La struttura dei Gap è consequenziale agli scopi

Il primo documento in cui si parla in modo esplicito dei GAP, Gruppi di azione patriottica, è una lettera che Antonio Roasio <1, rientrato nel gennaio 1943 in Italia dalla Francia come uno dei tre responsabili del centro interno del Partito comunista e stabilitosi a Bologna con l’incarico di dirigere le organizzazioni clandestine dell’Emilia, del Veneto e della Toscana, invia alle organizzazioni regionali del partito alla fine di aprile: “Perciò verso la fine dell’aprile 1943 venni incaricato dal centro di preparare una lettera da inviare a tutte le nostre organizzazioni in cui si poneva la necessità di attrezzare i militanti alla lotta armata a mezzo dell’organizzazione di Gruppi di azione patriottica, GAP, capaci di condurre azioni di sabotaggio delle attrezzature militari e contro i massimi dirigenti del partito fascista. […] La struttura organizzativa dei gruppi armati doveva essere semplice, di gruppi di tre combattenti, i più audaci; bisognava che si procurassero le armi e incominciassero a prendere pratica con azioni dapprima più facili fino a quelle contro i dirigenti del regime. L’organizzazione militare doveva essere separata da quella del partito, tra i combattenti si doveva instaurare una disciplina rigida e solida, gli uomini dovevano essere preparati a tutti i rischi e quindi dotati di un alto spirito di sacrificio. La struttura dei GAP rifletteva grosso modo quella dei FTP in Francia, di cui facevano già parte numerosi nostri compagni. Nella circolare non si parlava ancora di organizzare un movimento partigiano che dovesse agire in montagna, anche se questa forma di lotta non veniva scartata” <2.
Nell’immediato, la missiva di Roasio non produce effetti, «la lotta armata rimase un desiderio» <3, eccezion fatta per la creazione di piccoli nuclei partigiani in Friuli.
È il cambiamento di scenario, provocato l’8 settembre 1943 dall’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile, firmato cinque giorni prima, tra Regno d’Italia e anglo-americani, a porre l’esigenza di organizzare concretamente una resistenza armata. La cessazione delle ostilità, comunicata da Pietro Badoglio <4, nominato nuovo presidente del Consiglio dal re Vittorio Emanuele III <5 in seguito alla destituzione e all’arresto di Benito Mussolini <6, avvenuti tra 24 e 25 luglio 1943 <7, lascia l’Italia nel caos. A creare ancora maggior confusione nella popolazione e, soprattutto, nell’esercito italiano, rimasto privo di ordini, è la decisione presa dal re, da Badoglio e dagli altri membri del governo di abbandonare Roma e fuggire a Brindisi, già in mano alle truppe alleate. Nel frattempo, le truppe tedesche occupano l’Italia centrosettentrionale e il 23 settembre Mussolini, liberato il 12 dello stesso mese da paracadutisti tedeschi dalla prigione sul Gran Sasso dove era stato recluso, annuncia la costituzione di un nuovo Stato fascista repubblicano, la Repubblica Sociale Italiana, avente capitale a Salò <8.
Dal canto loro, all’indomani del «colpo di Stato monarchico che creò un nuovo campo di azione, che ci diede la possibilità di intervenire» <9, gli esponenti dei partiti antifascisti aderiscono ad un comitato di coordinamento delle opposizioni, chiamato Comitato centrale delle opposizioni, al fine di esercitare una pressione sul governo Badoglio, atta a richiedere lo scioglimento del Partito Nazionale Fascista e delle istituzioni del regime, l’inizio di trattative immediate per ottenere un armistizio, la liberazione dei detenuti e dei confinati politici, il ripristino delle libertà civili e politiche. Per Giorgio Amendola <10, rappresentante del PCI nel Comitato centrale delle opposizioni, essenziale è il rilascio di detenuti e confinati politici, ossia la riacquisizione di «un patrimonio prezioso di cui il partito aveva assoluto bisogno per dare una organizzazione e una direzione all’afflusso crescente di nuove adesioni» <11: “Il chiodo fisso era la liberazione dei carcerati e dei confinati politici. Le altre rivendicazioni (arresto dei gerarchi fascisti, ricostituzione dei partiti democratici, libertà di stampa) erano il contorno di quella che a me sembrava la condizione essenziale […] E del resto, per la libertà di stampa e per la ricostituzione dei partiti, il governo aveva già opposto una negativa, utilizzando l’argomento di non allarmare i tedeschi e di non dare pretesti per intervenire. […] Io avevo la coscienza che potevamo disporre di poco tempo per liberare i compagni, riorganizzare il partito, formare i suoi organi di direzione ed essere pronti per il momento della rottura. Bisognava perciò premere su Badoglio […]” <12.
Il ritorno in libertà dei principali dirigenti comunisti porta ad una riunione plenaria del partito, tenutasi a Roma a fine agosto, in cui viene decisa la costituzione di una direzione, che è divisa in due gruppi, aventi sede a Roma e a Milano, per via della probabilità, poi disattesa, di uno sbarco alleato a nord della capitale al momento dell’armistizio: il gruppo di Milano, a quel punto, avrebbe avuto la funzione di dirigere la lotta nel territorio occupato dai tedeschi, mentre a quello di Roma sarebbe spettata la direzione dell’azione del partito nella zona liberata. In realtà, lo sbarco alleato avviene il 9 settembre a Salerno, e l’auspicata liberazione di Roma non si realizza in tempi tanto brevi.
Nello stesso giorno, il Comitato centrale delle opposizioni assume la denominazione di Comitato di Liberazione Nazionale, composto dai rappresentanti del Partito d’Azione, della Democrazia cristiana, del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, del Partito Repubblicano Italiano, del Partito Liberale Italiano, del Partito democratico del lavoro e del Partito Comunista Italiano, unitisi allo scopo di opporsi all’occupazione nazista e di riempire il vuoto di potere determinatosi dopo la fuga del re.
È nel contesto appena delineato che, a Milano, il PCI, prima in una riunione tenuta il 20 settembre 1943 in via Lulli 30 nell’abitazione dei coniugi Morini, poi in una seconda svoltasi pochi giorni dopo in viale Monza 23 presso la famiglia Mazzola, costituisce il Comando generale delle brigate Garibaldi, di cui Luigi Longo <13 è comandante e Pietro Secchia <14 commissario politico, e, in concomitanza, istituisce i Gruppi di azione patriottica <15.
1.2 Le finalità del PCI
I Gap sono «nuclei partigiani creati per la guerriglia urbana» <16. Essi rappresentano la struttura operativa cui il PCI si affida per far detonare la lotta armata in città, in attesa che si consolidino le brigate Garibaldi <17, la cui gestazione è necessariamente più lunga, in quanto si tratta di aggregare, disciplinare e coordinare il crescente flusso verso la montagna di uomini, tra cui soldati sbandati e giovani renitenti alla leva imposta dalla neonata RSI.
Alle iniziative gappiste è, quindi, demandato il compito di «scendere immediatamente sul terreno della lotta armata» <18, così da dimostrare che il dominio dell’occupante tedesco e fascista sulle città non è affatto incontrastato, e da evidenziarne la precarietà. Gli esempi concreti di lotta da parte di questa avanguardia coraggiosa e disposta al sacrificio devono servire, nelle intenzioni del Partito comunista, a «trasformare la presente passività delle masse in una combattività dispiegata» <19. Le masse, specialmente la classe operaia del nord, sono ritenute in possesso di un grande potenziale di lotta da attivare. Le azioni si svolgono dentro la città, sotto gli occhi di una popolazione che, suo malgrado, viene coinvolta ed investita da misure di ritorsione e di prevenzione, quali l’aumento delle ore di coprifuoco o il divieto di circolazione in bicicletta, che è il mezzo più utilizzato dai gappisti, oppure, nei casi più estremi e drammatici, le rappresaglie. In questo senso, il gappismo può essere visto come «guerra partigiana messa in scena davanti a un pubblico di massa» <20.
[NOTE]
1 Antonio Roasio (1902-1986). Fu socialista, poi comunista. Frequentò la scuola leninista in Unione Sovietica. Fu in Spagna nel 1936. Rientrato in Italia nel gennaio 1943, entrò a far parte del Comando generale delle brigate Garibaldi. Nel 1944 divenne responsabile del Triumvirato Insurrezionale della Toscana fino alla liberazione di Firenze, in AA. VV., Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza (d’ora in poi Ear), vol. V, La Pietra, Milano 1987, pp. 206-207.
2 Antonio Roasio, Figlio della classe operaia, Vangelista, Milano 1977, p. 206.
3 Ivi.
4 Pietro Badoglio (1871-1956). Fu militare e politico. Capo di Stato Maggiore dal 1925, condusse la campagna in Etiopia nel 1935-1936, si dimise nel 1940. Destituito Mussolini, fu incaricato di formare il governo per trattare l’uscita dalla Seconda guerra mondiale e l’armistizio con gli Alleati. Il 22 aprile 1944 costituì un secondo governo a Salerno. In seguito alla liberazione di Roma nel giugno 1944, si ritirò dalla scena, in Dizionario Biografico degli Italiani (d’ora in poi DBI), ad nomen, consultato il 26-06-2019.
5 Vittorio Emanuele III (1869-1947). Fu re d’Italia dal 1900 al 9 maggio 1946, quando abdicò in favore del figlio Umberto II. Inoltre, nel 1936 assunse il titolo di imperatore d’Etiopia e nel 1939 di re d’Albania, in Wikipedia, ad nomen, consultato il 26-06-2019.
6 Benito Mussolini (1883-1945). Fu esponente del Partito Socialista Italiano e direttore del quotidiano «Avanti!». Nel 1919 fondò il movimento politico dei Fasci italiani di combattimento, poi divenuto Partito Nazionale Fascista nel In seguito alla marcia su Roma del 28 ottobre 1922, venne incaricato dal re di dar vita a un nuovo governo, instaurando in pochi anni un regime dittatoriale. Deposto dal suo incarico ed arrestato nel luglio 1943, fu liberato dai tedeschi e posto a capo della neonata Repubblica Sociale Italiana. In seguito alla definitiva sconfitta nazifascista, tentò la fuga, ma fu catturato e ucciso dai partigiani, in DBI, ad nomen, consultato il 26-06-2019.
7 Nella seduta del Gran Consiglio del fascismo, tenutasi nella notte tra 24 e 25 luglio 1943, fu messo in votazione e approvato un ordine del giorno che proponeva la restituzione dell’alto comando militare, incarico affidato a Mussolini sin dall’entrata in guerra, al re. Ciò ebbe il significato di una sconfessione della dirigenza di Mussolini, che fu sostituito a capo del governo da Badoglio ed arrestato.
8 Alberto Mario Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Laterza, Bari 2009, p. 238.
9 Giorgio Amendola, Lettere a Milano. 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 113.
10 Giorgio Amendola (1907-1980). Aderì al PCI nel 1929. Dopo il confino nell’isola di Ponza, espatriò in Francia e poi raggiunse Tunisi. Soggiornò a Marsiglia presso il centro esteri del PCI. Rientrò in Italia e a Roma rappresentò il partito nel CLN. Nel maggio 1944 fu a Milano nel Comando generale delle brigate Garibaldi. Nel dopoguerra, fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Ferruccio Parri e Alcide De Gasperi, e a lungo deputato, in Franco Giannantoni e Ibio Paolucci, Giovanni Pesce “Visone” un comunista che ha fatto l’Italia, Arterigere-EsseZeta, Varese 2005, p. 36.
11 Amendola, Lettere a Milano, cit., p.131.
12 Ibid., p. 129.
13 Luigi Longo (1900-1980). Fu dirigente comunista di primo piano. Nella guerra civile spagnola fu ispettore generale delle Brigate Internazionali. Dopo la sconfitta, venne arrestato in Francia e internato nei campi del Vernet d’Ariège. Passato in Italia, fu confinato nell’isola di Ventotene. Nel corso della Resistenza, fu comandante delle brigate Garibaldi e vice comandante del Corpo Volontari della Libertà. Fu segretario generale del PCI dal 1964 al 1972, in AA.VV., Ear, vol. III, La Pietra, Milano 1976, pp. 406-409.
14 Pietro Secchia (1903-1972). Fu un importante dirigente comunista. Fin da giovane fu impegnato nella lotta politica e più volte arrestato. Fu condannato dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato a 17 anni e 9 mesi. Amnistiato nel 1936, fu confinato a Ponza e a Ventotene. Liberato il 19 agosto 1943, alla costituzione del Comando generale delle brigate Garibaldi ne divenne commissario politico. Dopo la Liberazione, fu membro del Comitato Centrale del PCI e vicesegretario del partito dal 1948 al 1954, in AA. VV., Ear, vol. V, cit., pp. 454-464.
15 Francesco Scotti, La nascita delle formazioni, in Comitato per le celebrazioni del XX anniversario della Resistenza (a cura di), La resistenza in Lombardia. Lezioni tenute nella Sala dei Congressi della Provincia di Milano (febbraio-aprile 1965), Labor, Milano 1965, pp. 65-66.
16 Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi, Torino 2001, p. 209.
17 Le brigate Garibaldi furono formazioni armate, organizzate dal PCI, aventi il compito di essere il nerbo dell’esercito partigiano, attestato soprattutto sulle montagne. Le prime bande sorsero in Friuli e in Piemonte. Dal punto di vista della struttura, una brigata era formata da 4-5 distaccamenti, a loro volta articolati in 4-5 squadre ciascuno. Il comandante di brigata doveva curare la preparazione militare della formazione e la realizzazione delle operazioni; il commissario si doveva occupare della preparazione politica della brigata, del morale degli uomini, della disciplina e dei rapporti con la popolazione.
18 Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, p. 250.
19 Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, Torino 2014, p. 17.
20 Peli, La Resistenza in Italia, cit., p. 255.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019

I Gruppi di azione patriottica (Gap) nacquero, come diretta emanazione del Pci, dopo gli scioperi del marzo 1943. La linea politica del Partito comunista subì da quel momento una netta accelerata in direzione della lotta armata contro il fascismo e non è un caso che la prima circolare in cui compare il termine Gap, emanata dalla Direzione nord del Pci e indirizzata a tutti i responsabili di federazione, risalga al maggio 1943: il primo compito dei comunisti era quello di dare il via alla lotta armata attraverso piccoli nuclei di arditi che dovevano fungere da sprone alla lotta di massa, sulla scorta dell’esperienza francese dei Franc tireurs et partisans (Ftp) <1. Il richiamo diretto a questa esperienza è dovuto non solo al fatto che molti militanti italiani, inquadrati nella specifica sezione della Main d’Oeuvre immigrée (Moi), diedero un fondamentale contributo alla formazione dei Ftp, ma anche al fatto che, quello francese, era stato l’unico antecedente di guerriglia messo in scena dai comunisti all’interno delle città e dei centri industriali <2.
Nonostante gli sforzi della Direzione nord, la messa in pratica delle direttive fu successiva alla caduta del fascismo e alla rotta dell’esercito. Solo nell’agosto-settembre del 1943 alcuni dei migliori militanti italiani, esuli in Francia, vennero fatti rientrare con lo scopo di dare efficacia alla struttura clandestina che si andava lentamente consolidando: tra loro ricoprì un ruolo fondamentale e preziosissimo Ilio Barontini (Dario) che, nella fase iniziale, compì un vorticoso viaggio nelle città del nord Italia con l’obiettivo di armare ed istruire i primi nuclei di gappisti.
La presenza di rivoluzionari di professione come Barontini, sui quali solo il Pci poteva contare, fu determinante nella cesura che determinò il passaggio da un antifascismo sostanzialmente legalitario ad un antifascismo disposto non solo a praticare la lotta armata ma soprattutto ad accettare la sfida del terrorismo urbano <3.
Lo scopo di queste formazioni era infatti duplice: quello di colpire i nazifascisti laddove si sentivano più forti e sicuri per minare questa convinzione di sicurezza, e quello di combattere “l’attesismo” dei partiti moderati, dimostrando che l’unica strada da imboccare per sconfiggere definitivamente il nazifascismo era quella della lotta armata.
[NOTE]
Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca in Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici – Rivista di storia contemporanea, 3 (2015)

Chi furono i gappisti?
Potremmo dire che furono “commandos”. Ma questo termine non è esatto. Essi furono qualcosa di più e di diverso di semplici “commandos”. Furono gruppi di patrioti che non diedero mai “tregua” al nemico: lo colpirono sempre, in ogni circostanza, di giorno e di notte, nelle strade delle città e nel cuore dei suoi fortilizi. Con la loro azione i gappisti sconvolsero più e più volte l’organizzazione nemica, giustiziando gli ufficiali nazisti e repubblichini e le spie, attaccando convogli stradali, distruggendo interi parchi di locomotori, incendiando gli aerei sui campi di aviazione. Ancora non sappiamo chi erano i gappisti. Sono coloro che dopo l’8 settembre ruppero con l’attendismo e scesero nelle strade a dare battaglia, iniziarono una lotta dura, spietata, senza tregua contro i nazisti che ci avevano portato la guerra in casa e contro i fascisti che avevano ceduto la patria all’invasore, per conservare qualche briciola di potere“. <32
È con queste parole piene di enfasi che Giovanni Pesce, il gappista che più ha contribuito a lasciarci una testimonianza dell’attività svolta da questi “commandos” metropolitani, tenta lui stesso di dare una definizione dei Gap. Un aiuto a comprenderne meglio la natura ci viene dato da quanto riportato dal Dizionario della Resistenza <33 che spiega come essi fossero nuclei partigiani creati per la guerriglia urbana, anche nelle sue forme estreme, quali l’uccisione di esponenti della Rsi o di ufficiali tedeschi.
Un’importante questione storica, non ancora risolta, riguarda la data della loro creazione. Secchia <34 scrive che «nei Gap del Pci venivano arruolati esclusivamente comunisti» e che l’istituzione dei Gap avvenne, su iniziativa del Comando generale delle brigate Garibaldi, verso la fine del 1943. <35
Secondo lo storico Ernesto Ragionieri il Pci ne aveva invece disposto la creazione già con una circolare del maggio 1943.<36
Questo problema di datazione è indice della scarsità – o meglio della quasi totale inesistenza – di documenti e comunicati ufficiali che caratterizzino le attività di queste formazioni. Elemento questo che non deve destare stupore in quanto la natura stessa – cospirativa – dei Gap, imponeva il massimo riserbo sulle azioni, sui componenti e sugli spostamenti; nessun particolare doveva trapelare.
La struttura dei Gap è consequenziale agli scopi: rigidamente separato da tutte le altre organizzazioni della Resistenza, ogni nucleo è collegato al gradino superiore di comando esclusivamente attraverso il sistema dei “recapiti”. Non può contare su più di quattro componenti, compresi comandante e vicecomandante; tre Gap costituiscono un distaccamento guidato da comandante e commissario (responsabile soprattutto del controllo sulla vita privata e sul morale dei membri) entrambi tenuti a partecipare alle azioni più rilevanti.
Nelle grandi città italiane, tra l’autunno del ’43 e la successiva primavera, i Gap non superarono mai la cinquantina di appartenenti per zona, con riduzione anche a poche unità per lunghi periodi dopo operazioni repressive particolarmente efferate.
[NOTE]
32 G. Pesce, Senza tregua, Milano, Feltrinelli 1967, pp. 7-8.
33 Voce GAP, in Dizionario della Resistenza, cit., pp. 209-212.
34 Pietro Secchia (Occhieppo Superiore, 19 dicembre 1903 – Roma, 7 luglio 1973) è stato un politico e antifascista italiano, importante dirigente del Partito Comunista. Liberato dai partigiani nel 1943, partecipò alla Resistenza in qualità di commissario generale delle Brigate Garibaldi, comuniste. Come Longo e altri partigiani comunisti, sosteneva una politica rivoluzionaria che preparasse la prospettiva di un’insurrezione armata, ma aderì nell’immediato dopoguerra alla cosiddetta svolta di Salerno di Palmiro Togliatti, che spingeva il PCI alla collaborazione con gli altri partiti di massa e con le istituzioni. Togliatti nominò Secchia vicesegretario del PCI, carica che mantenne dal 1948 al 1955. Nel 1946 fu deputato all’Assemblea Costituente mentre nel 1948 fu eletto senatore nelle file dei Fronte Democratico Popolare; rimase senatore fino alla morte.
35 Voce GAP, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Milano-Roma, Edizioni La Pietra 1971, vol. II, pp. 475-79. Essa era diretta dallo stesso Secchia.
36 Cfr. E. Ragionieri, La terza Internazionale e il Partito comunista italiano. Saggi e discussioni, Torino, Einaudi 1997, pp. 328-329.
Valentine Braconcini, La memorialistica della Resistenza attraverso gli scritti di Giovanni Pesce, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007-2008