Le repressioni del governo Badoglio durante i 45 giorni: il caso di Milano

All’indomani del 25 luglio 1943, la giustizia militare assunse un ruolo fondamentale nel controllo dell’ordine pubblico. In una riunione del 27 luglio il governo Badoglio sancì la soppressione del Partito nazionale fascista e del Gran Consiglio del fascismo; l’eliminazione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato e lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni. Fu, inoltre, decisa l’estensione dello stato di guerra a tutto il territorio nazionale e l’applicazione della legge penale militare.
Tra i primi decreti firmati dal nuovo capo del governo, il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, due in particolare, entrambi emanati il 29 luglio, ampliarono le competenze dei tribunali militari. Il primo provvedimento permise ai tribunali militari di attribuirsi, dopo la sua soppressione, le prerogative, i compiti e i procedimenti del Tribunale speciale per difesa dello Stato, l’organismo della giustizia del regime fascista, competente a giudicare i reati contro la sicurezza dello Stato e del regime <127. Stabiliva inoltre che secondo la rispettiva competenza territoriale, il tribunale militare diventava pertinente anche per i procedimenti in corso e che relativamente ai predetti reati, i tribunali militari dovevano procedere in ogni caso, durante lo stato di guerra, col rito di guerra <128.
L’art. 3 proseguiva conferendo sempre ai tribunali militari “la cognizione – ossia la competenza – sulle trasgressioni alle ordinanze di polizia emanate dall’autorità militare in seguito al passaggio d’autorità stessa dei poteri per la tutela dell’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 217 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” <129.
Il che significava affidare all’autorità militare il controllo dell’ordine pubblico attraverso la facoltà di emanare ordinanze e di giudicare le eventuali infrazioni <130.
Il decreto, infine, all’art. 4 conferiva facoltà al comandante d’unità presso cui era costituito il tribunale militare, qualora fosse ritenuto necessario un giudizio immediato a scopo di esemplarità, di disporre la convocazione di una corte marziale straordinaria, che avrebbe proceduto nei modi e con le norme stabilite, per giudicare le persone arrestate, civili o militari, perché imputate di reati soggetti alla giurisdizione militare di guerra, punibili con pena detentiva e con pena più grave <131.
In definitiva, la giustizia militare si sarebbe occupata di sanzionare i perturbatori dell’ordine pubblico, sostituendosi a quella ordinaria per una serie di reati commessi da civili, ma le cui conseguenze erano giudicate particolarmente dannose alla già grave situazione bellica. Alle competenze di ordine pubblico si aggiungevano quelle relative al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che rimetteva nelle mani dei magistrati con le stellette tutti i reati quali il tradimento, la frode, lo spionaggio, sino all’inadempienza in forniture militari, o reati politici come l’associazione sovversiva o la propaganda antinazionale, commessi da militari e civili.
Nella sostanza i tribunali militari si trovarono investiti di competenze che andavano da reati quali le grida e le manifestazioni sediziose, infrazioni molto diffuse all’indomani della caduta del fascismo, alla repressione delle organizzazioni sovversive e degli atti di sabotaggio sino a reati comuni (furto e ricettazione), arrivando a comprendere anche le violazioni della legislazione di emergenza come la sottrazione di merci all’ordinario consumo o le infrazioni annonarie.
Un secondo decreto, formato da un articolo unico, emanato sempre il 29 luglio stabiliva che “ritenuta la necessità assoluta ed urgente di assicurare ovunque la tutela dell’ordine pubblico, la legge penale militare di guerra è applicabile anche nel territorio delle provincie non dichiarate e considerate in stato di guerra” <132.
In questo modo l’intero territorio nazionale veniva assoggettato alla legge penale militare di guerra.
In realtà, come evidenzierà il Procuratore militare generale Ovidio Ciancarini in una lettera al generale Roatta del 22 agosto 1943, non si tratta di stato di guerra, ma di “stato di guerra di polizia” in cui si “ha il limitato effetto di far passare alle autorità militari la tutela dell’ordine pubblico e, a tale scopo demanda ai tribunali militari la competenza per determinati reati comuni e, alle autorità predette un potere, non già di emanare bandi, bensì di emanare ordinanze sulle materie che abbiano comunque attinenza all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica” <133.
Comunque al di là dei limitati poteri delle ordinanze di pubblica sicurezza, che si esaurivano nell’azione amministrativa, rispetto ai bandi, vere e proprie leggi di guerra <134, l’estensione dello stato di guerra a tutta la nazione significava in primo luogo una rivoluzione per gli stessi tribunali militari che non assistettero solo all’ esponenziale ampliarsi delle loro competenze, ma videro cessare la divisione introdotta solo tre anni prima tra tribunali militari territoriali di Pace e i tribunali militari territoriali di Guerra. Questi ultimi rimasero, a tutti gli effetti, gli unici competenti in quanto, da sempre, applicavano il Cpmg. I tribunali di guerra assorbirono il personale e le strutture del tribunale soppresso, divenendo, a tutti gli effetti, l’unico referente della giustizia non solo militare <135.
Per comprendere appieno quello che accadde, può essere di qualche utilità prendere le mosse da Milano, una realtà di grande importanza politica ed economica, che deteneva una centralità nella produzione di guerra. Qui, presso il Palazzo di giustizia di via Freguglia, operavano contemporaneamente i collegi giudicanti dei due tribunali di Guerra e di Pace, sino al 25 luglio 1943, quando il Tribunale militare territoriale di Pace si riunì per l’ultima volta <136.
In Lombardia l’attività del Tribunale militare territoriale di Pace di Milano era risultata particolarmente utile nella persecuzione di reati commessi da mobilitati civili responsabili di infrazioni al regolare andamento della produzione bellica. In particolare, la competenza nei confronti dei lavoratori militarizzati, ne fece il principale strumento di controllo della manodopera industriale e della repressione di qualsiasi tentativo di rallentare la produzione, come accadde, per esempio, nel corso degli scioperi del marzo 1943 <137.
Infatti, era toccato proprio a una sezione del collegio giudicante del Tribunale militare territoriale di Milano portare alla sbarra 50 operai di varie industrie milanesi e dei paesi limitrofi, colpevoli di aver organizzato l’interruzione volontaria del lavoro tra il 23 e il 29 marzo <138.
Le proteste erano cominciate con lo sciopero delle principali industrie torinesi del 5 marzo per poi estendersi in altre province piemontesi (Asti, Cuneo, Alessandria, Vercelli) <139. A Milano la protesta operaia era giunta solo nell’ultima decade del mese ed era poi proseguita coinvolgendo anche le province di Varese e Como. Complessivamente alle agitazioni parteciparono circa centomila persone <140.
I primi operai lombardi a incrociare le braccia erano stati i lavoratori delle ferriere Lombarde Falk di Sesto San Giovanni che il 22 marzo avevano sospeso il lavoro dalle ore 13.00 alle ore 16.00; l’esempio era stato immediatamente seguito, il giorno dopo, dalle tute blu delle Officine meccaniche Broggi di Milano e della Pirelli colpevoli, secondo la sentenza, di aver ostacolato “il corso del lavoro sospendendo lo stesso per alcuni periodi di tempo protrattisi talvolta sino a due ore” <141. Nei giorni successivi fu la volta della Ercole Marelli di Sesto San Giovanni (24 marzo), dell’Isotta Fraschini di Rozzano e dello stabilimento Magnaghi (25 marzo), dello stabilimento Basili (26 marzo), della Telemeccanica Elettrica (27 marzo), tutte industrie milanesi, delle Officine meccaniche di Bollate e dello stabilimento “Fausto Alberti”, delle Trafilerie Castoldi di Milano e dell’”Ernesto Breda” di Sesto San Giovanni (29 marzo). Si trattava di scioperi “bianchi” che si manifestavano sotto forma di brevi “fermo macchine” in cui la sospensione del lavoro poteva durare cinque minuti, dieci, trenta fino a due ore (il caso della Pirelli) <142. La durata non aveva importanza agli occhi del tribunale; infatti, indipendentemente dalla tempo della sospensione si venne comunque a “verificarsi un danno, e un intralcio si effettuò nel regolare andamento del lavoro per la sospensione di esso verificatasi anche per pochi minuti” <143. Vi erano quindi le condizioni previste dall’articolo 250 del Cpmp che puniva gli atti di ostruzionismo o di sabotaggio con la reclusione militare da uno a cinque anni.
Gli operai che la mattina del 26 giugno, affollando il banco degli imputati dell’aula n. IV del Palazzo di Giustizia di Milano, ascoltarono i giudici militari pronunciare la sentenza, rischiavano pene detentive pesanti. I giudici adottarono, tuttavia, una condotta processuale prudente che pur riconoscendo la gravità degli atti compiuti, nella sostanza considerava le attenuanti, come l’assenza di fini politici, e la condizione giuridica degli accusati, quasi tutti incensurati. L’assenza del dato politico da molti scioperi del marzo 1943, non è un elemento nuovo.
Già Renzo De Felice si esprime in tal senso quando, parlando degli scioperi, sostiene: “In parecchi casi è assolutamente da escludere che su esse avessero influito motivazioni di ordine politico. A muovere i lavoratori erano essenzialmente la crescente precarietà delle loro condizioni di vita, spesso drammaticamente accresciuta dagli effetti devastanti dei bombardamenti aerei, dai ritardi nella distribuzione dei generi tesserati, dalla riduzione del supplemento pane di cui godevano gli addetti ai lavori pesanti (e dal quale erano escluse le donne), la delusione per la mancata corresponsione del “Premio del Ventennale” e delle indennità di disagio e di sfollamento loro annunciato, la – inadempienza, gli abusi, l’esosità – di una parte dei datori di lavoro che si rifiutavano di corrispondere salari superiori ai minimi contrattuali, retribuivano scorrettamente i cottimi, facevano ampio ricorso a multe e non volevano pagare le ore lavorative perdute a causa dei bombardamenti aerei, la durezza delle condizioni di lavoro e disciplinari che caratterizzavano numerose aziende militarizzate e, in qualche caso, la solidarietà verso i compagni di lavoro denunciati o arrestati o arruolati per essersi più esposti nel corso degli scioperi nel corso degli scioperi stessi o perché considerati politicizzati” <144.
Fanno eco a De Felice le parole della sentenza che, lungi dall’individuare promotori politici, finiscono coll’accettare l’assenza di obiettivi politici dagli scioperi milanesi del marzo 1943, la quale, a detta dei giudici, finisce con il diventare un’attenuante di peso sulla bilancia della giudizio finale: “Poiché il fatto, com’è risultato al dibattimento dalle deposizioni dei dirigenti dei diversi stabilimenti industriali non ebbe gravità eccessive, nei fini politici, si ritiene giusto irrogare la pena di un anno di reclusione per ciascuno dei suddetti imputati, accordando agli stessi, per i loro buoni precedenti penali il doppio beneficio della condanna condizionale e della non menzione della pena nel certificato del casellario” <145.
Alla fine 28 operai furono assolti, mentre 22 furono condannati a pene variabili da otto mesi a un anno di reclusione militare (convertita in reclusione ordinaria); a tutti fu esteso il beneficio della condizionale.
Questo nonostante fosse chiaro che alla base degli scioperi non vi fossero sempre e soltanto disagi economici, sfociati ormai da tempo in pressanti richieste di miglioramenti salariali e delle condizioni di vita <146. Oltre a tutto ciò ci fu anche, come è noto, un tentativo di dare alle proteste una direzione politica da parte delle organizzazioni antifasciste, soprattutto del Partito Comunista, il meglio strutturato sul territorio. Come ha osservato Giorgio Candeloro:
“Non c’è dubbio che l’azione dei gruppi comunisti sorti allora o ricostituiti in varie fabbriche piemontesi e lombarde, piccoli ma capaci di esercitare una notevole influenza sui compagni di lavoro, ebbe una funzione importante nella preparazione degli scioperi, ai quali fu dato un certo carattere antifascista grazie alla diffusione di volantini incitanti all’agitazione. Ma se si tien conto che in parecchie fabbriche la presenza di cellule comuniste (spesso isolate per lunghi periodi dagli organi direttivi del partito) non si era mai completamente interrotta, senza che peraltro esse fossero mai riuscite dal ’25 in poi a provocare agitazioni rilevanti, si deve dire che i grandi scioperi del ’43 furono veramente un fatto nuovo, indicativo, non solo di una certa ripresa dell’attività dei comunisti, ma soprattutto dell’inizio di una forte riscossa della classe operaia” <147.
Gli operai, infatti, e in alcuni casi anche quelli milanesi <148, non si erano organizzati spontaneamente, ma erano stati convinti da “sobillatori” di cui però la giustizia militare non aveva prove concrete e che avevano finito col dare, attraverso la protesta operaia, voce all’opposizione politica al regime.
Oltre gli scioperi del marzo 1943, l’attività del Tribunale militare territoriale di Pace di Milano fu quasi sempre occupata da procedimenti riguardanti i lavoratori mobilitati o precettati, al punto che tra le sentenze relative ai procedimenti processuali nei due mesi precedenti il 25 luglio, tra il 7 giugno e il 31 luglio 1943, su un totale di 305 imputati, sanzionati da 203 sentenze, 172 erano civili militarizzati (TAB. 1/A) <149.
I reati principali di cui i civili erano accusati erano l’abbandono o l’allontanamento illecito dal posto di lavoro, la sospensione volontaria del lavoro, l’ostruzionismo, le grida sediziose, la detenzione illecita di oggetti militari, il furto, la truffa e altri reati comuni perpetrati ai danni dell’amministrazione militare o di beni pubblici.
Nonostante la frequenza delle condanne, queste non arrivavano mai a superare l’anno di reclusione; la pena nella maggior parte dei casi risultava quasi sempre sospesa per le stesse motivazioni già emerse in merito agli scioperi milanesi del marzo 1943: condizione giuridica degli imputati, nella maggior parte dei casi incensurati, ed estensione del beneficio della condizionale.
Le udienze si tenevano dalla mattina alle 9.00 sino alle prime ore del pomeriggio; in una sola giornata, il 7 giugno 1943, furono emesse undici sentenze riguardanti undici imputati tutti accusati di abbandono di servizio. Tale reato, sanzionato dall’art. 243 del Cpmp, assimilava l’abbandono del posto di lavoro alla diserzione, che diveniva tale dopo il quinto giorno d’assenza ingiustificata, limite che tutti gli undici imputati avevano raggiunto. La pena prevista arrivava sino a un massimo di due anni di reclusione e cinque operai vennero, effettivamente, condannati a pene che andavano da quindici giorni a otto mesi. A tutte le sentenze di colpevolezza venne comunque esteso il beneficio della condizionale <150.
Gli imputati militari processati nello stesso lasso di tempo furono “solo” 133, il che dimostra quanto i procedimenti verso civili assorbissero molto tempo degli Uffici giudiziari militari, come, proprio nel mese degli scioperi, aveva fatto notare al Ministero della Guerra, il Procuratore generale Ovidio Ciancarini <151. Tra i reati compiuti da militari oltre alla diserzione e alla mancanza alla chiamata, che comparivano con una frequenza maggiore, vi erano reati come la procurata infermità, l’allontanamento illecito, sino a infrazioni più “comuni” come furto, peculato e grida sediziose <152.
Nello stesso periodo il Tribunale militare territoriale di Guerra di Milano emise 73 sentenze per un totale di 82 imputati di cui solo tre mobilitati civili (TAB. 1/B)153. Il numero esiguo era ovviamente dettato dal fatto che la Lombardia, corrispondente alla giurisdizione territoriale del tribunale militare non venne dichiarata in stato di guerra sino al 29 luglio, per cui la competenza spettava al Tribunale militare territoriale di Pace. Gli unici processi a carico di civili riguardavano un episodio di danneggiamento volontario di macchinari e due casi di abbandono di servizio a carico di lavoratori militarizzati che avevano lasciato arbitrariamente il lavoro rimanendo assenti oltre cinque giorni. Per tutti era stata considerata l’aggravante prevista dall’art. 47 del Cpmp, ovvero l’aver commesso il fatto in zona di guerra. Era quindi l’aggravante a rendere competente il tribunale militare di guerra, la cui pertinenza, in questo caso territoriale, derivava dal fatto che tutti gli imputati erano stati arrestati in quel di Milano <154.
Poi arrivò il 25 luglio e con il governo Badoglio si ebbe l’estensione a tutto il territorio nazionale dello stato di guerra, il che comportò la soppressione del tribunale militare di pace. Per tutti ora avrebbero funzionato solo i collegi giudicanti di guerra, i cui compiti si dilatarono anche nella sfera dei civili, che continuarono a essere soggetti al Cpmp a cui, però, venivano applicati i principi dei tribunali di guerra: inappellabilità delle sentenze e immediatezza del giudizio (nei limiti del possibile, visto il grande numero di casi trattati).
D’altra parte l’ordine pubblico e la produzione industriale dovevano essere tutelati e la proclamazione dello stato d’assedio, il divieto di sciopero, il prolungamento del coprifuoco dal tramonto all’alba, l’ampliamento dei poteri militari, tutte cose volute da Badoglio, andavano in questo senso. A chiarire ulteriormente le idee in una situazione comunque caotica, intervenne la circolare del generale Mario Roatta, capo di Stato Maggiore dell’ Esercito, affissa ai muri della città: i soldati avevano facoltà di aprire il fuoco contro qualsiasi malintenzionato, mentre per i disturbatori sorpresi dalle autorità militari e di pubblica sicurezza si sarebbero aperte le porte delle prigioni militari. I tribunali militari, poi, in sede di sentenza e in caso di condanna, avrebbe convertito la reclusione militare in detenzione ordinaria. Tutto nell’assoluta convinzione del generale Roatta che “poco sangue versato inizialmente risparmi fiumi di sangue in seguito” <155, con il chiaro intento di stroncare inesorabilmente sul nascere ogni movimento, muovendo contro ogni individuo che perturbi l’ordine pubblico o, semplicemente, non si attenga alle prescrizioni delle autorità militari. Roatta concludeva con l’ordine ai soldati di procedere in formazione da combattimento, facendo fuoco a distanza, “anche con mortai e artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche”156. Eppure Roatta pur ribadendo la funzione giudicante dei tribunali militari, non aveva grande fiducia nella giustizia militare. Infatti il 25 agosto in una relazione inviata allo Stato Maggiore sulle condizioni dell’esercito a proposito della incapacità dei tribunali militari di comprendere appieno la situazione generale sosteneva che:
“Durante tutta questa guerra, salvo lodevoli eccezioni, il comportamento dei tribunali militari di guerra è stato impari alle necessità contingenti ed ha dato luogo a continui rilievi da parte dei comandi competenti.
Peggio ancora avviene ora, quando si tratta, ovunque di giudicare anche dei civili per reati od imputazioni di indole non militare.
I procuratori militari, provenienti in tempo di guerra per la maggior parte dalla magistratura ordinaria o da avvocati che abbiano esercitato la professione civile per un certo numero di anni – non hanno compreso che la funzione principe dei tribunali di guerra non è quella di “fare della legge o della procedura”, ma bensì quella di contribuire a mantenere una ferma disciplina ed un ordine pubblico assoluto.
Donde cavillosità, incertezze, lungaggini, eccezioni di ogni genere, provvedimenti immediati e di estremo rigore per presunti “abusi di autorità” e provvedimenti miti e procrastinati per reati gravi intaccanti veramente la compagine dei reparti.
I presidenti, scelti tra ufficiali della riserva o comunque in s.p.e. (servizio permanente effettivo), dopo che le loro categorie sono state schiumate per incarichi ritenuti più importanti, nominati magari ( a puro titolo si sussidio) dopo che abbiano fallito in uno o più dei suddetti incarichi , sono sovente inadatti alle loro funzioni.
I giudici tratti dagli ufficiali delle armi combattenti per la maggior parte delle categorie in congedo senza speciale preparazione e che sovente già da tempo immemorabile hanno perduto il contatto con la vita di reparto, di solito non hanno nulla di militare; tendono al quietismo e vanno a rimorchio delle argomentazioni più o meno cavillose dei procuratori” <157.
Al di là delle considerazioni di Roatta e della sua sfiducia nei confronti dei giudici e dei magistrati della giustizia militare, emergono alcuni problemi reali che ritorneranno ciclicamente, finendo con l’influenzare pesantemente l’operato delle corti marziali sino agli ultimi mesi del conflitto.
In primo luogo l’accusa di immobilismo della procura militare, più dedita ad esercizi da “azzeccagarbugli”, nel “fare della legge e della procedura e nel formulare argomentazioni più o meno cavillose”, anziché pensare all’emergenza nazionale e all’ordine pubblico. Una procura militare che finiva inevitabilmente con il convincere i Presidenti dei tribunali, spesso digiuni di nozioni giuridiche, delle loro teorie che finivano, quasi sempre, a dare loro ragione. La Procura militare era il vero nemico per Roatta che nel suo giudizio era impietoso anche nei confronti dei giudici, spesso inadatti al ruolo per la loro provenienza dalle categorie in congedo e quindi lontani da troppo tempo dalla vita militare; anche loro concludeva Roatta contribuivano a rendere l’ambiente della procura “grigio, lento, dubbioso, incline alla scappatoia e alla longanimità, paragonabile ad una procura o a una “concilitatura” di provincia , e non certo a un tribunale di guerra, degno di questo nome” <158.
Era quindi necessario dare tassativi ordini ai procuratori militari che chiarissero definitivamente il loro ruolo, sottomettendolo alla ragion di stato o meglio alle ragioni di ordine pubblico. Si doveva poi procedere alla nomina di presidenti e di giudici in s.p.e. Servizio Permanente Effettivo), cercandoli anche tra i reparti operativi, oppure, nel caso ciò non fosse possibile, costituendo tribunali minori di divisione se non addirittura di corpo, dediti a una “procedura molto spiccia, tipo tribunali straordinari”. D’altra parte anche i reparti militari non erano completamente estranei al clima sovversivo che serpeggiava in Italia in quel momento, motivo per cui Roatta concludeva la propria relazione ammonendo a “comminare pene molto più severe per i militari che si lascino andare a manifestazioni sovversive e per gli ufficiali che le tollerino” <159.
Il Procuratore generale Ovidio Ciancarini, tentando di ridimensionare le critiche di Mario Roatta nei confronti della Giustizia militare, rispondeva indirettamente all’interessato con una lettera inviata al Capo di Stato Maggiore generale Vittorio Ambrosio e, per conoscenza, recapitata allo stesso Roatta. Ciancarini, pur ammettendo un ritardo iniziale nell’efficacia delle corti marziali, sosteneva la necessità di fare in modo che il processo, seppur immediato, “culminasse in sentenze inattaccabili, che non appaiano superficiali e frettolose”. Per far ciò era necessario fornire al giudice perizie, testimonianze, indagini sul luogo, ossia tutti gli elementi utili necessari per giudicare, che difficilmente, ammetteva Ciancarini, “si riesce a fare entro i dieci giorni dall’arresto, ossia al termine prefisso dall’art. 379 del Codice penale militare di pace per l’applicazione del giudizio direttissimo” <160.
Il procuratore generale continuava il discorso richiamando alla memoria alcuni casi di giustizia immediata che si era dimostrata eccessivamente arbitraria e poco sensibile all’impatto sull’opinione pubblica: “Giustizia rigida e severa sì, ma non esagerata e, peggio ancora, arbitraria. a. A Linguaglossa due marinai hanno abbandonato il loro posto di guardia e si sono vestiti in borghese per recarsi in famiglia. E’stata riunita una commissione composta da un maggiore, da un tenente, da un brigadiere dei CC.RR, la quale si è limitata dichiarare disertori i due marinai e a riferirne al comandante della divisione, il quale ha ordinato la fucilazione dei due colpevoli, pena subito eseguita. Questa è giustizia sommaria e non rispetto delle leggi patrie, secondo le quali doveva convocarsi un tribunale di guerra straordinario (art. 283 del codice di guerra).
Non bisogna dimenticare che ogni buon soldato, e specialmente chi ha l’onore del comando, deve osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato [Vedi Regolamento di Disciplina: premessa e funzionamento, aggiunto a mano da Ciancarini, n.d.r.]. b. La fucilazione avvenuta a Pisa, d’ordine d’un capitano dei CC.RR. (che si è basato sulle disposizioni dello S.M.R.E., circ. 23978 del 27/7/1943, Circolare Roatta, n.d.r.) di un individuo che aveva aggredito un appuntato dei CC.RR., repressione avvenuta non al momento e sul luogo dell’accaduto, ma in località appositamente prescelta, dopo aver condotto in caserma il colpevole e dopo averlo interrogato, mezz’ora dopo il fatto, ha destato penosa impressione in quella popolazione , ha causato numerose proteste che continuano a pervenirmi ed avrebbe avuto chissà quale risonanza se la stampa (per la quale intervengo continuamente presso il Ministero della Cultura Popolare) avesse reso i fatti di pubblico dominio” <161.
L’opinione del Procuratore generale del Regio Esercito, da uomo navigato della giustizia militare, era che si dovesse fare attenzione anche all’uso delle espressioni che potevano essere liberamente interpretate. A frasi come l’inequivocabile “passare per le armi” (punto 9 della circolare Roatta), era preferibile sostituire “fare un immediato uso delle armi”, adeguandosi all’art. 41 del Cpmp. Si sarebbe evitato, in questo modo, di suscitare nella popolazione le impressioni negative dell’episodio di Pisa <162.
Infine, nel tentativo di difendere i codici e il personale della magistratura militare Ciancarini faceva presente che “i vigenti codici penali militari sono stati elaborati da commissioni miste di magistrati e di alti ufficiali e sono stati approvati da una commissione interparlamentare , della quale facevano parte alcuni generali, senatori del regno, i cui nomi, resi illustri nelle passate guerre, onorano ancora oggi l’Esercito e il paese. […] Sono le leggi così preparate quelle che i giudici devono rigorosamente applicare. Ai tribunali militari, cui spetta tale compito, si può richiedere quindi l’applicazione di tali disposizioni, ma non la punizione sommaria e perciò illegale dell’imputato” <163.
Sull’attività dei tribunali militari dal 25 luglio all’8 settembre, non si hanno molti dati generali, se non ascrivibili alla serie di promemoria settimanali che forniscono indicazioni sull’attività della giustizia militare. Tali informazioni riservate a Mussolini e ora a Badoglio, parlano di 6.760 procedimenti conclusi tra il 25 luglio e il 4 settembre, di cui 1.555 assoluzioni e 5.205 condanne <164. Ovviamente si tratta in parte di processi che risalgono a tempi precedenti rispetto gli eventi seguiti al 25 luglio, ma molti riguardano proprio il periodo badogliano.
Così Giorgio Rochat chiarisce i dati generali sulla giustizia militare durante i “45 giorni”: “Non è tuttavia facile capire come ripartire le 2.969 condanne di questo periodo a carico di estranei alle forze armate tra quelle emanate nelle regioni balcaniche, quelle che colpivano reati comuni (ad esempio 356 condanne per furto e ricettazione) e infrazioni normali della legislazione d’emergenza (come 158 condanne per sottrazione di merci all’ordinario consumo e 103 per infrazioni annonarie) e infine quelle riconducibili alla repressione delle manifestazioni politiche e delle agitazioni operaie. Secondo un calcolo approssimativo queste ultime sono un migliaio (354 per abbandono di servizio o del lavoro, 125 per grida e manifestazioni sediziose, 401 per violazione di ordinanze, 28 per sciopero, 22 per insubordinazione rispetto alla superiore gerarchia tecnica, 43 per ostruzionismo, 31 per oltraggio a pubblico ufficiale, che per comprende certamente un’aliquota di condanne relative a fatti anteriori o commessi nelle regioni balcaniche” <165.
Tuttavia come gli scioperi del marzo del 1943, pur rappresentando un campanello d’allarme, non furono in grado di assestare un colpo serio al regime impegnato in una guerra che veniva sempre più avvertita come “fascista”, le manifestazioni e i disordini non costituirono alcun problema per Badoglio <166. A Milano, poi, nonostante la situazione apparisse particolarmente caotica a causa delle manifestazioni spontanee di giubilo popolare succedute alla caduta del fascismo, alle agitazioni operaie nelle fabbriche e finanche a una ribellione dei detenuti comuni di San Vittore <167, l’ordine, dopo le concitate giornate del 26 e del 27 luglio, era stato infine ristabilito. Alla fine Milano non era che lo specchio di una nazione in stato d’ assedio permanente. Questa particolare capacità di reprimere i moti popolari del luglio 1943 e nel presidiare l’ordine pubblico è ben dimostrata da una parte delle 181 sentenze emanate dal tribunale militare di guerra tra il 2 agosto (data di effettiva assunzione di tutti i poteri) al 10 settembre 1943. (TAB. 2) In quel lasso temporale il tribunale si riunì 23 volte, emettendo complessivamente 181 sentenze per un totale di 223 imputati, dove il numero dei civili processati (137) superava quello dei militari (86). Pur considerando che molti procedimenti erano stati ereditati dal tribunale militare territoriale, riferendosi a eventi precedenti il 25 luglio, è innegabile che le forze di pubblica sicurezza e l’esercito impegnato in compiti di ordine pubblico, mettendo in pratica le restrizioni previste dai decreti Badoglio, avevano contribuito ad aumentarne il numero. Infatti si trattava soprattutto di processi celebrati per giudizio direttissimo (il cui termine per l’applicazione era di dieci giorni dall’arresto), come dimostrano le sentenze emesse tra il 2 e il 5 agosto contro 51 civili, arrestati durante alcune manifestazioni spontanee succedutesi tra il 25 e il 28 luglio. I reati loro addebitati si riferivano a infrazioni al coprifuoco, abbandono ingiustificato del posto di lavoro, ostruzionismo al lavoro, manifestazione sediziosa, oltraggio, saccheggio, propaganda sovversiva, resistenza, ingiuria e violenza alla superiore gerarchia tecnica. Molti casi erano riconducibili alla repressione delle manifestazioni politiche e delle agitazioni operaie, come quello relativo al processo di M. B. di anni 23 e A. B. di anni 40, arrestati il 29 luglio, mentre cantavano per strada un inno sovversivo. Fermati dai carabinieri furono tradotti alle carceri di San Vittore con l’accusa, ribadita in sede processuale, di aver “fatta propaganda per la instaurazione della dittatura di una classe sociale ed il sovvertimento violento degli ordinamenti politici e sociali dello stato” <168. Per entrambi poi vi era l’aggravante di essere stati sorpresi armati di pugnale. Solo il 3 agosto vennero giudicati 15 civili con la stessa accusa, tutti colpevoli di aver agito contro lo Stato in concorso tra loro nelle giornate tra la sera del 25 e la giornata del 28 luglio; cinque imputati (tre uomini e due donne) furono accusati di aver approfittato “di circostanze tali da ostacolare la pubblica e privata difesa, commessi fatti di devastazione e saccheggio” <169. Tre operai metalmeccanici furono incriminati per “aver fatto propaganda per distruggere o comunque deprimere il sentimento nazionale gridando agli operai dello stabilimento Broni Baresi: – Basta con la produzione bellica … deve finire la guerra! -” <170 . Dello stesso tono risultava l’imputazione nei confronti di A. B., muratore, che il 27 luglio 1943 “si presentava all’ingresso dello stabilimento Redaelli in via Rogoredo a Milano, ove ad alcuni operai diceva che non si lavorava, incitandoli ad abbandonare il lavoro, svolgendo tale propaganda al fine di deprimere il sentimento nazionale” <171. Oppure il fabbro Z. G. che “il 28 luglio all’ingresso dello stabilimento Edison di via Giampiatrino 24, istigava gli operai, colà transitanti,ad astenersi dal lavoro e a continuare le rappresaglie contro i fascisti” <172. Ed era sempre un operaio, mobilitato civile, dell’Innocenti ad essere arrestato il 28 luglio con le accuse di ostruzionismo e di propaganda sovversiva, avendo “invitato gli altri operai ad astenersi dal lavoro e per aver diffuso manifestini incitanti al sovvertimento violento degli ordinamenti sociali costituiti nello stato” <173. La caduta del fascismo diventava anche l’occasione per compiere facili vendette contro i fascisti che nella maggior parte dei casi avevano ben pensato di eclissarsi. Sempre il 28 luglio veniva processata la sig.na C. M. imputata di lesione personale aggravata nei confronti di B. L. che “si era introdotto nella di lei abitazione con l’intenzione di percuotere il di lei amante P. G., fascista, e, colpita con pugni da parte del L., aveva dato di piglio a una bottiglia contenente del liquido per lavare biancheria e l’aveva lanciata contro L. cagionandogli una lesione all’occhio destro” <174. P. R. e R. V., invece, furono presi dalla polizia il 25 luglio alle ore 22.00, pochi istanti dopo che la radio aveva annunciato la fine del governo Mussolini, mentre facevano propaganda “per la instaurazione violenta del partito comunista e il sovvertimento degli ordinamenti politico sociali dello stato, mediante dimostrazioni in gruppo, con bandiera rossa portante l’emblema del partito predetto e canto di inni sovversivi”. Per loro si profilava una condanna, poi effettivamente comminata, a due mesi di arresto non solo per la manifestazione sovversiva, ma per aver, con tale comportamento, “contravvenuto alle ordinanze emanate dalle competenti autorità militari per l’ordine pubblico” <175. Contestualmente aumentava il numero degli arresti per porto abusivo di armi, fenomeno in crescita, ampiamente provato da numerose sentenze in merito, come dimostra il caso di A. R., condannato a un anno di reclusione in quanto “trasgrediva l’art. 4 del Bando Badoglio del 27 luglio 1943 […] perché nei giorni 26, 27, 28 luglio 1943 usciva dalla propria abitazione in Milano armato di rivoltella” <176. Anche i militari non sfuggivano alla rabbia popolare come provava il caso di M. P. che il 29 luglio gridava all’indirizzo di un gruppo di militari:” Non siete Italiani, non avete più alcuna autorità, sono padrona di fare e dire quello che voglio” <177. Gli stessi militari, non raramente, si mescolavano alle manifestazioni popolari, diventandone, in alcuni casi, assoluti protagonisti: “nel pomeriggio del 26 luglio 1943, il fante F. G. aizzava alcuni individui contro il Commissario Prefettizio del comune di Villasanta (MI) che pronunciavano al suo indirizzo i seguenti improperi: DELINQUENTE – MASCALZONE – FARABUTTO – IMBOSCATO ed altri titoli generici” <178. Le condanne per le infrazioni al bando Badoglio furono comminate senza condizionale sino al 25 agosto, solo in seguito a tale data, il tribunale cominciò ad assolvere con maggiore frequenza e a sospendere le pene. La paura dei bombardamenti che colpivano ferocemente Milano portò le autorità militari a trasferire il tribunale dalle aule del Palazzo di giustizia alle più tranquille sale del palazzo municipale di Seregno, paese brianzolo in provincia di Milano, che all’epoca contava solo qualche migliaio di abitanti. Qui, al riparo dalle bombe alleate, l’attività dei giudici continuò indisturbata sino al 10 settembre <179. L’otto settembre, giorno in cui, mentre la fuga del re e di Badoglio lasciava l’esercito in balia di se stesso, il tribunale militare di guerra di Milano si riuniva senza apparenti segni di crisi. In quella drammatica giornata vennero emesse otto sentenze contro militari accusati di mancanza alla chiamata e di furto. Poi, dal giorno dopo, a dirci che qualcosa era cambiato è il numero dei giudici che componeva il collegio giudicante, fino al giorno prima formato da cinque elementi (presidente, giudice relatore e tre giudici), ora risultava formato solo da tre soggetti. Restavano a comporre il collegio giudicante solo il presidente (tenente colonnello Di Fanteria Antonio Cavalli), il Giudice relatore (tenente di fanteria Gerolamo Lanteri) e un Giudice (capitano degli alpini Cherubino Senesi) che nella sola giornata del 9 settembre sentenziarono contro otto imputati accusati tutti di assenza arbitraria dal lavoro. Mentre la situazione militare precipitava e i tedeschi occupavano la Penisola, dando il via all’operazione “Alarico”, il Tribunale militare di Milano trovava il tempo per continuare i processi comminando, nella sola giornata del 9 settembre, cinque condanne da un mese a sei mesi di reclusione, condanne sospese “per anni cinque e di non farsi menzione delle condanne nel certificato del casellario giudiziale, sotto le comminatorie di legge” <180. Il giorno dopo tutto riprese come al solito; il collegio giudicante era formato ancora da cinque elementi che sentenziarono contro cinque civili imputati per lo stesso reato: abbandono di servizio. Quattro vennero assolti per insufficienza di prove, mentre uno solo, responsabile, “quale imputato diurnista, mobilitato presso il comune di Sesto San Giovanni, di aver abbandonato arbitrariamente e definitivamente il lavoro il 12 novembre 1942”, fu condannato alla pena di un mese di reclusione. Anche in questo caso la pena fu sospesa <181.
Dal 10 settembre il Tribunale militare territoriale di guerra di Milano non si riunirà più. Dal gennaio del 1944 nell’ambito della neonata Repubblica Sociale Italiana comincerà a funzionare il tribunale Regionale di Guerra che, come vedremo, sarà formato da alcuni giudici e magistrati che già operavano nell’ambito del precedente tribunale. La maggior parte dei giudici preferirà non aderire.

[NOTE]
127 Regio Decreto 29 Luglio 1943, n. 668, Soppressione del Tribunale speciale per la difesa dello stato. Il Tribunale speciale per difesa dello Stato fu istituito con la Legge del 25 novembre 1926, n. 2008; durante il Ventennio fu responsabile di numerose sentenze contro imputati politici e di aver reintrodotto, grazie alla legge istitutiva del tribunale, la pena di morte. Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato era regolato dalle disposizioni del Codice penale militare in tempo di guerra, quindi ricorsi o impugnazioni delle sentenze da parte degli imputati erano del tutto impossibili. Cfr. A. Dal Pont, A. Leonetti, L. Zocchi, Aula IV. Tutti i processi del tribunale speciale fascista, Annoia, Roma 1961, p. 548.
Il Tribunale speciale fu abrogato con Regio Decreto 29 Luglio 1943, n. 668 e, dopo la nascita della RSI, ricostituito con D.L. del 3 dicembre 1943, n. 794, Ricostituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. “Dopo la soppressione, i tribunali militari furono investiti delle sue competenze, che mantennero sino al gennaio 1944, ossia sino a quando tornò a funzionare il Tribunale speciale per la difesa dello Stato repubblicano. Il tribunale speciale della RSI, il cui Presidente fu il generale Mario Griffini, operò fino alla Liberazione ed ebbe sede prima a Mantova e, dal 27 gennaio 1944, a Cremona e con sezioni regionali a Roma, Firenze, Genova, Venezia, Bologna e Perugia, oltre Milano e Torino aggiunte nel 1944. I giudici appartenevano alla Guardia nazionale repubblicana e spesso provenivano dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale”. E. Lodolini, Dal governo Badoglio alla Repubblica italiana: saggio di storia costituzionale del quinquennio rivoluzionario, 25 luglio 1943- 1 gennaio 1948, Associazione culturale Italia, 2010, p. 35. Vd. anche D.L. del 3 dicembre 1943, n. 794, cit., e il D.M. del 26 dicembre 1943, n. 881, Estensione della proroga per la restituzione della competenza dai Tribunali militari al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
128 Sull’acquisizione delle competenze del Tribunale speciale da parte dei tribunali militari risulta interessante l’osservazione fatta dal Procuratore Ovidio Ciancarini, che, in polemica sull’abuso della giustizia militare con il Capo di Stato maggiore, generale Mario Roatta, il 22 agosto 1943, afferma: “e nemmeno sembra opportuno che qualche comando insista perché in un determinato fatto venga ravvisata una figura di reato assai più grave di quella dal magistrato ritenuta, sebbene non siano acquisiti tutti gli elementi indispensabili per potere legittimamente pervenire a un’affermazione di responsabilità nel senso voluto. Forzare i termini della legge penale esistente, allo scopo di pervenire all’applicazione di una pena più grave, può avere il deprecato effetto di attirare sui tribunali militari quella severa critica, che la pubblica opinione ebbe a rivolgere ad altri organi giudiziari”ˇ. AUSSME, Fondo L/14, busta 33, fascicolo 5, 1943 agosto 22, Lettera al Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, gen. Mario Roatta, dal Procuratore generale Ovidio Ciancarini.
129 L’articolo 217 del Testo unico per le leggi di pubblica sicurezza cita testualmente: “qualora sia necessario affidare all’autorità militare la tutela dell’ordine pubblico, il Ministro dell’Interno con l’assenso del capo del governo, o i prefetti, per delegazione, possono dichiarare con decreto, lo stato di guerra”.
130 Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 146. L’art. 216 stabiliva l’entità della pena prevista per i contravventori alle ordinanze per la tutela dell’ordine pubblico che prevedeva l’arresto non inferiore a un anno, salvo le maggiori pene previste dalla legge.
131 Regio Decreto 29 Luglio 1943, n. 668, cit.
132 Regio Decreto 29 Luglio 1943, n. 669. “A norma del Regio Decreto 11 giugno 1940, n. 567, lo stato di guerra era limitato al Piemonte, al versante tirrenico dagli Appennini al mare. Erano inoltre comprese la Sicilia,la Sardegna, la Calabria, le isole degli arcipelaghi sino alla provincia di Taranto”. AA.VV., L’Italia dei quarantacinque giorni, 25 luglio – 8 settembre 1943, INSMLI, Milano 1969, p. 9, n. 39.
133 AUSSME, Fondo L/14, busta 33, fascicolo 5, Lettera al Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, gen. Mario Roatta, dal Procuratore generale Ovidio Ciancarini, cit.
134 L’emanazione dei Bandi era regolata dagli artt. 17 e 20 del Cpmg. A. Manassero, O. Ciancarini, I codici penali militari: parte generale, cit.
135 Cfr. § 1.4 L’organizzazione della Giustizia militare italiana nella prima fase del conflitto (1940-1943).
136 Le ultime cinque sentenze del TMTMi, datate 25 luglio 1943, riguardano sette imputati, di cui cinque militari e tre estranei alle FF.AA., accusati di furto (3), ricettazione (1); mancanza alla chiamata (2); diserzione (1). ASMi, TMTMi, Sentenze dal n. 631 al n. 841, Anno 1943, vol 4, Sentenze n. 837 – 841.
A Milano la fine del tribunale militare territoriale di Pace non ebbe ripercussioni all’interno del personale giudicante o inquirente (giudici e procuratori) che continuò ad esercitare la propria funzione nel tribunale militare di guerra; se i cambiamenti ci furono, ma questo vale come discorso generale su tutti i tribunali militari, si realizzarono per gli imputati militari, che da quel momento vennero comunque giudicati sempre e soltanto secondo il Cpmg. I mobilitati e i precettati civili continuarono ad essere soggetti al Cpmp. Per entrambe le condizioni poi, civile o militare, venivano applicate le circostanze tipiche dei dibattimenti processuali dei tribunali di guerra: processi rapidi e sentenze inappellabili.
137 Per i dati generali sugli scioperi del marzo 1943 si rimanda all’ampia bibliografia: R. De Felice, Mussolini l’alleato, Einaudi, Torino 1990, vol. 1, tomo 2, pp. 932 – 933; AA.VV., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943/44, Milano 1974; D. Bigazzi, Gli operai nell’industria di guerra (1938-1943), in Come vincere la guerra e perdere la pace, a cura di V. Zamagni, Bologna 1997; P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, vol. IV, Einaudi, Torino 1973, pp.168-196; S. Peli, Operai e guerra. Materiale per un’analisi dei comportamenti operai durante la prima e la seconda guerra mondiale, in Tra Fabbrica e Società: mondi operai nell’Italia del Novecento, Volume 33, a cura di S. Musso, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1999, pp. 197-216; AA.VV., La rinascita del sindacato: Dagli scioperi milanesi del marzo 1943 e 1944 al Patto di Roma e al 1° maggio del 1944, Fondazione Giuseppe Di Vittorio, Roma 2005.
138 ASMi, TMTMi, Sentenze dal n. 631 al n. 841, Anno 1943, vol. 4, Sentenza n. 686, 1943 giugno 26. Le informazioni riguardanti l’operato del tribunale militare di Milano nei confronti dei responsabili degli scioperi milanesi del marzo 1943 sono principalmente desunte dalla sentenza individuata nel fondo indicato.
139 T. Manson, Gli scioperi di Torino nel marzo 1943, in AA.VV., L’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano 1988, ma anche G. Vaccarino, Gli scioperi del marzo 1943. Contributo alla storia del movimento operaio a Torino,in Id. Problemi della Resistenza italiana, S.T.E.M. Mucchi, Modena 1966.
140 G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. La seconda guerra mondiale, il crollo del fascismo, la Resistenza, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 114-116.
141 ASMi, TMTMi, Sentenze dal n. 631 al n. 841, cit., Sentenza n. 686, 1943 giugno 26.
142 A. Accornero, Problemi del movimento sindacale in Italia, 1943 – 1973, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1976, pp. 139 e sgg.
143 ASMi, TMTMi, Sentenze dal n. 631 al n. 841, cit., Sentenza n. 686, 1943 giugno 26, p. 9.
144 R. De Felice, Mussolini l’alleato, cit., pp. 932 – 933.
145 ASMi, TMTMi, cit., Sentenza n. 686, p. 9. Il collegio giudicante era composto da: Presidente: generale Cino Gaggiotti; Giudice relatore: maggiore Ettore Acerra; Giudici: colonnello Mario Longoni, colonnello Luigi Cordone, Seniore della MVSN Piero Rezzani. Pubblico Ministero: tenente colonnello Rinaldo Vassia. Vd. Appendice – Documento N. 1.
146 Tra le ragioni della protesta milanese si evidenziano sostanzialmente richieste di aumento di salario e di miglioramento sulle razioni del tesseramento annonario. Sulla carenza di vitto vi sono numerose testimonianze dei lavoratori: “L’imputato B., è accusato anche dai testi ing. V. e A., che assicurano che il B. interrogato perché aveva sospeso il lavoro rispose che non lavorava perché aveva fame” oppure “Il teste C. M., consigliere delegato delle Trafilerie Castoldi nella sua deposizione al dibattimento conferma che quando L. fu interrogato sul perché non riprendeva il lavoro rispose: Il sacco vuoto non sta in piedi”. ASMi, TMTMi, Sentenze dal n. 631 al n. 841, cit., Sentenza n. 686, p.10. 147 G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. La seconda guerra mondiale …, cit., pp. 114-116. 148 L. Ganapini, Una città, la guerra: lotte di classe, ideologie e forze politiche a Milano, 1939-1951, Franco Angeli, Milano 1988, p.45.
149 ASMi, TMTMi, Sentenze dal n. 631 al n. 841, Anno 1943, vol 4.
150 Ibidem, Sentenze 631 – 641.
151 AUSSME, Fondo L/14, busta 33, fascicolo Funzionamento dei tribunali militari, 1943 marzo 30, Circolare riservata dalla Procura Generale Militare ai Procuratori dei tribunali militari.
152 E’ il caso della , n. 679 emessa il 18 giugno 1943 nei confronti di quattro imputati, tutti militari appartenenti al 17° Reggimento fanteria di Cremona recita al capo d’imputazione: “Grida sediziose (art. 183 Cpmp) perché la sera del 19 marzo nella Osteria di Via Magenta in Cremona intonavano l’inno sovversivo “Bandiera rossa”. Nel corso del dibattimento processuale gli imputati si erano difesi sostenendo di aver sì cantato, ma non l’inno sovversivo “Bandiera rossa”, ma una canzonetta popolare dal titolo “Vino rosso”. La giustificazione, poco credibile di per sé, non aveva sortito alcun effetto. Due militari vennero condannati a due mesi di reclusione, mentre gli altri due vennero assolti per insufficienza di prove. ASMi, TMTMi, Sentenze dal n. 631 al n. 841, Anno 1943, vol 4, Sentenza n. 679, 1943 giugno 18.
153 ASMi, TMTMi (Guerra), Sentenze dal n. 160 al n. 319, Anno 1943, vol 2.
154 Ibidem, Sentenze n. 207, 1943 luglio 13; n. 208, 1943 luglio 23; n. 211, 1943 luglio 27.
155 Circolare n. 23.978 dello Stato Maggiore del Regio Esercito, 27 luglio 1943 meglio nota come “Circolare Roatta” in L. Rizzato, 25 luglio: che faranno i tedeschi?, su Storia illustrata n. 257, luglio 1979, p. 16.
156 Ibidem.
157 AUSSME, Relazione del Capo di Stato Maggiore Gen. Roatta, 25 agosto 1943, in R. de Felice, Mussolini l’alleato, Einaudi, Torino 1997, vol. II, p. 560-561.
158 Ibidem.
159 Ibidem, p. 561.
160 AUSSME, fondo L/14, busta 33, fascicolo 5, 1943 settembre 4, Lettera indirizzata al gen. Vittorio Ambrosio e p.c. al gen. Mario Roatta.
161 AUSSME, fondo L/14, busta 33, fascicolo 5, 1943 settembre 4, Lettera indirizzata al gen. Vittorio Ambrosio e p.c. al gen. Mario Roatta.
162 L’art. 41 del Cpmp recita: “Non è punibile il militare che, al fine di adempiere a un suo dovere di servizio, fa uso, ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza. La legge determina gli altri casi, nei quali il militare è autorizzato a usare le armi o altro mezzo di coazione fisica”.
163 AUSSME, Lettera indirizzata al gen. Vittorio Ambrosio e p.c. al gen. Mario Roatta, cit.
164 AUSSME, , fondo H/9, bb. 9 – 12, Promemoria per Mussolini.
165 G. Rochat, Duecento sentenze nel bene e nel male. I Tribunali militari nella guerra 1940 – 43, op. cit, pag. 50.
166 F. Orlando, I 45 giorni di Badoglio, Bonacci editore, Roma 1994, p.13. 167 “La ribellione fu sedata dall’intervento del VII Fanteria, che con una breve azione di fuoco e alcune esecuzioni sommarie aveva riportato l’ordine”. Sulla ribellione di San Vittore del luglio 1943 si veda G. Pugni, Settembre per sempre, USI, Milano 1999.
168 ASMi, TMTMi (Guerra), Sentenze dal n. 160 al n. 319, Anno 1943, vol 2, Sentenza n. 242, 1943 luglio 31. Il tribunale dichiarò i due imputati colpevoli del reato di manifestazione sediziosa e di porto abusivo di armi, condannandoli ciascuno a mesi sei e giorni venti d’arresto ed, in solido, al pagamento delle spese processuali.
169 Ibidem, Sentenza n. 255, 1943 agosto 3.
170 Ibidem, Sentenza n. 258, 1943 agosto 3. Tutti gli imputati furono condannati a un anno di reclusione senza beneficio della condizionale.
171 Ibidem, Sentenza n. 246, 1943 luglio 28.
172 Ibidem, Sentenza n. 263.
173 Ibidem, sentenze n. 301.
174 Ibidem, sentenza n. 256.
175 Da notare la discrepanza temporale: i due sono arrestati alle ore 22.00 per aver preso parte a una manifestazione di plauso alle dimissioni di Mussolini, che però vennero annunciate alla radio solo alle ore 22.47 del 25 luglio. Ibidem, sentenze n. 255, 258, 259.
176 Ibidem, sentenza n. 303. Sullo stesso reato, punito dall’art. 216 della legge di P.S. e dall’art. 4 del Bando Badoglio, si vedano anche le sentenze n. 257, 260, 262, 299,
177 Ibidem, sentenza n. 312. La P. viene condannata alla pena di sette mesi di reclusione.
178 ASMi, TMTMi, Fascicoli processuali, busta 218, 1943 luglio 27, Denuncia al Procuratore del Re Imperatore di Giuseppe Colombo.
179 A. Rastelli, I bombardamenti aerei della Seconda guerra mondiale: Milano e la provincia, “Italia contemporanea”, n. 195, 1994, pp. 309-342; Id., Bombe sulla città. Gli attacchi alleati: le vittime civili a Milano, Mursia, Milano 1991.
180 ASMi, TMTMi (Guerra), Sentenze dal n. 320 al n. 479, Anno 1943, vol 3, Sentenze n. 447, 448, 449, 452, 453,454.
181 Ibidem, sentenza n. 475. Il collegio giudicante era formato da: colonnello Mario Longoni (Presidente); maggiore Ettore Acerra (Giudice relatore); tenente colonnello Menotti Durante, maggiore Orlando Bernardi, maggiore Enzo Scarsella (Giudici), che, successivamente, aderiranno tutti alla RSI.
Samuele Tieghi, Le corti marziali di Salò. Il Tribunale regionale militare di guerra di Milano (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2012-2013