La condotta alleata, il più delle volte dai tratti asistematici e improvvisati, assumeva un forte carattere di mediazione tra esigenze militari e considerazioni politiche

Lo studio dell’interazione avvenuta tra le potenze alleate e le autorità italiane in una forma prima passiva in un contesto strategico nel quale la penisola faceva la propria comparsa in veste di obiettivo, poi attiva a partire dal contatto sopraggiunto con lo sbarco in Sicilia, suggerisce l’esistenza di un disegno anglo-americano per l’Italia – non coerente né costante, modellato gradualmente in base alle circostanze geopolitiche, militari e amministrative presentate dall’andamento della guerra in Europa e modulato sulle esigenze che man mano emergevano dall’occupazione della penisola e dalla gestione dei rapporti interalleati che da questa venivano in larga parte determinati, che si sviluppa lungo l’arco dell’intera esperienza bellica alleata. Un tale disegno si articolava in due fasi distinte ma complementari, in una sorta di successione tra una pars destruens e una costruens, ciascuna delle quali a sua volta costituita da un momento di elaborazione, conflittuale e di natura compromissoria, che ne precedeva uno di attuazione, incerto e forgiato dalle circostanze contingenti, in un ininterrotto rapporto di interdipendenza poietica tra le direttive provenienti dall’alto e le valutazioni svolte dal basso.
L’Italia nasce come progetto britannico e, malgrado l’imponente crescita dell’influenza americana nel Mediterraneo, continua a esserlo quantomeno fino ai mesi a cavallo tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945. Nel primo triennio della guerra, lo scontro sui dettagli della strategia mediterranea si presenta come una vicenda tutta interna al fronte britannico. L’isolamento cui Londra era costretta a partire dalla caduta dell’alleato francese e il ridotto potenziale offensivo che non le permetteva di affondare il colpo contro il ben più ostico nemico tedesco, convincevano gli strateghi inglesi a concentrare le proprie risorse sull’eliminazione della potenza che, con la sua politica imperialistica perseguita nel Mediterraneo, aveva rimesso in discussione la supremazia britannica nella regione, cruciale al mantenimento delle comunicazioni interne all’impero. Se la Germania appariva ancora una potenza inespugnabile, l’Italia risultava essere l’unico obiettivo militare realisticamente conseguibile. Le quattro operazioni pianificate durante quel primo triennio non erano riuscite a vedere la luce a causa di una combinazione di eventi militari che ne avevano reso sconveniente la realizzazione, ma avevano gettato le basi per un’evoluzione del planning che consentisse l’allargamento dello spettro operativo britannico. A partire dal gennaio 1942, infatti, l’avvio di una pianificazione congiunta con l’alleato americano apriva una nuova fase che avrebbe portato nel giro di un anno e mezzo, a coronamento di un aspro dibattito strategico, alla penetrazione di truppe anglo-americane nel Mediterraneo riaperto ai traffici alleati. La presa della costa nordafricana e lo sbarco in Sicilia chiudevano un percorso avviato dai pianificatori britannici sin dalle prime battute del conflitto. Sulla scia di quanto preparato nei tre anni e mezzo precedenti, gli inglesi, approfittando della potenza economica e militare dell’alleato accorso in aiuto, riuscivano finalmente a lanciare un’operazione decisiva contro l’Italia dopo diversi tentativi falliti sul nascere. L’ampliamento delle operazioni mediterranee, ottenuto dalle sollecitazioni inglesi a detrimento della futura concentrazione di forze per uno sbarco sulla costa normanna, non era che uno sviluppo naturale, forse inevitabile, delle fondamenta strategiche gettate nel triennio precedente. Era vero, come ricordava Churchill, che gli americani erano stati coinvolti nella campagna mediterranea dalle insistenze britanniche, che Londra li avesse condotti «up the garden path in the Mediterranean – but what a beautiful path it has proved to be. They have picked peaches here, nectarines there. How grateful they should be» <1.
L’idea di prolungare la durata e la portata delle operazioni alleate nel Mediterraneo rimaneva, almeno nelle fasi iniziali, di fattura quasi interamente britannica e si inseriva nel solco della priorità assegnata all’eliminazione dell’Italia nel contesto della campagna europea. Diversamente da quanto sostenuto da Aga Rossi, secondo la quale «nella strategia alleata fino al 1943, l’Italia occupava un posto decisamente secondario», la penisola rappresentava il perno di una strategia periferica in cui l’obiettivo primario della pianificazione britannica si trasformava, per riflesso di un tira e molla progettuale con gli americani, nel principale target alleato in vista del rientro sul continente <2. La decisione di Casablanca non costituiva affatto un episodio fortuito all’interno del processo decisionale alleato, bensì il frutto consapevole di anni di programmazione e analisi strategica culminati nell’opera di convincimento che aveva portato gli americani ad assecondare i piani inglesi.
La stessa ragione che aveva legato la Gran Bretagna all’Italia nella prima parte della guerra – e del lavoro, vale a dire quella strategica concernente il recupero del controllo mediterraneo e il conseguente mantenimento della stabilità nella regione, induceva gli americani a interessarsi alla penisola nella seconda fase, quella segnata dall’occupazione del paese e dalle preoccupazioni per la ricostruzione di un’Europa facente parte del nuovo sistema mondiale in cantiere. Laddove per gli inglesi era, come si è visto, il libero transito marittimo necessario alla conservazione dell’impero asiatico a risultare di vitale importanza, per Washington era un insieme eterogeneo di interessi, tra i quali la necessità di controllare le riserve petrolifere del Medio Oriente e di contenere l’espansione dell’influenza sovietica nelle aree contigue, a rendere indispensabile il dominio sul Mediterraneo. Vista dall’altra parte dell’Atlantico, l’Italia poteva e doveva fungere da baluardo del nuovo Occidente in costruzione.
L’individuazione di solide radici strategiche alla presenza alleata in Italia dimostra come la persistenza del controllo fino a dopoguerra inoltrato non avesse affatto carattere contingente o casuale, bensì fosse maturata dopo una lunga preparazione durata quattro anni. Il fatto che nel primo triennio l’interesse fosse di natura prevalentemente militare non può nascondere la presenza di elementi politici nelle analisi compiute da strateghi e leader alleati, tutti interessati a conseguire la sconfitta italiana non soltanto per i benefici militari che questa avrebbe apportato, ma anche per la possibilità che questa avrebbe fornito di ridisegnare gli scenari geopolitici mediterranei. Quello che era stato originariamente concepito come un semplice progetto strategico di matrice britannica si sarebbe evoluto, nel breve volgere di un biennio, in un vasto e complesso sistema di controllo militare, amministrativo ed economico che avrebbe dominato il Mediterraneo nei decenni a venire, all’interno del quale, a differenza di quanto suggerito dalle posizioni di partenza, sarebbe stata la componente americana a prevalere incontrastata. A partire dal tardo 1943, la partecipazione americana alle imprese mediterranee aveva infatti assunto una qualità diversa, assai più convinta e interventista. L’emergere di un legame tra sicurezza nazionale, interessi vitali e la gestione di quella stessa area che era stata descritta con orrore solo fino a pochi anni prima aveva stimolato una crescita decisa della partecipazione americana all’elaborazione di una politica italiana. L’Italia, dunque, emersa come obiettivo britannico, diveniva un terreno di scontro di interessi contrastanti e sovrapposti tra i due alleati. Ironico, in considerazione della genesi britannica del piano italiano, che alla fine della guerra i frutti offerti dal giardino mediterraneo sarebbero stati colti dagli americani, inizialmente riluttanti all’idea di invadere la penisola e di farsi coinvolgere negli affari regionali. Il sentiero fiorito si era rivelato più attraente del previsto, ma per ragioni ben diverse da quelle preventivate dagli inglesi.
In una ricognizione dell’evoluzione dei rapporti interalleati e, conseguentemente, della politica alleata per l’Italia si viene a creare lo spazio per porre un quesito di natura fondativa. Volendo tracciare le origini dei diversi elementi di questa politica determinandone la provenienza all’interno della cornice costituita dall’alleanza atlantica, ci si chiede a quale componente nazionale sia da attribuirsi l’adozione di un determinato tipo di atteggiamento riabilitativo nei confronti degli italiani, e in che modo il progressivo distacco tra le posizioni di americani e inglesi nel processo elaborativo aveva influito sugli esiti della formazione di un quadro di riferimento teorico che guidasse l’azione anglo-americana in Italia. Era stata davvero la componente liberale di questa politica unicamente legata all’atteggiamento progressista americano e non anche all’interessamento britannico per le sorti della penisola e del proprio spazio imperiale, come sembrano suggerire, con uno schiacciamento prospettico, gli sviluppi successivi alla conclusione della guerra?
La tesi di fondo che percorre l’intero lavoro può essere identificata in una continuità tra le due fasi del progetto alleato e una rivalutazione dell’apporto fornito da Londra alla costruzione di una struttura istituzionale a sostegno dell’occupazione in Italia e a un’emancipazione della condotta alleata nel paese da quella politica esercitata secondo principi restrittivi e oppressivi che da Londra stessa era stata applicata occasionalmente. È forse possibile sostenere che, contrariamente a quanto la storiografia ha lasciato intendere, vi fossero gli inglesi dietro alcune delle principali svolte migliorative della politica alleata nei confronti dell’Italia. Nell’ampia parabola disegnata dalla messa a punto dei parametri di riferimento per una nuova politica fondata sul reinserimento graduale dell’Italia all’interno del concerto delle nazioni, i britannici ricoprivano un ruolo che rispecchiava più gli originari livelli di interesse, quelli che avevano trainato la pianificazione negli anni iniziali, che i mutati equilibri di potere raggiunti in seno dell’alleanza. Ancora nel 1945, quando il sorpasso americano era ormai avvenuto anche nella conduzione della transizione istituzionale italiana, le cariche principali nell’organigramma del controllo alleato si trovavano nelle mani di esponenti britannici. La politica anglo-americana continuava a essere fortemente orientata dalle posizioni espresse dai rappresentanti inglesi attivi nella penisola, in particolare Macmillan, e dai compromessi che questi riuscivano di volta in volta a trovare tra posizioni spesso contrastanti e incompatibili.
L’intera politica alleata, in definitiva, sembra avere un forte sapore britannico. In aggiunta alla definizione di una nuova politica che superasse le restrizioni dei vincoli armistiziali, avviata tra l’agosto e il settembre del 1944 sulle linee tracciate da Londra, nei momenti cruciali della preparazione giuridica e politica del sistema di vigilanza da imporre in Italia, con la notevole eccezione dell’insistenza sulla firma dei long terms, erano spesso stati gli inglesi a mostrare un atteggiamento più indulgente e pragmatico rispetto all’intransigenza ideologica americana. Nel corso del dibattito atlantico che aveva interessato la natura stessa da imprimere al controllo, quattro momenti centrali aiutano a evidenziare la difformità negli atteggiamenti adottati dai poli della produzione politica alleata nei confronti dell’Italia occupata. Nel 1943, quello della definizione della struttura concettuale e istituzional-giuridica della presenza anglo-americana nella penisola, la discussione sull’impiego, o meglio sulla sopravvivenza stessa di un’autorità italiana nel periodo dell’occupazione; la determinazione del carattere, diretto o indiretto, del governo militare che la avrebbe soppiantata; la tutela delle istituzioni italiane, nella forma provvisoria rappresentata dal connubio tra la precarietà governativa di Badoglio e l’emarginazione politica della monarchia; l’istanza di allentamento del controllo e di aumento delle responsabilità dell’amministrazione italiana attraverso un’anticipata e compiuta restituzione dei territori liberati alla sua sovranità mostravano una contrapposizione di fondo tra il pragmatismo britannico e l’idealismo americano che si sarebbe capovolta in una fase successiva, quando le condizioni geopolitiche generate dai nuovi equilibri continentali avrebbero imposto ad entrambi i giocatori un ripensamento delle posizioni in materia di politica italiana. In queste congiunture dal valore paradigmatico, all’immagine tradizionale di un governo britannico contrario alla ricostruzione di un’Italia forte nel Mediterraneo e attento al blocco di qualsiasi tentativo di ripristinare l’originaria potenza italiana si andava giustapponendo dunque quella di una Londra che, seppur ancorata a un radicato risentimento nei confronti del nemico che aveva tentato di approfittare delle difficoltà britanniche nel momento di maggiore criticità della guerra inglese, adottava un atteggiamento realistico negli snodi cruciali dell’elaborazione delle modalità di occupazione in Italia.
Nel corso delle trattative sulla possibilità di firmare un documento armistiziale con gli italiani, così come in occasione degli altri episodi menzionati, si delinea un quadro interpretativo all’interno del quale è possibile attribuire all’amministrazione britannica un’influenza moderatrice, operando attivamente affinché si conservasse una struttura amministrativa italiana sulla quale costruire un’occupazione militare ridotta ai minimi termini, piuttosto che a un governo americano fautore di un’impalcatura istituzionale che lasciasse la direzione dell’Italia occupata interamente al comando militare di Algeri e di un modus operandi che non concedesse alcuna partecipazione attiva del governo locale al processo di recupero democratico che doveva essere avviato in Italia. L’approccio accomodante scelto dagli inglesi, per ragioni di natura utilitaristica, verso la conservazione di uno scheletro amministrativo locale ne metteva a nudo, per contrasto, uno assai meno conciliante da parte americana, segnato da un rigido rispetto dei principi enunciati dalla dottrina della resa incondizionata e del suo corollario della supremazia della componente militare nella gestione dell’intera vicenda dell’occupazione.
Nel corso del lavoro qui presentato emergono con costanza una serie di tematiche che definiscono l’approccio utilizzato nell’affrontare lo studio della documentazione e la ricostruzione del quadro della politica alleata per l’Italia negli anni della guerra.
La prima considerazione riguarda inevitabilmente la ricostruzione di una gerarchia di potere fra le istituzioni deputate al controllo in Italia e il peso di ciascuno degli agenti in gioco nella catena di comando alleata ai fini della produzione politica per l’Italia. Il processo genetico della politica alleata passava attraverso i tre centri di elaborazione – Londra, Washington e Algeri, in un continuo interagire di due piani diversi, caratterizzati dalle tensioni esistenti tra gli elementi politici e quelli militari del decision-making anglo-americano e, in seconda battuta, tra l’imposizione dall’alto e la rielaborazione dal basso delle direttive destinate ai territori occupati. L’analisi delle svolte evolutive che avevano interessato il quadro istituzionale italiano a partire dalle fasi iniziali della pianificazione anglo-americana per il governo militare evidenzia quanto le decisioni politiche venissero prese prevalentemente sul campo da militari o funzionari governativi. L’influenza degli stessi Roosevelt e Churchill si rivelava talvolta superata dalla complessità della situazione in loco, come massimamente esemplificato dalle circostanze che portarono alla formazione del governo Bonomi nel giugno 1944, e soltanto in rare occasioni gli agenti alleati in Italia o ad Algeri agivano in conformità con chiare direttive dall’alto, adeguandosi spesse volte alle diverse complicazioni che sorgevano nella gestione quotidiana degli affari italiani. La politica veniva dunque decisa nei suoi nodi essenziali sul campo dal Comandante Supremo, prima Eisenhower poi Wilson, e dai due consiglieri politici in rappresentanza dei governi anglo-americani, Macmillan e Murphy, i quali agivano dietro le indicazioni che provenivano dagli organismi dediti specificamente alla gestione delle vicende italiane, dall’Allied Control Commission e la sua organizzazione militare sul territorio all’Advisory Council, con la sua particolare attenzione agli aspetti civili dell’occupazione. Così facendo, la condotta alleata, il più delle volte dai tratti asistematici e improvvisati, assumeva un forte carattere di mediazione tra esigenze militari e considerazioni politiche, tra necessità pratiche e valutazioni di carattere teorico.
Altro tema ricorrente attiene ai rapporti tra potere politico e comando militare, avviluppati in una relazione altalenante dal dialogo problematico che si traduceva di conseguenza in una linea d’azione dall’aspetto polimorfo e contrastato, al contempo incerta e pronta ad adattarsi con flessibilità alle circostanze locali e internazionali in rapida evoluzione. La dottrina della supremazia militare nel teatro mediterraneo, seppur mantenendo il Comandante un ruolo centrale nell’organigramma alleato, stava nel frattempo assumendo una connotazione sempre più politica. L’evoluzione verso forme maggiormente contrattate del controllo, con la progressiva sostituzione del governo militare con il binomio costituito dalla commissione e dal consiglio, mostrava il lento avvio di una fase di transizione a una politica inclusiva nei confronti degli italiani.
Come si accennava in precedenza, la politica alleata in Italia non era contraddistinta da un’articolazione organica e un’applicazione omogenea. L’atteggiamento oscillante tenuto dai due alleati nei confronti della questione cardinale nell’intero sistema di controllo, la natura diretta o indiretta del controllo stesso, e del grado di utilizzazione delle prerogative concesse dalle clausole armistiziali ne caratterizzava lo svolgimento. Ciononostante, una chiara tendenza all’adozione di forme di una sorveglianza sempre più remota era evidente. Il controllo alleato in Italia si era infatti sviluppato lungo un percorso di progressivo allentatamento della pressione sulle istituzioni locali e aveva gradualmente sostituito il direct rule previsto dal governo militare con una accresciuta misura di responsabilità affidata all’amministrazione italiana. In questo contesto di dispiegamento scalare di una politica meno rigida, le interferenze alleate si manifestavano nella norma più che nella prassi. L’aderenza alla lettera dell’armistizio era saltuaria e limitata ad alcuni episodi isolati e le ingerenze sulla vita istituzionale italiana, benché cospicue, non erano mai state oltremodo appariscenti e avevano ostacolato la naturale progressione del panorama politico-istituzionale italiano soltanto nei frangenti di maggiore difficoltà. L’intervento anglo-americano per il tramite degli enti da loro innestati nelle regioni occupate era al contempo costante e infrequente. L’esistenza stessa della cornice costitutiva del sistema di occupazione implicava una notevole intrusione alleata nelle vicende istituzionali italiane, ma l’intervento esplicito, quello categorico, era scelto sporadicamente in situazioni limitate alla tutela dei propri interessi o al raggiungimento di una soluzione conforme ai principi di riferimento della politica implementata in Italia. Quando gli anglo-americani si trovavano ad intervenire, lo facevano sovente perché chiamati in causa dagli italiani stessi, i quali si appoggiavano all’autorità rappresentata dagli Alleati per dirimere le dispute interne allo scenario politico italiano, invocando l’intervento risolutore delle potenze occupanti a mo’ di deus ex machina. Nei momenti chiave – ad esempio durante le crisi politiche di novembre 1943, marzo e giugno ’44, le pressioni esercitate erano state decise ma non perentorie, come dimostrano le circostanze che avevano portato alla rimozione del Re e all’arrivo al governo dei partiti antifascisti.
Accanto al dipanarsi di una consuetudine relazionale improntata alla consultazione reciproca figuravano tuttavia le remore poste dai governi anglo-americani al pieno affrancamento del cobelligerante italiano dallo status di nemico. La decisione di conservare intatte le prerogative previste dalle clausole armistiziali sino alla stipula del trattato di pace, per quanto contraddetta da una prassi indirizzata verso la concessione di uno spazio di manovra sempre più ampio al sistema istituzionale italiano, tradiva una mancanza di fiducia nei confronti di un antagonista trasformatosi in collaboratore che con difficoltà si stava guadagnando una posizione all’interno dell’alleanza atlantica. Un atteggiamento, insomma, quello alleato nei confronti dell’Italia, che nella sua difficile convivenza tra due anime contrastanti – tendenti l’una ad accogliere, l’altra a respingere, può facilmente essere racchiuso nella massima attribuita a Lenin: «trust is good, control is better».
[NOTE]
1 La citazione di Churchill durante un incontro con i Chiefs of Staff del 19 luglio 1943, riportata in Stoler, The Politics of the Second Front, cit., p. 100.
2 Aga Rossi, Una nazione allo sbando, cit., p. 60.
Marco Maria Aterrano, “The Garden Path”. Il dibattito interalleato e l’evoluzione della politica anglo-americana per l’Italia dalla strategia militare al controllo istituzionale, 1939-1945, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, Anno Accademico 2012-2013