Poeta strano, Luciano De Giovanni

Foto: Giorgio Loreti

Nel bel mezzo del Novecento, chiuso in un cantuccio di provincia (a Sanremo, dove nacque nel 1922), Luciano De Giovanni si prese dunque il tempo necessario e qualcosa di più se costituì, come costituì, un inequivocabile incoraggiamento l’accoglienza che Luigi Baldacci, Italo Calvino, Giorgio Caproni, Gina Lagorio e molti altri, incluso Pablo Neruda, avevano riservato alla sua poesia. Il poeta che faceva l’idraulico di primo mestiere, che ammirava i grandi classici e la lirica cinese e giapponese, che amava soprattutto Dickinson, Eliot e Lorca, ma anche l’Ungaretti de L’allegria, il Pavese di Lavorare stanca e il Betocchi di Realtà vince sogno, nella stessa intervista in cui si definì “ligure per caso” e in cui si collocò, imbeccato dalla domanda, in una sorta di solco ligustico personale (Montale-Sbarbaro-Barile, appunto), nella nuova generazione di cantori o avventori del paesaggio ligure, spiegò la sua cauta presenza nel panorama poetico italiano: “Ho pubblicato poco, sia perché rifuggo dal farmi avanti, sia perché ho sempre avuto seri dubbi sulla qualità del mio lavoro” – affidò a una parentesi la precisazione “Adesso un po’ meno» (era il 1991) e proseguì – “in cambio ho avuto molti incontri umani, anche perché i miei interlocutori sapevano che non li avrei sollecitati a pubblicarmi”.
Alessandro Ferraro in Aprii, cauto, la porta. L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, XXVIII, 84, settembre/dicembre 2017

«Sono ligure per caso: mio padre era piemontese e mia madre francese. Certo che il paesaggio ligure, così vario e aspro (parlo dell’entroterra o delle coste deserte, non certo delle brutture, per esempio, di Sanremo) continua a coinvolgermi e a commuovermi. Che poi su questa terra abbiano vissuto poeti quali Montale, Sbarbaro e Barile (i due ultimi addirittura miei amici) è per me un ulteriore impegno a vivere la mia vita cautamente presente». Con queste parole, Luciano De Giovanni, poeta, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari (Brescia) nel 2001, poco prima di morire si descriveva a Gabriele Zani in “Nove domande a Luciano De Giovanni”.
[…] Poeta strano, Luciano De Giovanni, pudico dei suoi stessi versi – lui giudicati «piccioli» – tanto che Carlo Betocchi, altro poeta ligure di acquisizione, deve «strapparglieli di mano» per presentarlo all’onor del mondo e della Letteratura: «un poeta che io stimo religioso, che ha diritto alla grazia del suo patire». In tutte le recensioni che ho letto, scorgo una costante minimalista: poeta di cose minime, umile, trattenuto, pacato. In un mondo avvoltolato nella fretta, dove ha ragione chi grida di più e fa audience chi turpiloquia senza freni, poeti essenziali come De Giovanni, non provano nemmeno, come Montale insegna, a «chiedere la parola», perché, consapevoli del valore di ogni singola «storta sillaba e secca», sanno perfettamente «ciò che non vogliono», ma anche ciò e chi sono. In questo mondo sommerso nel mare della «polvere delle morte parole» (Tagore), restano scolpite a fuoco quelle austere di De Giovanni: «Diranno che fui pessimo operaio / e un pessimo padre di famiglia, / un pessimo uomo d’affari / e un pessimo poeta / Io me ne starò vergognoso / nella mia fossa sicura / e penserò che dopotutto / ero in un pessimo mondo». Qui c’è un trattato di antropologia, scritto sulla carne di ogni parola e affidato con fiducia al vento. La Liguria, terra di mare e mare di terra, su un letto di verde basilico, s’inerpica su verso le colline, popolate di olivi e campanili che, come aquiloni, si avvistano giocando. La sua forza poggia su pilastri forti e robusti che le danno solidità certa, come una casa costruita sulla roccia e non sulla sabbia di evangelica memoria. Montale, Caproni, Sbarbaro, Barile, Betocchi, Novaro, Giudici, De Giovanni sono garanzia che la superficialità può fare chiasso e anche sporcare, ma non potrà mai avere l’ultima parola.
Don Paolo Farinella, De Giovanni. Il poeta ligure che insegnava la sobrietà, la Repubblica, 13 maggio 2018

[…] Scritti inediti [di Lalla Romano]
[…]
De Giovanni
Cantare una nuvola
Mi riesce molto difficile scrivere di poeti e poesie che incontro per la prima volta; un’urgenza di comunicare la mia scoperta mi fa rompere gli indugi, le perplessità.
Luciano De Giovanni l’ho incontrato una volta o due in anni lontani, ma fa parte del mio mondo. Tramite, da principio, quel Giovanni di San Remo, il mio grande amico fin dalla giovinezza e anche personaggio nei miei libri.
Alcuni piccoli versi – compaiono anche nel libro che recensisco – li conoscevo da tanto tempo e li ho sempre avuti cari.
«Ama la barca / il pescatore / il breve palpito / dei remi / l’oziosa attesa / degli almi / nelle vie / del mare» (p.24).
Ma quando ho ricevuto Tentativo di cantare una nuvola, la mia scelta si è appuntata, e la memoria me li ripete, su questi:
«Non c’è pace / per chi è / immenso » (p.58).
Sono parole nate dal silenzio, e in silenzio vanno ascoltate.
«Immenso» è il mare.
Fare poesia con poche parole lo fanno tutti, adesso; ma con parole vecchie e ormai usurate dal consumo letterario: mare, fiume, alberi, nuvole, può sembrare ingenuità – e in un senso alto lo è – certo è sapienza.
É dato solo a chi, piccolo o grande (ma non esiste una quotazione), è vissuto in modo che la sua vita e la sua poesia coincidano.
Per notizie biografiche su Luciano De Giovanni, rimando al libro, che reca come introduzione un testo molto vivo di Carlo Betocchi e una postfazione esauriente, che inizia con una citazione di Italo Calvino su «cos’è uno scrittore».
Qui per ora, l’impatto del lettore deve essere diretto, anche se limitato.
«Ogni cosa che tu m’hai dato / […] i cieli di varie luci/ gli alberi solenni e silenziosi/ […] ogni cosa ti renderò, sgualcita / come un libro troppo letto / e mai capito» (p.23).
É una poesia non recente, ma già contiene un pathos conclusivo: c’è gratitudine e rammarico, come in un congedo. Il tu suona religioso. Sovente Luciano adopera un tu fraterno: «Ho guardato il tuo corpo di fiume / morbido potente e forte / e delicato e umido / […] Dove vai, dove vai così di fretta / così sicuro di dove andare / mentre intanto sei qui con me / e mi confidi / che andare è più di tutto restare…» (p.51).
La fraternità con la natura, non generica ma individuale, è il profondo tema della poesia di Luciano.
Di tutte le fraternità che la vita crea e da cui può nascere la poesia, nel nostro tempo quella con la natura è quasi inesistente: sostituita dalla passione sportiva, dai viaggi, eccetera.
Per Luciano il rapporto è personale.
Paolo Di Paolo, La scrittura critica di Lalla Romano, Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2012

…] l’archivio personale di Luciano De Giovanni – custodito fino a qualche mese fa dal figlio Giorgio a Sanremo (dove il poeta nacque il 29 luglio 1922) e in una piccola parte dalla figlia Annamaria a Montichiari (dove il poeta è morto il 3 dicembre 2001) – andava conservato in un luogo autorevole e attento alla cultura ligure del Novecento, qual è la Fondazione Mario Novaro di Genova, per essere studiato e valorizzato, come una prima ricognizione e questo quaderno hanno tentato di fare.
[…] I frontespizi autografati di questi volumi, oltre settanta, tracciano la mappa delle letture e delle conoscenze di De Giovanni: una geografia in gran parte ligure (con edizioni e dedicatari di Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga, Savona, Genova, Recco e Sarzana) ma qualche libro gli giunse da Milano, Firenze e d’oltreoceano, tramite lo stesso Verdicchio. Oltre al Fuochi fatui con dedica di Camillo Sbarbaro nell’edizione All’Insegna del Pesce d’Oro (Milano 1958) di Scheiwiller, editore che occupa molto spazio della biblioteca di De Giovanni, spiccano, anche per ricorrenza, i nomi di Elio Andriuoli, Fredi Chiappelli, Franco D’Imporzano, Sergio Ferrero (che attende giudizi e s’augura di non deludere De Giovanni), Roberto Rebora, Lalla Romano (che definisce De Giovanni «poeta del mare», 4 gennaio 1995), Bruno Rombi, Giovanni Testori («a Luciano De Giovanni di cui ho amato le bellissime poesie con affetto», 25 marzo 1971), Renato Turci e Guido Zavanone.
Alessandro Ferraro, Partendo dal Fondo, «La Riviera Ligure», XXVIII, Anno XXX, n. 87/88, settembre 2018 – aprile 2019

Philobiblon Edizioni ha recentemente dato alle stampe quella che è l’unica prova narrativa di Luciano de Giovanni, Le case vicino al torrente. Il volume si inserisce nella collana “I Giardini di Pogo”, curata da Marco Innocenti, che conta, tra le altre, opere di Sandro Bajini, Ivan Arnaldi, Sandro Soleri.
Conoscevo ed ammiravo il De Giovanni poeta, delicato eppure balenante nelle sue epifanie. Versi di brevità epigrammatica, quasi haiku di Liguria, con una grazia insinuante e potente capace di penetrare l’anima del lettore, piegandola a considerare il sublime e l’infinito che ci sussurra accanto.
La sua prosa mi era invece, fino ad oggi, del tutto ignota. Ho quindi aperto queste pagine con legittima curiosità. Inizialmente ho fatto fatica a “intercettare” il De Giovanni narratore, alle prese con un romanzo autobiografico la cui unità narrativa non è sempre coerente. L’opera è in effetti una sorta di memoriale, nella cui voluta frammentarietà si può forse cogliere la radice lirica dell’autore (che prevale poi nelle ultime pagine del racconto).
Alle vicende, narrate con sapiente capacità evocativa, fa da sfondo una Sanremo popolare colta nell’arco di tempo che va dagli anni Venti agli anni Sessanta del secolo scorso. Un periodo in cui le esperienze personali dell’autore, dall’infanzia alle iniziazioni, fino alla maturità, affiorano nella tempesta delle stagioni più difficili che l’Italia abbia attraversato: la dittatura, la guerra, la ricostruzione.
Sembra di cogliere la lezione di Calvino de Il sentiero dei nidi di ragno, in questa Sanremo lontana nel tempo, che ci invita a riconoscere angoli, rivi e mulattiere sopravvissuti alla baraonda del cemento.
Vi è poi qualcosa di Caproni, di Sbarbaro e di Montale, soprattutto dove la narrazione si fa più lirica e il paesaggio ligustico, anzi vorrei dire proprio «sanremasco», diviene l’occasione per una meditazione dagli approdi non sempre consolanti.
La poesia di De Giovanni è tutta natura: albero, mare, nuvola. Come già suggerito da Stefano Verdino la città le è quasi del tutto estranea. Ne Le case vicino al torrente la natura è una parte importante di una scena su cui però fa capolino prepotentemente anche l’urbana vitalità di un borgo descritto attraverso una galleria di numerosi personaggi ritratti ora con umana partecipazione, ora con ironia e distacco.
L’essenzialità che caratterizza la sua produzione poetica si ritrova qui in una narrazione che non indulge mai alla retorica e al sentimentalismo, nemmeno quando si affronta l’esperienza del dolore, trattata con la serenità dell’anima e la leggerezza del linguaggio.
L’essenzialità che caratterizza la sua produzione poetica si ritrova qui in una narrazione che non indulge mai alla retorica e al sentimentalismo, nemmeno quando si affronta l’esperienza del dolore, trattata con la serenità dell’anima e la leggerezza del linguaggio.
LUCIANO DE GIOVANNI, Le case vicino al torrente, Philobiblon edizioni, Ventimiglia 2009, pp. 186, euro 13,00.
Si trovano sempre presso Philobiblon i seguenti volumi dello stesso autore:
Viaggio che non finisce, Ventimiglia 2001
Cautamente presente, Ventimiglia 2001
Il bosco, Ventimiglia 2001
Caro Domenico, Ventimiglia 2001

Umberto Salemi in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna – Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno I, n° 3 luglio-settembre 2010

De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell’Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro ‘900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato… ), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956. Così lo descriveva ai lettori: “un poeta che io stimo religioso, che ha diritto alla grazia del suo patire…”, mettendone in luce sensibilità, misura, precisione, in qualche modo derivategli dal suo mestiere di “azzurro stagnino”, riflessivo e solitario nel lavoro, attento alle cose e ai gesti, a contatto sempre con l’acqua: in piedi sui tetti, vicino al cielo, dimentico di se stesso.
“Gli uccelli / possono volare / perché sono / innocenti / non è questione / d’ali”, “Due bambini / con due cagnolini / a giocare nel cortile / della grande casa. / A me ch’ero sul tetto / a riparare una gronda / sembravano quattro sassi / caduti in fondo al pozzo”, “Non sanno le cicale / perché all’improvviso smettono il loro canto // perché all’improvviso / lo ricominciano”, “Ho aiutato una foglia a cadere, / l’ho sfiorata con una carezza / e s’è fatta coraggio, è andata. // Fingeva, poverina, / d’essersi dimenticata / che si deve anche morire”.
A Luciano De Giovanni (molto riservato nei rapporti con gli altri, quasi intimidito e forse timoroso di dover rivelare sia le sue ristrettezze economiche sia gli scarsi studi che aveva portato a termine) piaceva camminare nei boschi, lungo le stradine di campagna, fiancheggiando i torrenti, in silenzio, mostrando una coscienza anticipatamente ecologica. Un suo critico e mentore fedele, Stefano Verdino, così scriveva di lui: “Stupisce la frontalità della sua poesia, vale a dire il suo essere costantemente canto e voce della natura, nelle sue misure più lineari ed elementari”. Il mare, il bosco, la montagna, le foglie sono elementi presenti soprattutto nelle prime esili raccolte, e già preludono a un rapporto intenso con la spiritualità e il divino, non chiesastico ‒ ovviamente ‒, ma vivo nell’attesa stupita di una epifania prodigiosa:
“Il miracolo consueto della foglia / al quale non prestiamo attenzione / e non ci meraviglia / in cerca come siamo / del miracolo”, “Il sentiero che rasenta i castagni / e trattiene gli odori / degli arbusti che attraversa / tu non sai dove va dove porta / potresti non imboccarlo mai più / potresti non averlo trovato / eppure proprio te ha cercato”, “Lamentandosi / il mare / cerca rifugio / tra gli scogli // non c’è pace / per chi è / immenso”, “Mammelle gonfie di pioggia / è diventato il cielo, / desolate onde / rovinano sulla scogliera, / delle verdi colline / avviluppate di nebbia / niente si sa: // ‒ Soffri, / terra madre?”.
Anche l’atmosfera domestica (la casa, la moglie, i bambini) rientrava a pieno diritto nell’universo poetico di De Giovanni, raccontata con un lessico scarno e volutamente impoverito, privo di ricercatezze e neologismi, quasi che l’arredamento linguistico e mentale dovesse per onestà riflettere quello modesto dell’abitazione, teneramente intiepidito degli affetti familiari:
“Venitela a vedere la mia bambina / in questo mattino di miracoli / saltellare tra le zolle dell’orto: / i raggi del sole la seguono. // Si china e muta ogni cosa / in preziosissime gemme / fa un lieve cenno alla terra / e subito nasce una rosa”, “Il mio, lì nella culla, / dorme gonfio di latte, / il destino e gli eventi / ancora non l’hanno destato. // Un giorno si metterà la cravatta / frettoloso, / dirà ‒ al diavolo tutti ‒ sbattendo la porta”, “Presto non sarà più anonimo / questo pezzo di terra, / ci farò una casa / e un pergolato di vigna. // … In un momento di dolcezza / diventerà del tutto diverso / e la sedia a sdraio / vicino alla finestra / si gonfierà di vento”, “Ho fatto un sogno strano: / ero un albero in un prato / e tu un nido sopra il mio ramo” […]
Alida Airaghi, Luciano De Giovanni, La poesia e lo spirito, 29 gennaio 2018