La partecipazione alle lotte partigiane spinse le donne ad essere protagoniste

Mentre la guerra di liberazione volge al suo epilogo vittorioso, la nostra cronaca sarebbe incompleta se tacessimo della funzione avuta da una brigata che non combatté eppure partecipò a tutti i combattimenti, fu presente sempre, ovunque operò senza rumorosi spari, ma la sua azione fu altrettanto efficace e necessaria che quella delle armi più perfezionate: si tratta delle partigiane: infermiere, staffette, informatrici. La Resistenza, per quanto grande potesse essere il coraggio degli uomini, non sarebbe stata possibile senza le donne; la loro funzione è stata meno appariscente, ma non meno essenziale. Né vi è alcun confronto possibile con la partecipazione delle donne alle lotte del Risorgimento e alle guerre per l’indipendenza nazionale. Si trattò allora, fatta eccezione per le giornate insurrezionali cittadine e delle rivolte popolari, di poche elette, di fulgidi esempi ma non di fenomeno di massa.
«Caratteristica fondamentale della resistenza femminile, che fu uno degli elementi più vitali della guerra di liberazione, è proprio questo suo carattere collettivo, quasi anonimo, questo suo avere per protagoniste non alcune creature eccezionali ma vaste masse appartenenti ai più diversi strati della popolazione, questo suo nascere non dalla volontà di poche, ma dalla iniziativa spontanea di molte». <13
I primi corrieri e informatori partigiani furono le donne. Inizialmente portavano assieme agli aiuti, i viveri, gli indumenti, le notizie da casa e le informazioni sui movimenti del nemico. Ben presto questo lavoro spontaneo venne organizzato, ed ogni distaccamento si creò le proprie staffette, che si specializzarono nel fare la spola tra i centri abitati e i comandi delle unità partigiane.
Le staffette costituirono un ingranaggio importante della complessa macchina dell’esercito partigiano. Senza i collegamenti assicurati dalle staffette, le direttive sarebbero rimaste lettera morta, gli aiuti, gli ordini, le informazioni non sarebbero arrivati nelle diverse zone. Delicato e duro, spesso pericoloso era il loro lavoro; anche quando non attraversavano le linee durante il combattimento, sotto il fuoco del nemico, dovevano con materiale pericoloso, talvolta ingombrante, salire per le scoscese pendici dei monti, attraversare torrenti, percorrere centinaia di chilometri in bicicletta o in camion, spesso a piedi, non di rado sotto la pioggia e l’infuriare del vento. Pigiata in un treno, serrata tra le assi sconnesse di un carro bestiame, la staffetta trascorreva lunghe ore, costretta sovente a passare la notte nelle stazioni o in aperta campagna sfidando i pericoli dei bombardamenti e del tedesco in agguato.
Spesso, queste donne, dovevano precedere i fascisti che salivano, per avvertire in tempo i nostri, e talvolta restavano coinvolte nel rastrellamento. Dopo i combattimenti non sempre i partigiani in ritirata potevano trascinarsi dietro i feriti e così rimaneva la staffetta a vegliarlo, a prestargli le cure necessarie, a cercargli il medico, a organizzare il suo ricovero in clinica.
Non di rado, dopo la battaglia, la staffetta restava sul posto nel paese occupato, per conoscere le mosse del nemico e far pervenire le informazioni ai comandi partigiani. Durante le marce di trasferimento erano all’avanguardia: quando l’unità partigiana arrivava in prossimità di un centro abitato, la staffetta per prima entrava in paese per sincerarsi se vi fossero forze nemiche e quante, se fosse possibile o meno alla colonna partigiana proseguire.
Durante le soste di pernottamento e di riposo le staffette andavano nell’abitato in cerca di viveri, di medicinali e di quant’altro occorreva. Infaticabili, sempre in moto notte e giorno per stabilire un collegamento, ricercare informazioni, portare un ordine, trasmettere una direttiva; spesso nella piccola busta che la staffetta nascondeva in seno, vi era la salvezza, la vita o la morte di centinaia di uomini.
35.00 le partigiane, inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 le patriote, con funzioni di supporto; 70.000 in tutto le donne organizzate nei Gruppi di difesa; 16 le medaglie d’oro, 17 quelle d’argento; 512 le commissarie di guerra; 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1890 le deportate in Germania. Sono questi i numeri (dati dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) della Resistenza al femminile, una realtà insufficientemente conosciuta e studiata. La seconda guerra mondiale ha permesso alle donne, in un certo senso, di emergere dall’anonimato e le ha trasformate in soggetti storici finalmente visibili, nell’esperienza di sostegno e solidarietà offerta all’azione partigiana, solidarietà che ha valicato l’ambito familiare ed è diventata valore civile di convivenza.
Simbolo del nuovo protagonismo femminile è il famosissimo “sciopero del pane” del 16 ottobre del 1941. La protesta scoppiò a Parma per la riduzione della razione pro capite di pane, nonostante le rassicurazioni dello stesso Mussolini. Le donne assaltarono un furgoncino della Barilla, formarono un corteo numeroso ed agguerrito che, al grido di “Pane, pane” riempì le strade cittadine ed impegnò le autorità fasciste per tutta la giornata. I documenti ufficiali hanno ridimensionato la partecipazione di massa a questa protesta e, soprattutto, la sua portata politica. Con questa “chiassata” le donne, casalinghe ed operaie, non operarono solo sul fronte delle rivendicazioni materiali, ma espressero tutta la rabbia ed il dissenso popolare contro il regime, la guerra e le restrizioni da essa imposte.
Questa manifestazione di massa è, quindi, da considerare un preludio del salto di qualità del ruolo delle donne all’interno del movimento clandestino. Salto di qualità dovuto anche alla graduale maturazione di una coscienza politica che fra le donne possedeva solo chi lavorava in fabbrica a causa delle attività sindacali e di propaganda antifascista che lì erano svolte. Nel momento in cui decidevano di essere contro il fascismo, esse erano obbligate non solo a schierarsi politicamente, ma anche a rompere oggettivamente con la separatezza della propria tradizionale domesticità per proiettarsi sulla scena pubblica. Sempre, invece, la frequentazione con gli ideali ed i progetti politici dell’antifascismo produceva nella loro vita, intime contraddizioni laceranti, la sensazione di essere considerate “bestie nere” per le quali la trasgressione del modello femminile tradizionale comportava l’attivazione quasi automatica di meccanismi di difesa e di auto isolamento.
La partecipazione alle lotte partigiane spinse le donne ad essere protagoniste, ad assumersi responsabilità storiche dirette, ad uscire dai moduli di un dovere solo domestico, anche se il punto di riferimento di tale uscita restava la famiglia. Oltre a questi, l’esperienza resistenziale, comportò anche altri elementi di novità: l’influenza sul carattere dell’appello al coraggio fisico ed alla resistenza psichica, l’obbligo di prendere rapidamente, magari da sole, decisioni drammatiche, lo sviluppo di capacità di controllo e di operatività in campi ignoti, l’ampliarsi del sentimento di solidarietà ed il divenire prassi attiva di una conoscenza collettiva di classe.
La lotta partigiana vide le donne nei Gap (Gruppi d’azione partigiana), nelle Sap (Squadre d’azione partigiana) e in montagna, ma anche nell’organizzazione di scioperi ed agitazioni esclusivamente femminili (si pensi alle grandi manifestazioni seguite a Torino alla morte delle sorelle Arduino), nelle carceri dove, anche sotto la tortura seppero non parlare.
Ci fu poi la diffusione della stampa clandestina (le messaggere erano quelle che, mimetizzandosi mettevano a repentaglio la loro vita superando le linee tedesche per stabilire un contatto). Le staffette potevano occuparsi di tutti questi ruoli.
Alla fine della guerra però le donne partigiane furono doppiamente tradite: dalle forze politiche tradizionali e, in molti casi, più dolorosamente, dagli stessi compagni di lotta. In fondo anche per molti uomini di sinistra le partigiane combattenti avevano trasgredito la vocazione domestica. Quindi essi preferivano pensare che le donne avessero agito più per amor loro che per autonoma scelta politica. A ciò si aggiungeva il dilemma di fondo che, probabilmente, ha attanagliato tutte le donne partigiane: ossia il conflitto tra la necessità di sopprimere vite umane da parte di chi, per natura, la vita la crea ed il tentativo di giustificare, a se stessa prima che agli altri, questo gesto contro natura. Il che è un dilemma, appunto, tutto femminile, che rappresenta probabilmente l’aspetto più travagliato e sublime di come le donne hanno saputo motivarsi in questo periodo drammatico ed esaltante che fu la Resistenza e, per certi aspetti, dà alla loro partecipazione alla Lotta di Liberazione una valenza più intimamente sofferta rispetto alla partecipazione maschile. Beppe Fenoglio, ne “Il partigiano Johnny”, descrive così il suo incontro con le partigiane: “Praticavano il libero amore, ma erano giovani donne, nella loro esatta stagione d’amore coincidente con una stagione di morte, amavano uomini e l’amore fu molto spesso il penultimo gesto della loro destinata esistenza. Si resero utili, combatterono, fuggirono per la loro vita, conobbero strazi e orrori e terrori sopportando quanto gli uomini”.
L’esperienza resistenziale accomunò, in nome della Liberazione della propria Patria dagli occupanti nazifascisti, donne di varia matrice politica […]
13 A. MARCHESINI GOBETTI, Donne piemontesi nella lotta di liberazione, Torino
Egle Scarpa, Intervista a tre donne della Resistenza, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007/2008