Le aggregazioni di sbandati costituiscono l’esordio della Resistenza armata in Italia

Molti soldati sbandati delle forze armate italiane e i primi giovani desiderosi di combattere gli occupanti si ritrovarono a viaggiare assieme e ad aggregarsi in cerca di un riparo e di temporanee sistemazioni in luoghi appartati, come le Alpi, gli Appennini ed alcune vallate.
Tra di loro vi erano anche soldati inglesi, americani e slavi fuggiti alla prigionia dei fascisti ed ai rastrellamenti dei tedeschi.
Il territorio bellunese, provincia di confine e, quindi piena di truppe abbandonate a se stesse dai vertici del Regio Esercito, ma allo stesso tempo non distante dal Brennero, area altamente strategica per i collegamenti della Wehrmacht, era per i soldati in fuga un rifugio privilegiato per la sua conformazione montuosa, ricca di boschi e di grotte naturali scavate nella roccia che fungevano da ottimi nascondigli e bivacchi.
I requisiti di queste spontanee aggregazioni di ex soldati erano inesistenti. Più chiaramente: non importava la provenienza e nemmeno l’ideale politico. Erano tutti “fratelli” dopo l’armistizio dell’8 settembre, l’evento che li mise tutti d’accordo per quanto riguarda lo stato d’animo: traditi dai vertici e successivamente abbandonati al loro destino, mentre gli ex alleati si mobilitavano nel dar loro la caccia per deportarli ai lavori forzati. Il pensiero della maggior parte fu: perché continuare a combattere per un governo e un sovrano che erano stati i primi a non tutelarli?
“L’aggregazione avviene seguendo le mille casualità degli incontri, delle notizie sussurrate lungo le strade e i sentieri percorsi nel tentativo di allontanarsi dalle grandi vie di comunicazione, dalle strade ferrate, dalle città, che si sono in pochi giorni trasformate in trappole mortali. Non vi è dunque filtro o selezione, e pochi ufficiali e soldati decisi e motivati a una guerriglia di lungo periodo subiscono il soffocante abbraccio di una pletora di sbandati confusi e demoralizzati […]” <18.
Risultava meglio essere uniti, numerosi e preparati contro un esercito ben organizzato e temuto come quello di Hitler. Queste aggregazioni di sbandati costituiscono l’esordio della Resistenza armata in Italia. Giorgio Bocca <19 nel 1960 scrive nella sua ‘Storia dell’Italia partigiana’ che «a tre mesi dall’armistizio, la forza partigiana passa da circa 1500 a 3800 uomini» <20. Alla fine del 1943 però già si parlava di vere e proprie Bande di partigiani decisi a combattere attivamente il loro nemico: l’invasore tedesco. Santo Peli in ‘La Resistenza in Italia’ riconosce la distinzione tra due gruppi che componevano queste bande: da una parte uno composto da ex militari, specialmente ufficiali e sottufficiali dell’esercito, e dall’altra alcuni intellettuali antifascisti <21. Sì, perché un altro nemico da combattere era la minoranza di fascisti determinata a continuare a oltranza l’alleanza coi tedeschi e tutti coloro che erano rimasti fedeli al Duce, pur screditato, ritornato con scarso carisma sulla scena politica dopo la breve prigionia imposta da Badoglio e dal re.
Mussolini, intento a punire i “traditori” del regime e a riassumere il pieno controllo del potere, tra il novembre 1943 ed il giugno 1944 fece emanare al maresciallo Graziani una serie di bandi di leva militare che richiamavano alle armi tutti quegli italiani tra i diciotto ed i trentatre anni per riformare l’esercito della Rsi, che sarebbe rimasto a fianco di quello di Hitler.
Questo “bando del perdono”, chiamato così perché esigeva il ritorno in regola di tutti quegli sbandati che erano fuggiti dalle file dell’esercito, ma anche a richiamare le nuove reclute, non ebbe solo un esito fallimentare ma come conseguenza rimpinguò le aggregazioni di partigiani che si arricchirono di ulteriori reclute che non volevano più servire il leader fascista e tantomeno i tedeschi che avevano deportando prigionieri oltralpe centinaia di migliaia di soldati italiani.
I “disertori” dell’esercito fascista vennero aggiunti ai traditori da debellare. Mussolini diede avvio ad una repressione condotta con la violenza. Fucilazioni di partigiani, esecuzioni di prigionieri nelle carceri e spesso, a scopo intimidatorio, in pubblico, erano all’ordine del giorno. Veri e propri rastrellamenti, condotti anche dalle truppe tedesche <22.
Le esecuzioni compiute dai soldati di Hitler, però, anche se collegate, sono un’altra cosa che verrà trattata nei prossimi capitoli. Quella dei fascisti invece era un tipo di violenza mirata, di casa in casa, con una scelta delle vittime e non un’estrazione casuale di campioni tra la folla, tipica delle rappresaglie tedesche.
Il 28 ottobre 1944 – ventiduesimo anniversario della Marcia su Roma, mentre ormai gli anglo-americani, occupata tutta l’Italia meridionale e centrale, giungevano in Romagna – Mussolini emanò un secondo bando del perdono che richiamava ancora una volta i disertori a presentarsi nei reparti della Rsi o almeno nei “battaglioni del lavoro” al servizio dell’Organizzazione Todt tedesca entro il 10 novembre. L’esito di questa seconda chiamata militare fu ancora una volta fallimentare. La conseguenza fu un ulteriore inasprimento della violenza fascista, che raggiunse l’acme nell’inverno del 1944 <23.
Nel frattempo, pur molto sgonfiatesi fisiologicamente durante la stagione fredda, in montagna le file delle bande partigiane sempre non si scoraggiarono e nel 1944 e 1945 continuarono a riformarsi e, in alcune zone, a crescere appena tornata primavera.
Il gruppo composto da ex ufficiali era intriso di un orgoglio militare, con valori etici ed osservanza degli insegnamenti delle scuole e delle accademie. Chi ne faceva parte cercò fin da subito di far adottare regole e disciplina affinché sabotaggi, attacchi e imboscate fossero ben strutturati ed efficaci. Anche se tra i partigiani era nota la presenza di moltissimi giovani totalmente privi di esperienza di guerra e di preparazione militare, entrati nelle bande mossi da un sentimento di rabbia verso l’invasore e da un desiderio di distinguersi come “eroi” difensori della popolazione.
Tuttavia la prima fase della Resistenza armata consisteva tutt’al più nella costruzione di una disciplina da seguire..
Solitamente i partigiani agivano lontano dai centri abitati. Spesso i luoghi di insediamento preferiti, perché più sicuri, erano le montagne. Erano presenti però anche nelle città con i Gruppi di azione patriottica, formazioni di tre o quattro uomini che colpivano tedeschi e “repubblichini”.
Le prime azioni furono di tipo “elementare” e quasi per niente sul piano militare: saccheggi a depositi di armi e distributori di carburante, sabotaggi alle vie di comunicazione, alle forniture di energia e agli impianti industriali, furti di mezzi o di cibo, propaganda contro la leva militare della Repubblica sociale italiana.
La fase successiva alle libere e casuali aggregazioni fu quella della nascita di bande che tra loro avevano in comune l’orientamento politico dei membri. Vi erano le Brigate Garibaldi, le più numerose ed agguerrite, composte da una maggioranza di sostenitori del Partito Comunista italiano (Pci). Seguono le formazioni di Giustizia e Libertà (GL) che riprendevano i principi dell’omonimo movimento nato negli anni Trenta del Novecento <24 e le Brigate Matteotti legate ai socialisti. Non mancarono bande autonome consistenti in gruppi di uomini uniti tra loro semplicemente dalla voglia di combattere l’occupazione tedesca, e nemmeno formazioni cattoliche e liberali <25.
In questa seconda fase della Resistenza armata le bande di partigiani si fecero spazio anche all’interno della sfera politica del paese. Dopo la nascita del regime fascista in Italia erano stati soppressi, assieme alla libertà di pensiero, anche i partiti politici diversi da quello di Mussolini. La ricostruzione di questi ultimi avvenne nei “quarantacinque giorni” tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. In realtà ancora prima della caduta del Fascismo sorse il Partito d’azione (Pda), connubio tra socialismo e liberalismo progressista. In questo periodo venne alla luce da ex esponenti cattolici del partito popolare la Democrazia Cristiana (DC). Tutti gli altri partiti antifascisti vennero ricostituiti dopo l’arresto di Mussolini: il Partito Liberale (Pli), il Partito repubblicano (Pri) e quello socialista che divenne il Partito socialista di unità proletaria italiana (Psiup). Il Partito comunista italiano (Pci), infine, l’unico ad aver mantenuto una rete organizzativa clandestina durante il regime, fu quello con maggiori sostenitori ed il più attivo nella lotta al nemico <26.
Tutti questi movimenti politici appena citati, alla quale si aggiunse la Democrazia del Lavoro fondata da Ivanoe Bonomi, si riunirono a Roma il 9 settembre 1943 per fondare il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) che lanciò un appello immediato «per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni» <27.
Poco dopo, sulla scia del primo ufficiale CLN con sede a Roma, ne sorsero altri a Firenze, Torino, Genova, Bologna, Milano, Padova e in centri minori. Dal 31 gennaio 1944 il CLN di Milano assunse le direttive della lotta nell’Italia occupata con il nome di Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI).
Inizialmente l’attività del CLN partì al rallentatore. Era tutto da decidere ed ogni cosa da organizzare. Andavano raccolti i viveri, le armi e in primis il denaro. L’impresa fu difficile data anche la presenza dell’occupante tedesco. Ulteriori difficoltà furono la mancanza di preparazione della maggior parte delle reclute e soprattutto la divisione tra i partiti che avevano idee diverse rispetto al metodo da adottare per la lotta armata.
Il partito più propenso ad uno scontro attivo fu il Pci. Per i comunisti il metodo migliore per fronteggiare il nemico era l’organizzazione di attacchi ed imboscate. A metà ottobre 1944 il comando generale delle Brigate Garibaldi nominò alla guida Luigi Longo e Pietro Secchia nel ruolo di commissario politico. Il partito comunista ed i garibaldini diventarono praticamente una cosa sola che tra gli ideali promuoveva una strategia di assalto continuo al nemico, a differenza di quella portata avanti dal Pda di Ferruccio Parri che mirava più ad una ricostruzione di un esercito unito e con alle spalle esperienza militare come quello che esisteva in Italia prima della disgregazione post 8 settembre. Quest’ultimo metodo vedeva una speranza nel fronteggiare le truppe di Hitler in un combattimento quasi “alla pari” <28.
Oltre il fatto che queste divisioni di pensiero costituirono un clima di confusione, va detto che il CLN si propose come guida e rappresentanza dell’Italia, quindi concorrendo al governo Badoglio, agli occupanti tedeschi e alla Repubblica sociale italiana di Mussolini. I fascisti collaborarono sempre a fianco di Hitler, coloro che avevano come riferimento il governo Badoglio dall’ottobre 1943 combatterono la guerra spalleggiando gli Alleati con il Corpo italiano di liberazione. Il CLN invece era impegnato a combattere solamente per gli italiani.
Questi equilibri precari vennero ulteriormente scossi da quella che passò alla storia come “svolta di Salerno”. Nel marzo del 1944 il leader del Pci Palmiro Togliatti tornò in Italia dopo quasi vent’anni di esilio nell’Unione Sovietica. Appena sbarcato a Napoli, scavalcando il CLN, propose di dimenticare i pregiudizi verso il re e Badoglio e di formare un governo di unità nazionale capace di concentrare le sue energie nella lotta al fascismo e sui problemi della guerra. Salerno – in mano agli anglo-americani – era l’allora capitale del Regno del Sud d’Italia, dove c’era molta ammirazione verso l’Urss e più in generale verso i principi del comunismo. Nelle speranze di Togliatti c’era l’idea di voler legittimare il Pci agli occhi della popolazione, ma anche a quelli delle truppe alleate.
Il 24 aprile 1944 nacque così il primo Governo di Unità Nazionale, presieduto da Badoglio e comprendente dei rappresentanti del CLN. Badoglio uscì di scena due mesi dopo. In giugno subentrò Ivanoe Bonomi, con approvazione immediata del CLN, mentre Vittorio Emanuele III assunse solo la luogotenenza generale del Regno.
Con il consolidarsi del governo Bonomi, la Resistenza raggiunse un notevole rafforzamento e – affiancati gli anglo-americani con la propria guerriglia nella liberazione dell’Italia centrale – attraversò un periodo di piccoli successi interni ricordato come «estate partigiana».
Le formazioni partigiane a partire dal giugno del 1944 si diedero un comando unificato, allargando anche la base di reclutamento. Molti operai, contadini e giovani renitenti alla leva dei “bandi del perdono” si arruolarono nelle file clandestine, ritenendo ormai prossima la liberazione del resto d’Italia. Come sottolinea Santo Peli: «entro settembre si giungerà a 80-100.000 uomini» <29. Vennero introdotte delle novità come la diffusione di giornali di brigata, l’adozione di divise e distintivi, assieme all’obbligo di ogni formazione di redigere periodicamente dei rapporti scritti sul loro operato che andavano direttamente trasmessi al Corpo volontari della libertà (Cvl).
Nonostante la violenza con cui l’esercito tedesco si scagliò sui partigiani e sui civili in risposta ad essi, gli attacchi al nemico occupante aumentarono di frequenza. Infatti l’estate del ’44 vide, oltre al consolidamento della Resistenza, il tragico aumento di eccidi e rappresaglie da parte dei tedeschi. Nel prossimo capitolo ci sarà un ritorno a questo argomento, ma nel frattempo cito a titolo di esempio le stragi di Sant’Anna di Stazzema (12 agosto 1944) e quella di Marzabotto (29 settembre), due testimonianze della ferocia dell’invasore. Fu proprio da agosto che la strategia del nemico cambiò, assumendo una piega macabra e ricadendo in un aumento sistematico di trappole per partigiani, uccisioni, imboscate e numerosi rastrellamenti.
Ritornando al discorso dei partigiani va sottolineato che questo periodo vide anche la risoluzione di un accordo tra i maggiori attivisti come azionisti e comunisti, formalmente sancito dall’impegno di Ferruccio Parri e Luigi Longo nella partecipazione paritetica al comando militare del CVL.
Alcune città, come nel caso di Firenze (agosto 1944), vennero liberate prima dell’arrivo delle truppe alleate. In alcune zone dell’Italia Settentrionale (la Val d’Ossola, le Langhe, l’Oltrepo pavese, la zona dell’Alto Monferrato) la Resistenza creò delle «Repubbliche Partigiane» e «zone libere», il cui governo consisteva in una autoamministrazione dei cittadini stessi <30. Forse questo fu uno dei traguardi più importanti del movimento partigiano.
[NOTE]
18 Cit. Santo Peli, La Resistenza in Italia, p. 25.
19 Giorgio Valentino Bocca (1920-2011) fu uno scrittore e giornalista italiano (Fonte Enciclopedia Treccani).
20 Cit. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana: settembre 1943-maggio 1945, Mondadori, Milano,
1995, p.93.
21 Cit. Santo Peli, La Resistenza in Italia, p.27.
22 Cfr, G, Fulvetti; P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’atlante delle stragi
naziste e fasciste in Italia (1943-1945), il Mulino, Bologna, 2016, p. 152- 155.
23 Ibidem, p. 163.
24 Giustizia e Libertà fu un movimento fondato nel 1929 da due intellettuali antifascisti, Emilio Lussu e Carlo Rosselli. Fu un organismo di lotta seguendo le orme del Partito d’azione mazziniano e impegnato nella lotta clandestina (Fonte: G. Sabbatucci, V.Vidotto, Storia contemporanea. Il Novecento, p. 158).
25 Cfr. G. Sabbatucci, V.Vidotto, Storia contemporanea. Il Novecento, p. 199.
26 Cfr. G. Sabbatucci, V.Vidotto, Storia contemporanea. Il Novecento, p. 198-199.
27 Parole di Ivanoe Bonomi, citate in S. Peli, La Resistenza in Italia, p. 40.
28 Cfr. S. Peli, La Resistenza in Italia, p. 44- 45.
29 Cit. Santo Peli, La Resistenza in Italia, p. 86.
30 Cfr. G. Sabbatucci, V.Vidotto, Storia contemporanea. Il Novecento, p. 200.
Maria Cristina Ladini, Gena Alta: dalla guerra all’abbandono, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno accademico 2018/2019