Mai successo di liberare una città così grande subendo solo un colpo di pistola

Genova: Monumento a Cristoforo Colombo

Ecco come Giuseppe Noberasco all’epoca giovane di 25 anni racconta, da protagonista, quelle tragiche giornate di Genova.
MEMORIA di Giuseppe Noberasco (Gustavo) sull’insurrezione di Genova.*
L’episodio di Cravasco è noto, meno noto il suo epilogo. 11 soldati della Wehrmacht vengono sorpresi il 22/3/45 da una formazione della volante “Balilla” nei pressi di Cravasco e non hanno scampo. Il 25/3/45 vengono prelevati da Marassi 22 prigionieri politici per la rappresaglia tedesca, 2 riescono ad aprire le manette con le chiavi fornite da guardie del carcere, nostri organizzati, ed evadono dal camion che li trasporta. Dei 20 rimasti che vengono fucilati presso il cimitero di Cravasco uno non muore ed un altro noi non lo consideriamo martire della Resistenza perché era una spia. 18 sono pertanto i Martiri ed il C.L.N., con il nostro Comando, decidono di rispondere giustiziando 36 ostaggi. I tedeschi, siamo ormai ad Aprile, ordinano al carcere di Marassi di mettere a loro disposizione 72 prigionieri. Immediatamente diamo ordine alle nostre brigate S.A.P. (1) di catturare 144 ostaggi e l’obiettivo fu ben presto raggiunto. I prigionieri vennero trattenuti in retrobotteghe, cantine, garages, laboratori ecc. per ben tre, giorni: i 72 prigionieri di Marassi non furono prelevati per cui noi liberammo gli ostaggi. Era un chiaro segnale ed i tedeschi sentivano arrivare la loro sconfitta.
Sulla salvezza del porto di Genova, molto è stato scritto e non abbiamo ragioni per dubitare su quanto rilevato. Dal canto nostro vogliamo ricordare quanto da noi fatto per tale obiettivo.
I tedeschi avevano minato la diga foranea con diversi fornelli collegati ad una centrale di brillamento sita a S. Benigno. Le nostre S.A.P. del porto studiarono il piano per tagliare il collegamento.
Occorreva uno scafandro. Venne trovato, ma non dava le garanzie indispensabili. Decidemmo allora di rivolgerci agli alleati che ci paracadutarono uno scafandro in piena efficienza con il quale fu possibile tagliare ogni collegamento.
I tedeschi avevano però anche preparato due bettoline cariche di dinamite con le quali intendevano affondare due navi alle imboccature del porto.
Riuscirono solo a far esplodere una carica piazzata sulla Motonave “Aquila” che si inclinò su un fianco senza peraltro dare più ingombro di quanto non desse galleggiando.
Non sappiamo se il nemico abbia tentato di mettere in moto le bettoline; quello che è certo è che esse non sarebbero partite perché noi avevamo messo lo zucchero nei serbatoi del carburante.
Il bombardamento di Prato fu effettuato da un aereo alleato alle ore 14 del 25 Aprile 1945 quando Genova era già libera e causò 17 morti. Il perché di quel bombardamento è tuttora da chiarire assieme ad altre circostanze quanto meno strane. Come mai gli alleati non si muovono da Rapallo il 25 aprile quando il C.L.N. è già insediato nel centro di Genova all’Hotel Bristol? E, con esso, Davidson, Capo della Missione alleata presso i partigiani liguri? Stranamente Davidson, infatti, come mai non riesce a collegarsi con il suo centro a Roma per comunicare che Genova è ormai libera? Come mai io ricevo l’ordine dal mio superiore Cirio (Luigi Conte) del Comando piazza di Genova alle ore 14 del 23/4 con la precisazione che dovevo porre in attuazione il “piano A” e che i fascisti fossero disarmati e dispersi mentre i tedeschi dovevano essere disarmati ed avviati ai campi di raccolta prestabiliti con tempestiva comunicazione al Comando del loro numero? Io ricordo che alle 19 del 23/4 comunicai la prima cifra di prigionieri – circa 700 – che, alle 24 erano circa 1000. Però il C.L.N. riunito con il C.M.R. in seduta straordinaria al S. Nicola decide a maggioranza l’insurrezione secondo il “piano A” all’una di notte del 24 Aprile. A maggioranza perché tre dei suoi membri temevano il “rischio Varsavia” e cioè che gli alleati fermassero la loro avanzata; e la fermarono a 30 Km, da Genova ma i cannoni da Monte Moro non spararono sulla città, come aveva minacciato il Gen. Meinhold , ciò non accadde perché il C.L.N. Ligure gli aveva detto che – secondo la convenzione di Ginevra – sarebbe stato un crimine di guerra e pertanto sarebbero stati fucilati tutti i prigionieri tedeschi in nostre mani in quanto – appunto – criminali di guerra. Qualche tempo dopo la Liberazione – io ero già smobilitato ed impegnato nel nuovo compito di amministratore dell’edizione ligure de “L’Unità”- chiese di potermi conoscere – tramite “il Biondo” (A. Camoirano)- un alto ufficiale dei servizi alleati. Giunse scortato da due attendenti neri che sembravano armadi semoventi e, dopo mille complimenti (mai vista una città liberata dove tutto funziona ecc. ecc.) congedandosi mi chiese a bruciapelo: “ma come avete fatto ad entrare in città che nessuno se ne è accorto?”.
Ebbi tre sensazioni: i servizi – come era ovvio – avevano informatori anche in città; essi fingevano di non sapere che vi erano forze armate del CVL (le SAP) di stanza e che operavano in città entro i confini della Grande Genova; volevano stabilire che i partigiani di montagna avevano disobbedito all’ordine del Comando Alleato che vietava loro di scendere a Genova (per timore di mancanza di vettovagliamento!) mentre i partigiani di montagna avevano obbedito sia pure, certamente, a malincuore.
Io gli risposi che noi non eravamo entrati a Genova perché da Genova non eravamo mai usciti. Se ne andò, ma capii che non voleva credermi.
Io penso invece che il bombardamento di Prato – dove fra i 17 morirono anche 4 partigiani della Volante Severino sia stata una punizione anglosassone contro i partigiani e contro Genova disobbedienti!
Penso che si potrebbe cogliere l’occasione del 60° di quell’evento per porre la lapide in ricordo di quelle vittime come da tempo chiedono la popolazione di Prato e gli ex partigiani delle Volante Severino il cui Comandante – Michele Campanella “Gino” – vive tuttora a Bologna.
Della cerimonia della “Consegna delle armi” da parte dei partigiani agli Alleati nessuno ha mai parlato. Io venni chiamato dal Comando Piazza e mi dissero che avrei dovuto comandare un plotone partigiano per il “consegnat-arm”. Questo doveva avvenire in un locale delle scuole di C.so Magenta. Organizzai ed istruii 21 uomini armati di fucile 91 tutti con il bracciale CLN che portavano durante l’insurrezione e, quando entrammo nella Scuola un plotone alleato con Bandiera ed in alta uniforme presentò le armi. Rispondemmo con il nostro “presentat-arm” e quando diedi ordine “consegnat-arm!” lasciammo cadere a terra i fucili (che avremmo dovuto invece consegnare ai soldati alleati) diedi ordine “fianco sinistr – avanti march” e con il saluto del capo “attenti a destr” ce ne andammo. Il saluto era il segno della nostra gratitudine per il decisivo contributo alleato alla lotta per sconfiggere il nazifascismo e l’abbandono delle armi un atto di protesta per il “proclama di Alexander”, per la fermata a Rapallo e per il bombardamento di Prato.
In vista dell’insurrezione onde garantire maggiore autonomia di iniziativa e di intervento il Comando delle SAP Garibaldi di Genova si articolò in 5 settori: Ponente comandante Annibale Ghibellini; Polcevera comandante Publio Scarparo; Bisagno comandante Sisto Pendola; Levante comandante Renato Drovandi; Centro comandato dal sottoscritto che conservava, nello stesso tempo, il Comando generale.
Successivamente – e cioè al momento stesso della sua costituzione – anche il Comando Piazza assunse analoga struttura con il compito di unificare tutte le S.A.P. cittadine delle varie ispirazioni politiche e di unificare altresì l’azione militare generale.
Per quando riguarda il mio comando intervenni, insieme alla “Severino”, alla liberazione di tutti i detenuti politici dal carcere di Marassi. Io stesso, con la squadra comando, scortai sino alla sua abitazione in Via Ferruccio Gelasio Adamoli. Guidai personalmente l’attacco alle scuole di Piazza Palermo ottenendo la resa dei reparti fascisti colà asserragliati. Conquistai la Questura che rispondeva al fuoco della nostra brigata che sparava con armi leggere da Piazza della Vittoria: la brigata possedeva però una mitraglia Breda che non sapeva adoperare. Io – per non contravvenire al regolamento dell’Esercito che vietava l’aggancio della massa battente con un calcio – l’agganciai con un forte colpo della mano (con conseguente contusione) e sparai alcune raffiche. Subito apparve la bandiera bianca. Entrai in Questura dal cortile carraio: prendemmo un furgone sul cui cofano legammo il tricolore e sulla fiancata dove era scritto “POLIZIA” aggiungemmo le parole “del popolo”. Nel garage della Questura Vi erano anche due carri o.p. che requisii, ma mi dissero che non erano funzionanti. Chiesi di parlare con il responsabile del garage ed un poliziotto rivolto ad una porta verso l’interno chiamò ad alta voce; “Noberasco” (il mio cognome legale che non udivo da tempo). Comparve un uomo non alto, ma ben messo. Mi disse che avrebbe fatto il possibile per farli funzionare. Nemmeno andammo a ritirarli.
(Quel tal Noberasco dopo la Liberazione divenne capogarage in Prefettura e mi venne a cercare ricordando l’episodio). Con il furgone risalimmo Via Balbi perché ci avevano riferito che da Piazza Acquaverde sparavano in quella direzione.
Infatti a metà di Via Balbi fummo fermati dai Vigili che ci avvertirono che vi era una mitraglia ai piedi del monumento a Cristoforo Colombo con la quale i tedeschi facevano fuoco su ogni mezzo. Salimmo allora da Corso Dogali e scendemmo da Via S. Ugo; appena i tedeschi sentirono i colpi arrivare dalle loro spalle si arresero. Per interventi fuori dal mio settore operativo fui chiamato solo una volta e precisamente da Scarparo perché tedeschi asserragliati in una galleria ferroviaria della linea Genova-Milano fra Bolzaneto e Rivarolo erano assediati da parecchie ore, ma non intendevano arrendersi. Sapevo che a Sampierdarena una nostra brigata aveva un cannoncino con relative munizioni. Lo rintracciai e con l’aiuto dei ferrovieri lo fissammo su un carrello ferroviario prepuntandolo in modo che colpisse subito all’interno la volta della galleria. Al primo colpo i tedeschi uscirono a mani alzate e con bandiera bianca. Era già notte ed io andai a trovare il casellante del n° 4 che conoscevo da tempo il quale mi fece posto, per le poche ore che dormii, nel suo letto perché tutti gli spazi erano occupati dai sapisti che si davano il turno nell’assedio alla galleria ferroviaria che era proprio nei pressi (2).
Ripresi contatto con i miei all’alba del 25 e seppi che Arillo – il comandante della X Mas – asserragliato con i suoi nella darsena ancora resisteva rifiutando di arrendersi se non gli fossero stati concessi gli onori militari. Arillo che aveva sparato contro i civili che uscivano dalle case di Via Milano per andare a far spesa ed aveva ucciso, mi dissero, una nonna con la sua nipotina! Conoscevo l’episodio perché io stesso avevo proibito di uscire o anche solo di affacciarsi alle finestre verso il porto provvedendo con scale, ed uscite di emergenza dai ballatoi che davano su via Fassolo. Noi avevamo già conquistato tutte le batterie antiaeree sulle alture della città. Salii a quella degli Angeli, ma le canne delle due mitraglie antiaeree da 20 mm. non potevano abbassarsi sino a poter colpire i magazzini vicini a ponte dei Mille a causa del cordolo in cemento armato. Feci chiamare i contadini del posto i quali giunsero armati di picconi, palanchini e mazze ed in un batter d’occhio abbatterono l’ostacolo. I militari tedeschi – serventi delle mitraglie – prima di arrendersi avevano nascosto gli otturatori rendendole inutilizzabili. Riuscii a rintracciare i due prigionieri giovanissimi i quali non ne volevano sapere di consegnarci gli otturatori perché se li avessero consegnati “in Germania mamma kaput”, “Macchè mamma kaput” risposi “la guerra è finita e laggiù ci sono solo dei fascisti che sparano sulla gente inerme”. Non solo trovarono gli otturatori, ma loro stessi spararono contro la Darsena. Ed anche là apparve la bandiera bianca. Scesi di corsa e giunsi in tempo per vedere Arillo ed i suoi in Via A. Doria scortati e difesi (dalla gente furibonda che li voleva linciare) dai partigiani della Volante “Ballila”. Arillo firmò la resa nei locali dell’Hotel Columbia ai partigiani di G. Machiavelli (Stella). Tornai in Piazza della Vittoria dove stavano sfilando i giganteschi carri armati alleati fra gli applausi della gente. Partì un colpo di pistola dal palazzo della RAI e la colonna si fermò immediatamente: tutti i soldati si sdraiarono a terra in attesa di ordini. Mi rimasero impressi quei volti neri e quegli occhi enormi che sorridevano e mi sembrava dicessero: “mai successo di liberare una città così grande subendo solo un colpo di pistola”. Rintracciammo ed arrestammo un ragazzo – aveva 17 anni – che mi disse che voleva provare se la pistola funzionava! Lo salvammo dalla gente inferocita e per raggiungere la camionetta della M.P. alleata alla quale lo consegnammo fummo costretti a sparare in aria!
E questa fu la mia ultima azione: ah no! veramente l’ultima fu quella della firma del verbale alleato del “consegnat-arm”.
[NOTE]
(1) A riprova dell’ininterrotta presenza delle S.A.P. in Genova trascrivo la motivazione della Medaglia d’argento al V.M. che mi è stata conferita in forma solenne alla Caserma Bligny di Savona durante il Giuramento delle Reclute del 1981:
Noberasco Giuseppe nato il 19.07.1920 a Savona:
“Esemplare figura di patriota durante i venti mesi di lotta contro gli invasori sapeva condurre e trascinare le sue formazioni partigiane in numerosi scontri bellici, distinguendosi ben presto per particolari doti di coraggio e per elevate qualità di comandante. Ideatore e nel contempo realizzatore di audaci azioni contro il nemico riusciva a tessere una efficiente rete informativa per sorprendere e combattere validamente l’avversario. Nel febbraio 1945, divenuto Comandante Generale delle Brigate Garibaldine S.A.P. di tutta la Provincia di Genova, benché assiduamente braccato dalla polizia nemica intensificava l’azione di lotta e di sabotaggio creando le condizioni favorevoli per l’insurrezione armata di Genova del 25 Aprile 1945.”Zona della Liguria, 8 Settembre 1943 – 25 Aprile 1945 G.U. 1980 n° 212 pag. 5571/e.
(2) Il Casello n° 4 di Bolzaneto fu importante base della resistenza non solo Ligure ma anche Slovena e meriterebbe un ricordo con l’affissione di una targa nelle vicinanze che da tempo sia le Delegazioni interessate sia gli ex partigiani vorrebbero poter affiggere. Conosce bene la cosa il nipote del casellante (Ivan Pirc) Alessandro Paoletti che lavora all’istituto di Fisica dell’Università di Genova.
Scritto in Albissola Marina nel mese di Ottobre 2003.
Giuseppe Noberasco (Gustavo)
*Questa è la nota che ci ha consegnato il figlio Vladimiro e che pubblichiamo integralmente con il suo consenso.
Redazione, La liberazione di Genova, Associazione Amici del Liceo Chiabrera – Savona, 2014