già conosce per sommi capi la vita di Vidali che per chi non ne sa nulla: si segue infatti quasi fosse una serie TV con tempi scenici e un susseguirsi di vicende davvero perfette nella scansione, con un intersecarsi continuo della figura di Vidali con leader politici (praticamente tutti i nomi internazionali e nazionali di allora), militanti come Bartolomeo Vanzetti, con il quale scambiò molte lettere durante la detenzione di quest’ultimo, poeti di fama internazionale (Neruda, Alberti, Machado,..), scrittori come Hemingway (che scrive al comandante Carlos per entrare nel 5° reggimento in Spagna e mai disconoscerà il valore di Vidali), pittori come i muralisti messicani a partire da Diego Rivera e la moglie Frida Khalo, ma anche il grande architetto Hannes Meyer direttore della Bauhaus … In una parola tutta quella che è stata la parte migliore della prima metà del Novecento politicamente, culturalmente, artisticamente e socialmente.
La cosa interessante, che deriva in buona probabilità dalla posizione terza dell’autore che non si identifica né con gli eredi (se ancora ci sono) di quel tipo di comunismo né con gli eredi dei critici di allora (anarchici e trockisti) che sentono come propria la storia della Guerra di Spagna, è che Karlsen libera la figura di Vidali dalle narrazioni contrapposte di mitico comandante Carlos alla difesa di Madrid assediata o di uomo nero del Cominform e dei servizi segreti sovietici capace di qualsiasi nefandezza.
La fama sinistra (ma anche eroica) di Vidali nasce proprio durante la Guerra di Spagna per consolidarsi a partire dal 1940, trovando la sua legittimità nientemeno che in Trockij, con una coda di “rinforzo” durante gli anni ’80 quando Tina Modotti, sua compagna per molti anni, venne riscoperta in Italia come fotografa di importanza internazionale.
Com’è noto Trockij pochi mesi prima di morire assassinato in Messico fu oggetto di un attentato, dal quale si salvò per un pelo, da parte di un commando capitanato dal comunista e pittore muralista, Siqueiros che entrò in casa sparando all’impazzata. (73 proiettili)
Trockij capisce che non avrà scampo e dedica gli ultimi due mesi della sua vita (morirà il 20 agosto 1940) alla comprensione del contesto in cui è maturato l’attentato fallito, inscrivendolo correttamente nella battaglia interna del PCM [Partito Comunista Messicano] fra stalinisti e “trockisti”, Comintern e polizia segreta di Stalin e scrivendo in un memoriale, pubblicato dopo la sua morte che «la svolta nel partito comunista [messicano] era intimamente connessa con l’ordine dell’attentato diramato da Mosca» (Karlsen, Il Mulino, p.220).
Il fondatore della Quarta Internazionale non ha dubbi e individua in Carlo Contreras, «uno dei più crudeli agenti del GPU» (secondo le sue parole ), l’anello di congiunzione fra il PCM e polizia segreta sovietica e di conseguenza l’organizzatore dell’attentato.
Su Vidali e le sue presunte responsabilità nell’attentato fallito a Trockij, si stampa così un marchio indelebile che si salda con la «sinistra notorietà» – sempre parole di Trockij – guadagnata durante la Guerra di Spagna e la concomitante sciagurata tesi del nemico interno (la cosiddetta “quinta colonna”) da eliminare con ogni mezzo anche il più sanguinario.
Karlsen ricostruisce, dimostrando l’estraneità di Vidali al di là di ogni dubbio, l’intricata vicenda dell’attentato a Trockij che si è continuata ad alimentare nel tempo anche per una sorta di convergenza di interessi fra le battaglie politiche di anarchici, stalinisti, trockisti e il concorso dell’FBI e della stampa conservatrice che avevano tutto l’interesse ad alimentare i dissidi fra le diverse componenti rivoluzionarie.
Conclude Karlsen che “Per ironia della storia e nemesi individuale, ciò accadeva non solo a partire da un evento nel quale il suo coinvolgimento era stato minimo se non nullo, ma proprio mentre s’inaugurava la sua emarginazione dal Partito comunista messicano” (Karlsen, cit, p.219). Cosa che Trockij non sapeva e che lo indusse in errore nell’individuare le singole responsabilità.
Karlsen con puntiglio decostruisce anche pressoché tutti gli altri omicidi eccellenti attribuiti a Vidali, da Andreu Nin, all’anarchico Carlo Tresca, al precedente compagno di Tina Modotti, il cubano Mella, alla morte della stessa Modotti, dimostrando la sua sostanziale estraneità nei singoli episodi a lui attribuiti a parte quello del comunista goriziano Luigi Calligaris, fucilato nel 1937 in URSS e riabilitato nel 1956 (sic!), per il quale le responsabilità di Vidali sono gravissime come aveva già documentato Umberto Tommasini (Il fabbro anarchico. Autobiografia fra Trieste e Barcellona, Odradek, 2011).
[…] Karlsen riconosce e ricostruisce, con questa di Vidali, la biografia esemplare di un dirigente comunista di levatura internazionale che diventa stalinista attraverso un approdo soggettivo e un percorso di vita e di formazione politico-culturale all’interno di un complesso di principi e pratiche nella prima metà del secolo.
[…] La biografia scritta da Karlsen – ed è il fascino del libro – mette in rilievo l’energia e la determinazione di Vidali, unita a una certa simpatia guascona, del quale dice che “l’identikit politico-psicologico (…) abbozzato dagli apparati di polizia italiani al 1923 [anno in cui inizia il suo lungo esilio di 24 anni] appare piuttosto attendibile” quando lo descrivevano come dotato di “«pronta intelligenza» e discreta cultura, ma «violento di carattere» e pieno di «contegno sprezzante» verso le autorità; abile e senza scrupoli nell’organizzare attentati terroristici e rivolte di strada”. (Karlsen, cit., pag. 39). Un ritratto ben diverso da quello che Vidali dà di se stesso a posteriori attraverso una dozzina di libri (!) che tendono a ricostruire la propria vicenda e il contesto in cui si è trovato ad agire in modo fin troppo lineare, agiografico, ideologico e giustificativo. Libri, proprio per questi motivi, paradossalmente politicamente significativi. Se, infatti, non rientrano nell’autoeducazione politica e culturale di Vidali durante tutta la propria vita di militante per bolscevizzarsi ed emendarsi dalla propria formazione politica primigenia insurrezionalista e bordighista (che gli procurerà dei guai seri) e smussare i propri tratti di carattere individualistici cercando di disciplinarsi, concorrono a una revisione della passata militanza e dei loro rapporti con l’URSS dei dirigenti del PCI. Sorta di autobiografie rivedute e corrette negli anni ’70; (non era Vidali il solo a scrivere in quegli anni questi memoriali). […]
Elisabetta Michielin, La libertà come coscienza della necessità. Riflessioni a partire dalla biografia di Vittorio Vidali scritta da Patrick Karlsen, Friuli Occidentale già cit., 16 settembre 2020