Le due case editrici che segnarono maggiormente una nuova fase furono Mondadori ed Einaudi

Lo scoppio della Prima guerra Mondiale causò l’interruzione dei rapporti di scambio tra Italia e altri paesi. In seguito, nel territorio italiano, il desiderio da parte delle nuove case editrici di accaparrarsi parti importanti del mercato su ogni settore portò queste ad associarsi tra di loro o con altri enti pur di vincere la concorrenza. Il periodo successivo alla Grande Guerra, che aveva visto diffondersi il romanzo di consumo e di cultura, conobbe le sue principali svolte con l’avvento del Fascismo e con la sua affermazione nel 1926, con le leggi fascistissime, che portò la gran parte delle case editrici ad aderire al programma di «Fascistizzazione della stampa» e alla nascita della Federazione nazionale fascista dell’industria editoriale, con sede prima a Milano, poi a Roma (ad eccezione di Guanda, Laterza, Einaudi, Gobetti, ecc.) <64. La nascita di questa federazione ci spinge a riflettere sulla denominazione degli addetti ai lavori, divisi in editori-industriali e librai-commercianti. Il regime cercò attraverso la mediazione dei suoi dirigenti di avviare un rapporto collaborativo con le case editrici, ormai considerate come spazi determinanti per formare politicamente e culturalmente i cittadini attraverso una propaganda ideologica volta a ottenere e consolidare il consenso. Inizialmente il regime influenzò la produzione e la distribuzione editoriale; tuttavia, la censura venne attuata perlopiù nei periodici e nei quotidiani <65. A partire dal 1926 in ogni libro doveva essere presente la data «dell’era fascista» e, a partire dal 1934, tutti gli editori erano tenuti a consegnare tre copie alla prefettura prima della pubblicazione. La censura s’intensificò negli anni Trenta con la «bonifica dei libri» e l’esclusione dei libri di autori ebrei dai cataloghi della casa editrice e con la condanna di intere collane <66. Si venne a creare un curioso paradosso relativo alla pubblicazione di opere straniere in un ambiente marcato dall’autarchia: sebbene queste fossero quelle che venivano nella maggior parte dei casi escluse, gli anni Venti e Trenta restano il periodo delle grandi traduzioni per via del prezzo contenuto dei diritti d’autore <67. La cultura fascista, fortemente presente all’epoca in ogni ambito della vita quotidiana, veniva trasmessa attraverso le istituzioni promosse dal regime e tutte le case editrici ne furono influenzate in modo diretto, con la conseguente spartizione degli intellettuali italiani tra fascisti e antifascisti <68. Lungo tutto il ventennio si realizzò «una sorta di compromesso politico-culturale tutt’altro che facile da interpretare nel suo complesso» (Tranfaglia 2001: 38), che ebbe come conseguenza la difficoltà di accesso di correnti di pensiero e temi nel dibattito culturale italiano. Nell’insieme la dittatura lasciò una pesante eredità «all’Italia repubblicana sul piano culturale, in particolare per quanto riguarda l’analfabetismo e l’istruzione pubblica» (Tranfaglia 2001: 38). A indebolire alcune case editrici e a rafforzarne altre – tra quelle che si erano specializzate nella scrittura di libri di testo – fu la scelta fatta dal regime di avere il controllo assoluto sui libri scolastici (si pensi al libro unico adottato a partire dal 1928 per i primi due anni delle elementari). Nel complesso, tra le due guerre, come afferma Spinazzola, sia nei libri che nei giornali e riviste ci fu un grande fermento culturale a Milano, dove stava nascendo una nuova generazione di scrittori che ambivano a esercitare la professione di uomini di lettere <69.
2.2. L’ascesa degli editori protagonisti
2.2.1. Nuovi editori tra le due guerre
Gli anni Trenta sono il periodo in cui si pongono le basi per l’affermazione della figura dell’editore protagonista, capace di «imprimere una forte personalizzazione al suo progetto e all’intero processo che va dalla scelta del testo alla veicolazione del prodotto» (Cadioli, Vigini 2004: 75); si tratta di animatori di iniziative che sono andate oltre le case editrici nate nella prima metà del Novecento, dimostratesi inadatte a competere con le nuove, editori in grado di coniugare passione per il libro e capacità imprenditoriali e che hanno fatto la storia come Valentino Bompiani, Roberto Calasso, Giulio Einaudi, Giacomo Feltrinelli, Livio Garzanti, Vito Laterza, Arnoldo e Alberto Mondadori e Angelo Rizzoli <70. La prima definizione è di Valentino Bompiani (Il mestiere dell’editore), secondo il quale editore protagonista è colui che si impegna a capire e a volte ad anticipare i gusti e i bisogni del pubblico, «trasferendo nella scelta la propria natura: curiosità, esigenze, insoddisfazione e orgoglio, dubbi e speranze, che sono nell’aria, condivise dai lettori potenziali» (Bompiani 1988: 102-103). La fase dell’ascesa della figura dell’editore protagonista coincide con uno dei periodi di maggior prestigio dell’editoria libraria italiana. Secondo Ferretti una costante di questa figura è la «convivenza tra forme diverse di mecenatismo e paternalismo da un lato, e di aziendalismo e autoritarismo dall’altro» (Ferretti 2004: 5).
Può essere utile ora osservare la genesi, gli apparati della conduzione e le collane principali delle singole imprese editoriali, ognuna delle quali distintasi per aver reagito diversamente all’influenza del regime. Basterebbe leggere qualsiasi storia dell’editoria italiana del periodo o osservare i cataloghi per rendersi conto dell’intentio editionis, e cogliere le linee guida dei progetti con cui, a partire dal primo dopoguerra, si è cominciato a delineare la nuova editoria italiana. Le due case editrici che segnarono maggiormente una nuova fase furono Mondadori ed Einaudi (Ragone 2005: 69). Attorno al 1925 è da segnalare l’importante passaggio di mano del ruolo di editore-guida dalla Treves alla Mondadori, mentre si assisteva all’ascesa del fascismo e alla corsa ad impadronirsi dei mezzi di comunicazione. Riferendosi al declino di Treves e Sonzogno e alla comparsa di nuove iniziative, Tranfaglia ha precisato che il processo di industrializzazione dell’editoria italiana «si manifestava con la nascita di quei nuovi editori che avrebbero conquistato il mercato nei decenni successivi e con l’inizio della decadenza di quelli che lo avevano egemonizzato nella seconda metà dell’Ottocento» (Tranfaglia, Vittoria, 2000: 141) <71. Arnoldo Mondadori nel primi del Novecento era un operario di una tipografia e finì con il creare un realtà editoriale estesa, capace di rivolgersi a un pubblico vasto riuscendo sia a collaborare con il fascismo sia a uscirne indenne nel Dopoguerra tanto che la sua casa editrice è considerata, oggi, quella che «irruppe la modernità nell’editoria italiana», una modernizzazione tecnologica e dell’organizzazione commerciale (Tranfaglia 2001: 55) <72. Dopo la fine della guerra non ci fu una netta epurazione nel mondo editoriale e restarono nei posti di comando gli stessi uomini che avevano fatto la loro fortuna collaborando con il regime, tra cui Mondadori, che si era imposto nel mercato editoriale grazie alla produzione di «libri da trincea» e arrivò ad assumere un tale potere da avviare l’ambizioso progetto della opera omnia di Gabriele D’Annunzio ed essere il principale editore di autori come Massimo Bontempelli e Giovanni Verga <73. Un aspetto nel quale la Mondadori eccelse fu la bravura nel cogliere i gusti e le esigenze del pubblico, assieme alla capacità di coinvolgere collaboratori (Niccolò Gallo, Elio Vittorini, Vittorio Sereni, Massimo Bontempelli, Cesare Zavattini, ecc.), diventando, da piccola casa editrice, la «più importante sul piano nazionale» (Turi 2018: 41). Il suo fondatore viene oggi giudicato come «il primo vero editore industriale in Italia […] saldamente integrato nella finanza bancaria/industriale» (Rigone 2005: 56) <74. Indipendentemente dai legami o appoggi ricevuti dal fascismo, Mondadori riuscì a creare un’industria di ampio raggio comprendente le pubblicazioni di giornali, opere letterarie e artistiche di vario genere, oltre alla diffusione di librerie e alla ricerca dei diversi canali di distribuzione alternativi <75.
Presso Mondadori cominciò il proprio apprendistato Valentino Bompiani, il quale nel 1929 si mise in proprio dando vita a una ricerca volta ad aprire un varco verso la letteratura anglo-americana. Si pensi in particolar modo al contributo di Cesare Pavese come traduttore dall’inglese e all’antologia «Americana» pubblicata nel 1941 da Vittorini ed emblema di un periodo, tra gli anni Trenta e Quaranta, caratterizzato da pubblicazioni, antologie e in generale da grande fermento, segno di un bisogno di aprirsi a modelli provenienti dall’estero. L’omonima casa editrice rientra nella categoria di quelle parzialmente compromesse con il fascismo, le quali tuttavia riuscirono a non rinunciare all’innovazione, facendosi carico di difficoltà economiche e necessità di sopravvivere al regime (Tranfaglia 2001: 41-42).
Angelo Rizzoli costruì come Mondadori il suo impero dal nulla, a partire dal 1929, concentrandosi sulla produzione di settimanali e successivamente sull’industria cinematografica. A questa casa editrice dobbiamo la collana «Biblioteca Universale Rizzoli», nata in pieno Dopoguerra, nel 1949, ispirata alla serie tedesca «Reclam Verlag» per un simile approccio al rapporto prezzo-pagine e intesa come «la prima grande collana economica del dopoguerra» (Turi 2018: 41). Si tratta di una delle iniziative editoriali più significative del secondo dopoguerra, «la sua linea sobria ed elegante, l’ampia prospettiva e l’interesse delle proposte ne hanno fatto un esempio tra i più straordinari di apertura verso nuovi orizzonti culturali e, al tempo stesso, di ricerca di nuovi pubblici» (Vitiello 2009: 238). La collana perseguì con l’obiettivo di realizzare un progetto di letteratura universale, dall’antichità classica ai giorni nostri, offrendo a un pubblico il più possibile vasto una grande varietà di classici di ogni lingua. In quindici anni vennero pubblicate ottocento opere, molte delle quali divise in più volumi, di classici e moderni, con l’obiettivo di creare una nuova identità, laddove quella che il regime voleva costruire con insistenza si era rivelata effimera. Con questa iniziativa il libro tascabile ha trovato un posto fondamentale, perché ha tenuto conto delle esigenze economiche e dell’idea generale di allargare il pubblico di lettori.
Anche Giulio Einaudi fu sempre abile, come Mondadori, nel riunire attorno a sé giovani intellettuali della nuova generazione interessati a rinnovare non solo la produzione narrativa, ma anche saggistica, storica, filosofica, estetica, economica, ecc. La sua casa editrice, fondata nel 1933, si distinse inizialmente per la pubblicazione di riviste e la sua crescita fu inizialmente ostacolata dalle vicissitudini del periodo, compresi i bombardamenti delle sedi torinesi e le persecuzioni attuate verso alcuni sui collaboratori <76. Il gruppo iniziale era formato da Leone Ginzburg, Giaime Pintor (deceduti durante il periodo della Seconda guerra mondiale), Massimo Mila e Cesare Pavese, ma con il tempo crebbe fino a coinvolgere Norberto Bobbio, Felice Balbo, Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, e artisti come Albe Steiner e Bruno Munari, autori del progetto grafico della collana «Struzzi». Il clima di collaborazione ed entusiasmo venne decritto da Natalia Ginzburg, con riferimento alla Resistenza che aveva creato, inizialmente, un senso di unione e solidarietà:
“C’era un senso di profonda amicizia tra le persone, che era incominciata nel tempo della Resistenza e continuava. C’era alla casa editrice Einaudi un senso di ripresa molto forte, è molto bello; eravamo molto legati, discutevamo moltissimo, pieni di voglia di fare delle cose” (Ginzburg 1999: 52) <77.
Le difficoltà vissute dalla casa editrice nel periodo della fine della guerra, durante il commissariamento avvenuto tra 1943 e 1945, non compromisero – a parere di Claudio Pavese – la casa editrice, che addirittura portò ad accrescere il desiderio di riscatto della casa editrice e del suo fondatore Giulio Einaudi <78. I primi cinque e floridi anni del Dopoguerra furono interrotti dalla morte di Pavese, ma non ne frenarono la crescita, tanto che oggi rimane la più nota casa editrice torinese, a partire dal Dopoguerra, quando si affermò come un riferimento per gli intellettuali politicamente schierati a sinistra e come riferimento culturale del capoluogo piemontese <79. Luisa Mangoni, autrice di un considerevole studio sull’attività Einaudi tra gli anni Trenta e Sessanta, condotto attraverso la ricerca sul materiale d’archivio, riconobbe alla casa la peculiare attitudine dimostrata «nel trasmettere la propria memoria interna e nell’intesserla con la stessa memoria storica della società italiana» (Mangoni 1999: IX). Ne consegue che tracciare una storia dell’Einaudi, in cui vengono inclusi i processi redazionali portati avanti dal gruppo di collaboratori, significa anche avvicinarsi a temi relativi alla storia e alla cultura del periodo.
“È soprattutto nel momento progettuale che si colgono più chiaramente la sintonia o la dissonanza con la cultura del tempo, la capacità di incidere su di essa o il farsene trascinare, in definitiva le ragioni stesse che consentono di individuare nella Einaudi un filo, o un intreccio di fili, per ripercorrere alcuni momenti essenziali di un trentennio di storia della cultura italiana” (Mangoni 1999: 26).
In generale, rispetto a Mondadori, Einaudi, può essere considerata come una casa editrice di ricerca e di sperimentazione, il cui obiettivo di fondo è perseguire un alto livello di qualità (Ferretti 1997: 9) <80. Einaudi si servì, soprattutto all’inizio, dello strumento della rivista; la sua prima mossa fu quella di rilevare «La Riforma sociale» dalla casa editrice Treves, «La cultura», «Politecnico» di Vittorini, «Risorgimento» diretta da Carlo Salinari e «La cultura sovietica» <81. Caratterizzata dall’apertura alla cultura europea e dalla multidisciplinarietà, Einaudi assunse nel Dopoguerra un’importanza a livello nazionale con le collane «I Saggi», «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici» «L’Universale», «Biblioteca di cultura filosofica», «I Gettoni», «I Millenni», «I Coralli», «Narratori stranieri tradotti», «Gli Struzzi», «Collezione di teatro», fino a «Stile Libero» <82.
Nel ’39 Aldo Garzanti fondò la omonima casa editrice rilevando la storica Treves e a partire dal 1952 si specializzò nella stampa di enciclopedie in modo autonomo per via dell’acquisto di uno stabilimento tipografico. Anche questa spicca per il prestigio di consulenti, come Attilio Bertolucci e Giorgio Manganelli, e per l’attenzione alla narrativa dell’epoca; a parere di Ragone sono stati gli intellettuali romani ad aver goduto dell’ascesa della Garzanti per acquisire maggior loro visibilità, così come Garzanti aveva ottenuto grazie a loro il proprio prestigio (Ragone 2009: 304); la pubblicazione di Pasolini e Gadda è così un segno di un interesse che comprende, e va oltre, la stagione dello sperimentalismo. Anche questa oggi fa parte del Gruppo editoriale Mauri Spagnol in cui convergono UTET, Guanda, Corbaccio, Ponte alle Grazie, Neri Pozza. Il gruppo si trova al secondo posto in Italia, per fatturato, dopo il gruppo Mondadori da quando quest’ultima, nel 2016, ha acquisito Rizzoli.
[NOTE]
64 Contemporaneamente nacque anche la Corporazione della carta stampata e la SIAE diventò ente pubblico.
65 Di seguito una dichiarazione di Valentino Bompiani «Come operava la censura fascista? Ufficialmente non esisteva: esisteva il sequestro come provvedimento di polizia, o il silenzio ordinati ai giornali. Agli editori si consigliava nel loro interesse, prima di stampare un libro, di sentire il parere del Ministro della Cultura Popolare: il Ministro se diceva sì, questo non lo impegnava, essendo soltanto un parere; ma molto spesso sconsigliava (che voleva dire no)» (Bompiani 1992: 131).
66 Celebre è la censura dei Gialli Mondadori e dei fumetti per la loro origine americana. Per uno studio dettagliato su censure e sequestri cfr. Giorgio Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino, Zamorani, 1998.
67 Si pensi alle pubblicazioni in Italia delle opere di Conrad, Mann, Proust, ecc.
68 Di seguito alcuni titoli su fascismo ed editoria: Gabriele Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Mulino, 1980; Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti, 1995; Gabriele Pedullà, «Gli anni del fascismo: imprenditoria privata e intervento statale», in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Firenze, Giunti, 1997, pp. 341-382; Irene Piazzoni, «Negli anni del regime: orientamenti di fondo e nuovi orizzonti», in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Firenze, Giunti, 1997, pp. 33-67.
69 Come si è già sottolineato, una delle città più vive a partire dall’Unità risulta essere Milano, destinata a diventare la città dell’editoria. Cfr. «Editori e lettori a Milano tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento», in La città dell’editoria: dal libro tipografico all’opera digitale, 1880-2020, a cura di Giorgio Montecchi, Milano, Skira, 2001, pp. 51-61; Vittorio Spinazzola, «Scrittori, lettori e editori nella Milano fra le due guerre» in Editoria e cultura a Milano tra due guerre (1920-1940). Atti del convegno (Milano 1921 febbraio 1981), Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1983, pp. 21-35.
70 Cfr. «L’editore protagonista» (Ferretti 2004: 3-10); Mario Infelise, La nuova figura dell’editore (Infelise 1997: 55-76). Di seguito la definizione di Ragone degli editori protagonisti: «Geniali, soli, coraggiosi, innovatori, sempre disponibili ma anche scostanti, paranoici, lunatici, schifosamente patronali (Ragone 2009: 302)».
71 Per comprendere le ragioni del declino delle due case editrici si rimanda a Tranfaglia Vittoria, 2000: 140-151.
72 La Mondadori rinata nel Dopoguerra passò dai 335 dipendenti nel 1959 ai circa 3000 nel 1965, con la costruzione della sede progettata dall’architetto Niemeyer. Di seguito le parole dell’editore protagonista tratte dalla monografia di Decleva: «Ho un patrimonio letterario tale da fare impallidire quanto ho fatto nella mia lunga e dura vita editoriale. Ho poi provveduto a prenotare le più perfette macchine dall’America, le materie prime dalla Svizzera, i migliori caratteri, i pittori più valenti, i collaboratori più preziosi» (Decleva 2007: 327).
73 Basti pensare al successo dell’edizione di Dux di Margherita Sarfatti del 1926, anno in cui viene fondato l’«Istituto nazionale per l’edizione di tutte le opere di Gabriele D’Annunzio», per capire la politica adottata nei confronti del regime. Tra le collane di successo si ricordi «Le scie» diretta da Sarfatti, «Libri Gialli» Mondadori dal 1929, «Biblioteca romantica» del 1930 diretta da Giuseppe Antonio Borgese. Dobbiamo a essa anche l’apertura decisa verso la letteratura americana e ad autori come Hemingway, Steinbeck e Faulkner.
74 Questa continua opera di rinnovamento comportò un conflitto tra ideologia e mentalità tradizionale legata al profitto. In una lettera scritta da Alberto Mondadori al padre Arnaldo (Turi 2018: 15) affrontò il tema della direzione politica da seguire per i seguenti decenni: per farsi perdonare il passato collaborazionista con il regime, la casa editrice avrebbe dovuto avvicinarsi alle nuove aree politiche di sinistra per rinnovare il programma e indirizzarsi verso un pubblico nuovo; un invito che venne declinato senza indugi dal padre convinto delle proprie capacità imprenditoriali; cfr. Lettere di una vita (1922-1975). Turi ha ricordato che Arnoldo aveva preferito tornare a puntare sulla narrativa e a potenziare le collane esistenti piuttosto che concentrarsi, come proponeva il figlio Alberto, sulla saggistiche seguendo un preciso progetto culturale (Turi 2018: 42).
75 Questo mutamento di cui parla Ferretti è anche evidente della distribuzione dei libri che cominciarono a circolare anche al di fuori delle librerie: del boom dell’edicola (Ferretti 1994: 37-8) fu protagonista Mondadori a partire dal 1965 con la collana tascabile Oscar, costituita di libri venduti esclusivamente in edicola.
76 La spinta fondamentale fu quella di Leone Ginzburg. Costretto a rinunciare alla carriera universitaria, essendosi rifiutato di giurare fedeltà al regime, fu mandato al confino a Pizzoli, in Abruzzo, dove intese il lavoro editoriale come mezzo per delineare la propria idea di cultura. Ginzburg fu da subito un importante collaboratore – eccezion fatta per i periodi trascorsi in carcere – come esperto di politica e letteratura francese e russa. Nel periodo trascorso al confino, Leone Ginzburg curò le riviste «Biblioteca di cultura storica», «Saggi», «Narratori stranieri tradotti». Su Leone Ginzburg e la sua idea di editoria si veda: Scarpa Domenico, Vigile eleganza. Leone Ginzburg e il progetto di un’editoria democratica, in Giulio Einaudi nell’editoria di cultura del Novecento italiano: atti del Convegno della Fondazione Giulio Einaudi e della Fondazione Luigi Einaudi ONLUS, Torino, 25-26 ottobre 2012, a cura di Paolo Soddu, Firenze, Olschki, 2015, pp. 109-140. Dal 1938 Pavese cominciò a collaborare come traduttore e revisore di bozze. La sintonia di Pavese con la cultura del suo tempo era più marcata e legata al tentativo di rileggere la letteratura americana assieme alla cultura della «provincia» di origine (Mangoni 1999: 12). Di seguito la testimonianza di Natalia Ginzburg rilasciata in un’intervista di Marino Sinibaldi, poi raccolta in È difficile parlare di sé: «dopo il suicidio di Pavese eravamo completamente persi, secondo me. Perché lui nella casa editrice faceva tutto; aveva una straordinaria facoltà lavorativa, che non ho mai visto una persona a lavorare così tanto, fare tante cose. Secondo me aveva in mano la casa editrice; e oltre al grande dolore di averlo perduto c’era questo senso di come avremmo fatto. Insomma, come si poteva fare e questo lo sentivo in Calvino, in Balbo, in tutti. E poi è successo che in quegli stessi anni Balbo ha lasciato il partito comunista, lasciato Torino ed è andato a stare a Roma. E c’erano Calvino e Bollati, che era arrivato da poco. C’era Calvino…mah, loro erano ancora molto giovani: e io avevo la sensazione che la casa editrice fosse smarrita (Ginzburg: 1999: 99). Giulio Bollati, che incarna al meglio la figura di «intellettuale-editore» (Turi 2018: 82), fu anche amministratore delegato del Saggiatore, prima di rilevare la casa editrice Boringhieri.
77 Dopo la guerra Einaudi riprese la sua attività sulla scia degli stessi principi d’integrità politica e di serietà scientifica che l’avevano sorretta nel periodo fascista, nel ricordo di chi, come Leone Ginzburg e di Giaime Pintor, era caduto per la liberazione.
78 Cfr. Claudio Pavese, «Il periodo del commissariamento della casa editrice Einaudi (1943-1945)» in AA. VV., Giulio Einaudi nell’editoria di cultura del Novecento italiano: atti del Convegno della Fondazione Giulio Einaudi e della Fondazione Luigi Einaudi ONLUS, Torino, 25-26 ottobre 2012, a cura di Paolo Soddu, Firenze, Olschki, 2015, pp. 141-187.
79 Torino era il secondo polo editoriale italiano dopo Milano con Einaudi, Paravia, Loescher, Rosenberg & Sellier, UTET, ecc. Sul riferimento all’orientamento politico si legga la seguente dichiarazione di Ferrero: «Nel secondo dopoguerra, il magistero einaudiano mirava a una catechesi laica e democratica, svolta in parallelo con il PCI. […] Diceva Giulio Bollati che quello di Giulio Einaudi era un capitalismo di tipo speciale, che mirava ad accumulare prestigio, non profitti; Il prestigio lo si ottiene solo perseguendo il massimo della qualità» (Ferrero 2012: 63).
80 Per un’esaustiva storia della casa editrice cfr. Ferretti 2004: 146-151; Tranfaglia, Vittoria 2000: 428-432.
81 La direzione politica intrapresa dalla casa è resa esplicita dalla pubblicazione, in accordo con la volontà del PCI, delle Lettere e dei Quaderni di Antonio Gramsci.
82 Einaudi entrò in crisi negli anni Ottanta e venne incorporata prima nel gruppo Elemond, poi nella AME Mondadori, poi gruppo Fininvest di Silvio Berlusconi assieme a Piemme, Mondadori, Sperling&Kupfer, Electa. In seguito a questo passaggio, per conseguire come obiettivo una crescita delle vendite, si decide di insistere sulla narrativa, trascurando gli ambiti che in passato avevano garantito prestigio alla casa. In un’intervista del 6 agosto 1994 Einaudi espresse disprezzo verso l’editoria dei manager, i quali «se ne infischiano dei consulenti e cercano solo libri da classifica, credendo di fare cultura» (Cadioli 1995: 198).
Nicola Tallarini, Il letterato editore e i suoi testi per l’editoria italiana del secondo Novecento, Tesi di dottorato, Università degli Studi “Karl Franzens” di Graz, 2021