Di N., recentemente scomparso e che ero stato tanti anni senza vedere, mi è capitato di riparlare ieri sera con un amico, così che sono stato indotto a rileggere qualche nota che su di lui, trasferito ormai da lungo tempo vicino a Milano, avevo steso da quando avevamo ripreso a frequentarci un po’. Eravamo stati, ad esempio, da quel rinnovo di contatti a vedere a Bordighera (IM) una mostra di fotografie artistiche dedicata a Francesco Biamonti o a Roquebrune. Mi disse in un’occasione che aveva letto Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, come forse gli avevo suggerito io: solo che non so ripetere la lucida precisione con cui mi descrisse la filosofia, da lui intesa, sottesa a quel romanzo, che pur mi aveva tanto affascinato per quella che a me è sembrata una plastica commistione di paesaggi selvaggi e di crude vicende storiche poco note del sud-ovest nord-americano.
E non potevo dubitare che, quando conobbe Nico Orengo, autore anche de “La curva del Latte”, N. gli rammentasse che, certo, anni dopo quell’ambientazione romanzesca, nella campagna condotta dal protagonista lui ci aveva lavorato da bracciante. Prima che N. diventasse a costo di grandi studi e di pesanti sacrifici un importante dirigente in due diversi comuni dell’hinterland milanese. Nell’occasione N. ricavò dallo scrittore anche un breve, corrisposto ritratto affettuoso del figlio reale (già datore di lavoro di N.) di quel personaggio, figlio, cui Orengo, particolare non secondario a me sfuggito, aveva dedicato un pensiero in un’altra opera. Nella foga della nostra discussione N. ne aveva sul momento dimenticato il titolo, che io in seguito non mi ricordai più di chiedergli. In oggi stimo di ravvisare questa dedica di Orengo in L’intagliatore di noccioli di pesca.
N., che in gioventù tirava tardi a discutere con Francesco Biamonti davanti al Bar Irene di Ventimiglia (IM) ormai chiuso, mentre doveva alzarsi di lì a poche ore per tornare al suo lavoro, all’epoca, agricolo, non ricordava, invece, molto del professor Raffaello Monti, già amico e corrispondente di Aldo Capitini. Eppure ai nostri vent’anni era stato lui a riferirmi citazioni di quella più vecchia Bordighera dell’Unione Culturale Democratica (tuttora operante grazie alla pregnante tenacia di Giorgio Loreti), che vide impegnati, tra gli altri, Francesco Biamonti, Guido Seborga, Angelo Oliva, i pittori Sergio Biancheri e Sergio Gagliolo: un tema questo, che non sono adesso in grado di sviluppare al meglio, per cui mi riprometto di rivisitarlo producendo eventualmente acconci link.
Fu, tuttavia, in occasione di una nostra escursione a La Turbie, a Ferragosto del 2012, forse proprio mentre eravamo abbarbicati, su sua istigazione, su di un piccolo ripiano del Trofeo di Augusto non propriamente raccomandato, per non dire proibito, al pubblico, che N. mi colpì con un’icastica espressione: la “luce di Singapore”. Mi rammarico di non avere afferrato meglio il concetto, della cui rilevanza non potevo dubitare, avendo a quel momento N. già compiuto tanti viaggi all’estero all’insegna di un turismo culturale molto sofisticato, come in Namibia, Eritrea, Vietnam, Nuova Caledonia e Singapore, per l’appunto. Una definizione, in ogni caso, va da sé, bella e significativa, che N., con mio grande orgoglio di indigeno in quanto a nascita, scorgeva come fenomeno naturale di grande e nitido splendore per certe ore di certi pomeriggi di molte giornate in questi nostri luoghi.
E potrei continuare, non fosse altro che per sottolineare che colpevolmente a tuttoggi non ho ancora letto nulla di Vasilij Semenov Grossman, che N. riteneva uno scrittore di incomparabile umanità…