La Sanremo della Belle Epoque si vede un po’ dovunque

Sanremo (IM): una vista verso levante dal centro storico, detto Pigna

Sanremo ha una facciata che sa di futile mondanità, per le vetrine lustre e firmate del corso, il porto nuovo cognominato Portosole pullulante di schifi e burchielli dalle linee sfrontate e dagli esotici vessilli, il Casinò in cui non si può entrare senza giacca ma senza giacca si può uscire, e l’annuale cerimonia canora che è il suo carnascialesco distintivo, la sublime mascherata televisiva che ha fatto conoscere la città in tutto il mondo. Città dei fiori anche la si denomina, che vengono mandati a Vienna a Capodanno per il concerto del Musikverein e li trovi sfolgoranti in mille cespi nella piazzetta del Carlandria, un Siro Andrea Carli, che fu sindaco benemerito nello scorso secolo e sul cui simulacro abbandonano felici i colombi i loro biancastri e aciduli umori.

Il simbolo della… Pigna su Porta San Giuseppe di Sanremo (IM)
Sanremo (IM): Porta San Giuseppe (la… Pigna in fondo a sinistra per chi guarda)

Ma dietro allo sfolgorio della facciata un’altra Sanremo si nasconde, segreta e sconosciuta, ed è la città vecchia ma vecchia davvero, medievale, detta la Pigna, perché si snoda lungo una collina che par caduta da una grossa conifera celeste. Alla sommità Nostra Signora della Costa (1630) domina il golfo; la sera, tutta gialla e celeste, è una fiammella che sembra davvero proteggere santi e peccatori, e suonando le ore e le mezze ne accompagna il sonno. Di lì vedi il golfo, fra Capo Verde a est fin quasi a Capo Nero a ovest. Ma se ti giri vedi le colline e i monti dell’entroterra.
Il Bignone si sottrae allo sguardo, ma bastano il monte Caggio e i Termini e la punta detta Savona, e Collabella che un poeta che mi è caro percorreva un tempo alla ricerca degli ovoli, qui chiamati “rossi”.
Per arrivare al Santuario bastano una ventina di minuti, da qualunque parte la Pigna si affronti, o per così dire di petto e in maniera ufficiale, penetrandovi dalla zona sud, attraverso la via Palazzo e la porta di Santo Stefano, o da ponente, attraverso la salita Montà, la salita Pescio e quella di San Giuseppe, oppure ancora dal versante est, salendo dalla piazza Francia, chiamata Rondorin, fino alla porta Bugiarda, così denominata perché attraverso la Crosa del Cavallo (lo “Strascino”, ora chiamato vicolo dello Stirasso) si facevan defluire le acque piovane.

Sanremo (IM): Torre della Ciapèla (dall’autore definita “saracena”)

In ogni caso la Pigna, detta anche la Scarpetta, è la casbah della città: vi entri le prime volte timidamente, e ti par la medina di Tunisi o di Algeri. Del resto i saraceni eran di casa quaggiù, che vi facevan scorrerie, e lo testimonia la torre di avvistamento di piazza del mercato, detta appunto torre saracena, lo dicono le cronache, che riferiscono di un Luca Spinola, podestà, che li fermò nel 1543. Intenzione del sultano era di stringer Nizza per mare, come voleva Francesco I suo alleato, ma i barbareschi erano sbarcati a Capo Verde, guidati da un Ai-Redin Barbarossa che non prometteva nulla di buono.
Certo la Pigna, per amarla, bisogna percorrerla col naso al vento. Ha le case con insegne nobiliari. Come quella di Girolamo Palmari che ebbe incarichi importanti dalla Repubblica di Genova e fu ambasciatore in Castiglia e presso il papa Giulio II; edicole e cappellette, qualche bifora, pochi indispensabili negozietti di alimentari e quei fossatelli ai margini di strada, che raccolgono l’acqua piovana lasciando all’asciutto la parte centrale a dorso di mulo. Ai piani bassi, di sole se ne vede poco, e ci sono vicoli coi gradini verdi di muffa; ma in cima ci sono altane e terrazze civettuole, e poi gli archi uniscono casa a casa, sicché la Pigna è un unico grande agglomerato, una monade storica, che la Municipalità finalmente tratta con riguardo, ne rispetta l’antica fisionomia, la illumina di notte senza risparmio e persino, dove può, con vecchi lampioni.
All’estremità superiore della Pigna, sbucati dal labirinto, incominciano i giardini Regina Elena, che non c’erano ai bei dì: le case della Pigna continuavano fino ai piedi del santuario, ed erano di proprietà dei signori Tapoletti, finché le distrusse il terremoto del 1887, lasciando uno spazio a semicerchio che solo in parte i giardini han colmato e che ora si chiama la via Tapoletti e ti fa tirare il fiato, e vedere mare e porto e vele, prima di conquistare il belvedere dei giardini. Di recente in questa zona, nei pressi della chiesa di San Costanzo, è stata sistemata a terrazze da un intelligente architetto (che ha fatto rifare anche il fondo di molte strade in città, conservando ciottoli e mattonelle di cotto) e son nati spazi evocativi e di silenzio, di meditazione e di rappresentazioni teatrali all’aperto.
La porta di Santo Stefano è la principale della medina nostrana. A sesto acuto, la fecero costruire i guelfi sanremesi nel 1321, l’anno della morte di Dante. Temevano il ritorno dei ghibellini, che erano corsi in aiuto di Morruele D’Oria, assediato nel castello di Dolceacqua, e avevano ottenuto la protezione di Giovanni Manzella, che capitanava le truppe del re di Napoli. Varcata la porta, due vie salgono: a ponente dentro le rivolte di San Sebastiano, costruite nello stesso anno ad archivolto; a levante lungo la via Romolo Moreno, che s’inerpica a cielo aperto fino al semicerchio dei Tapoletti, corno di levante, interrotta di tratto in tratto da archi, archivolti e androni. Sotto uno di questi una fontanella è stata posta proprio là dove sgorgava la medievale Funtanassa.
A ponente invece l’erta è più dolce: le rivolte sbucano nella piazza San Sebastiano, detta dei Dolori, che ti affascina per la sua armonia sghimbescia, lo schizzare qua e là delle stradine che vi si dipartono, la fontanella stupidina in cui l’acqua zampilla dalla bocca di un torello (o di una mucca?), il porticato del cinquecentesco oratorio di San Sebastiano. Di lì, per la via del Pretorio, arrivi nella via Palma, così chiamata non in omaggio all’albero che simboleggia la città ma a causa della famiglia Palma, essendo un Guglielmo Palma ai suoi dì (primi del XIII secolo) uno dei fideiussori di Oberto Leone, gastaldo dell’arcivescovo di Ceriana.
La prima parte (Palma sottana o inferiore) è la più antica. Al suo inizio, all’angolo con la via Montà che sale dalla piazza del mercato, è la casa Manara, “la migliore casa che nel 1538 eravi in Sanremo” recita un manoscritto; essa ospitò nel maggio di quell’anno il papa Paolo III che andava a Nizza per conciliare la pace tra Francesco I e Carlo V (ottenne solo una tregua decennale). La Palma sottana si conclude in un archivolto dov’era una delle porte della primitiva cerchia di mura; e continua al di là con la Palma soprana o superiore, che finisce alla chiesa di San Giuseppe, che è di tutte la meno antica poiché fa parte della seconda cerchia di mura, costruita nel XVI secolo; ma anche la più monumentale, col suo arco sormontato dalla minacciosa caditoia (attraverso la quale pioveva olio bollente sul temibile mussulmano); essa reca ancora – caso rarissimo se non unico – le ante di legno, sconvolte bucherellate fissurate, ma con le loro brave borchie di ferro. Da un lato della porta si può vedere una fontana muta a forma di pigna; dall’altra un’iscrizione che la fa risalire erroneamente all’XI secolo.
I due tronchi della via Palma non tanto salgono quanto abbracciano la Pigna a ponente; per guadagnar la vetta bisogna inerpicarsi per ripide stradine. La prima la incontri ad angolo retto, e quasi non te ne accorgi. Quando sei ancora sotto gli archivolti di San Sebastiano; è la via Luca Spinola, l’antisaraceno, che sale vertiginosamente e senza requie per sbucare ai piedi di San Costanzo; alla foce un ficus centenario – ce ne sono cinque o sei, enormi, appena fuori dal dedalo della medina – affonda le sue zampe da pachiderma nella terra scoscesa, e con l’alta chioma lucida di foglie e trapunta di infinite bacche indica il cielo. La Madonna della Costa è vicina. La seconda è la via del Capitolo, che parte dalla Palma sottana, subito dopo la casa Manara, e si immette dopo un’interminabile fuga di gradini nella piazzetta dallo stesso nome; lì vedi lo striminzito palazzetto dove il Capitolo, ossia il Consiglio del Comune, amministrava la giustizia, e l’area in cui si decapitavano i condannati alla pena capitale: un fazzoletto, ma per tagliare una testa non ti bisogna spazio soverchio.

Sanremo (IM): Via Cisterna

Per uscire a riveder le stelle, tuttavia, devi percorrere ancora una galleria, le rivolte di Santa Maria, che dan ricetto a un’altra porta, chiamata di Sopra, dotata di due archi a sesto acuto. Alle stesse rivolte giunge la via Cisterna, che sale anch’essa ad angoli e gradoni dalla via Palma, ma nella parte soprana, subito dopo il vecchio archivolto; ed è così detta per la cisterna che nel 1607 vi fu costruita: il Consiglio aveva decretato di assegnare ai frati dell’oratorio di Santa Brigida le case che un tempo eran delle Monache sotto la Costa, ma a condizione – un minimo di gratitudine, perbacco – che i confratelli fabbricassero una cisterna ad uso pubblico. Dopo le rivolte di Santa Maria, eccoti al culmine, all’altro corno del semicerchio dei Tapoletti, quel di ponente. Nel cuore della Pigna, il passaggio da ovest a est è più arduo, ma son bellissimi i nomi delle strade: via dell’Alleanza (quella stipulata nel 1199 fra Genova e il Castello di San Romolo), via Umana (che è il nome di una famiglia che vi abitava nel Duecento, ma fa lo stesso), via Prudenza, che ha una colonna dove si affiggevano i bandi, e vicoli come il Maimone che veduti dall’alto sembrano scendere agli inferi.
Basta, scendiamo nella civiltà delle motorette e della carta patinata; ma anche qui ci sono cose disperse da recuperare, come la cattedrale di San Siro, splendido esempio di tardo romanico “ogivale”; e poi il palazzo Borea d’Olmo, che risale al XV secolo e che i secoli successivi hanno gentilmente infiorato (dentro c’è una stanza che ospitò il papa Pio VII).

Sanremo (IM): tracce di liberty in Via Feraldi

La Sanremo della Belle Epoque si vede un po’ dovunque – la villa Angerer, il palazzo Riviera – ma se amate il liberty andate anche al cinema: il Centrale ha due sale da mettere in cornice.
Sanremo è una delle poche città italiane dove puoi trovare una chiesa ortodossa proprio alla russa, da Cremlino, con le sue brave cupolette a cipolla che vanamente all’azzurro Mediterraneo lanciano messaggi di steppe e di fatalistica nastroetnie, che noi diremmo stato d’animo ma che è qualcosa che dentro ha una lacrima e che percepisci all’interno, di fronte all’iconostasi e alle icone (nuove perché le vecchie le ha involate l’italica furbizia), specie quando viene da Nizza il pope con quattro cantori eccezionali, e son cerimonie che mettono i brividi.
E già che siamo in tema, rammemoriamo il viale che corre lungo il mare e ahimè anche lungo la ferrovia, la passeggiata detta dell’Imperatrice. La sfida è aperta: quale imperatrice? Fossimo a Milano, diremmo subito Maria Teresa, ma qui? Ebbene, è la zarina di tutte le Russie, Maria Aleksandrovna, che in Sanremo giunse nel 1874, tredici anni dopo che il marito Alessandro II aveva concesso la libertà ai servi della gleba. E tanto bene si trovò, l’imperatrice, che andandosene regalò alla città le palme della passeggiata.
Sanremo è sicuramente la città più russa d’Italia. Il vecchio cimitero della Foce è pieno di lapidi che par d’essere a Mosca, in quel del monastero delle Vergini. Vennero a frotte i russi alla fine dell’ottocento e in seguito. Venne anche Ciaikovskij nel dicembre 1877 e vi rimase fino al febbraio dell’anno seguente, terminando l’Oneghin e la quarta sinfonia. Non finiscono tuttavia coi Romanov le case regnanti che soggiornarono in questa città. Un altro imperatore, Federico Guglielmo III di Germania, quando si chiamava ancora Federico Guglielmo, occupò per quattro mesi, con la corte, la villa Zirio; era malato di una forma eufemisticamente definita laringite, e il suo soggiorno, nell’anno 1888, durò più che il suo regno; la morte del padre lo richiamò in patria a ricever la corona imperiale; tre mesi dopo, l’imperatore lampo, il Blitzkaiser, era morto anche lui.
Poi ci sono gli ospiti borghesi: Alfred Nobel, a rappresentare la chimica e a ricordarci che con lui iniziò l’era delle grandi esplosioni; più recentemente, a rappresentare la musica, Franco Alfano e Gino Marinuzzi; e più recentemente ancora, a rappresentare la letteratura, Tommaso Landolfi. Ma se i primi tre lasciarono case, lo scrittore abitò invece in Sanremo quasi di nascosto, come da carattere, e solo perché amava il rien ne va plus più di se stesso. Sanremo sembra più adatta ad ospitare grandi uomini che a generarli.
Pure qualche bel cromosomico risultato ha ottenuto nella sua storia. Il seicento fu un secolo fortunato. Fra le colline dell’entroterra, a Perinaldo, nacque nel 1625 Gian Domenico Cassini, e divenne tanto famoso come astronomo che il Re Sole lo chiamò a Parigi a dirigere l’osservatorio appena istituito. Quarantadue anni dopo, venne a luce in città Giovanni Saccheri, altro uomo di scienza, che studiando il postulato delle parallele scoprirà la geometria non euclidea. Nell’Ottocento le glorie furono meno internazionali, e tuttavia si conosce un Alberto Nota, uomo politico e commediografo, e Romolo Moreno, latinista della Compagnia di Gesù, che tradusse tutto Virgilio, scrisse due poemi, uno un po’ iettatorio (De mundi fine) e l’altro in onore della sua città (Civitas Sancti Romuli, sive Remopolis), nonché un carme per l’inaugurazione del cimitero (Novum sepulcretum romulense) e due temibili tragedie: Leonida e il Conte Giuliano. E come si può trascurare Giovanni Ruffini, che dalla costa di ponente fu, col suo Dottor Antonio, l’indimenticabile encomiasta? E’ vero che nacque in Genova, ma a un tiro di schioppo da qui, a Taggia, avevano i Ruffini una dimora che tuttora troneggia.
E sempre nell’ambito dei limitrofo, ricordiamo anche Francesco Pastonchi che a Riva Ligure nacque e riposa.
L’ultimo rampollo a dar lustro alla città fu Italo Calvino, e non è difficile ritrovarne le tracce, nei ricordi dei suoi compagni di scuola, nel ginnasio-liceo che egli frequentò da ragazzo, nella sua casa in città, nella strada di San Giovanni, che egli cantò, e nella bottega dove metteva il naso nell’occasione dei suoi ritorni sanremesi, la Piccola Libreria, gestita allora da Maria Pia Pazielli, fine letterata e straordinaria donna di fede.
Che dire ancora di Sanremo? Meriterebbero attenzione tanti altri palazzi, che sono in città, tante altre chiese, e i grandi alberghi, sui quali oggi sembra stendersi una luce di crepuscolo. Sarebbe doveroso, se lo spazio lo consentisse, parlare della più prestigiosa istituzione culturale della città, l’orchestra sinfonica. Anche questo fiore prezioso e raro (quante altre piccole città possono vantare un’orchestra stabile?) fa parte del cuore segreto di Sanremo.
Sandro Bajini, Sanremo ha un cuore segreto, IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna – Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM), Anno I, N° 1, gennaio-marzo 2010 (testo tratto dalla rivista “Cà de Sass”, numero 133, marzo 1996, ed. Cariplo, Milano; recuperato da Marco Innocenti)