
Le valli di Lanzo furono investite per prime, il 7 marzo [1944]. I distaccamenti partigiani che vi operavano, con una forza complessiva di circa 350 uomini, attaccati da contingenti nemici dieci volte più numerosi e con un armamento senza confronti superiore, riuscirono a sganciarsi non senza danni. Ma si riordinarono quasi subito, ed anzi nelle settimane successive migliorarono la loro organizzazione ed il loro coordinamento, riunendosi e costituendo la lla brigata Garibaldi.
Subito dopo il nemico si spostò nel settore monregalese, posto dal comitato militare piemontese sotto il comando del maggiore Mauri. Con forze ancora più ingenti, non meno di diecimila uomini, suddivisi in colonne motorizzate e con un numero ragguardevole di mezzi blindati, con uno spiegamento impressionante di artiglierie e di mortai, i tedeschi attaccarono il 13 il sistema costituito dalla val Corsaglia, tenuta dalla formazione di Ignazio Vian, spostatosi da Boves poche settimane prima, dalla val Casotto, dalla val Mongia e dalla val Tanaro. Nelle quattro vallate erano dislocati circa duemila uomini; gli armati superavano appena il migliaio, considerando anche i cinquecento della val Tanaro, tutti elementi locali che svolgevano normalmente il loro abituale lavoro e si riunivano solo al momento dell’azione. I disarmati erano giovani renitenti alla leva, affluiti nelle valli pochi giorni prima, e in parte smistati ai vari distaccamenti per essere adibiti ai servizi. Il numero dei partigiani armati e inquadrati si riduceva quindi a poco più di seicento, due terzi dei quali in val Casotto. L’armamento era discreto, quasi tutto di preda bellica; un recente aviolancio effettuato dagli alleati aveva accresciuto la dotazione dei partigiani con i 23 sten piovuti dal cielo: una beffa. In val Corsaglia, i partigiani di Vian, dopo una giornata di duri combattimenti, si frazionavano e nei giorni successivi ripiegavano verso la val Casotto od in altre zone limitrofe, continuando ad impegnare il nemico in brevi scontri. La sera del 15 era rimasto in valle solo il comandante che, con pochi uomini, riuscì ad aprirsi il passo verso la pianura dove radunò altri elementi sbandati. Più tardi si porterà nelle Langhe. Mentre in val Tanaro i tedeschi penetravano senza incontrare resistenza alcuna, in val Mongia si ripeteva la situazione della val Corsaglia: il tenente Filippo Rizza, comandante della banda, dopo i primi scontri doveva ripiegare a forze frazionate, parte delle quali si ricongiunsero ai gruppi di val Casotto. Fu in quest’ultima valle che ebbe luogo la battaglia più violenta e sanguinosa; una battaglia che è citata spesso nella storiografia della resistenza non già per l’importanza che effettivamente ebbe, malgrado il suo esito sfortunato, nel quadro delle operazioni primaverili, ma come esempio tipico di apposizione di sicurezza, assai profonda, e conglobante una serie di postazioni dislocate in successione dal versante occidentale del monte Alpet alla Serra di Pamparato. Seguiva quindi la posizione di resistenza, ancorata a due solidi caposaldi: a sinistra quello di Tagliente, e a destra il Baraccone, quest’ultimo costituito da chilometri di trincee scavate nella montagna. Tra i capisaldi, una scacchiera di centri di fuoco, a tergo dei quali altre postazioni coprivano il settore compreso tra le pendici meridionali del monte Mindino e la parete nord del monte Antoroto. Il comando di settore disponeva infine di reparti di manovra per il pronto intervento nei punti più minacciati od anche per l’impiego in azioni di contrattacco. L’esperienza dei mesi precedenti accreditava la previsione che il nemico, dopo l’insuccesso delle incursioni a breve raggio con le quali aveva sperato di estinguere i primi focolai di ribellione, avrebbe lanciato attacchi più massicci. Ma in quale misura sarebbe aumentata la loro consistenza? Tenuto conto della situazione sul fronte principale e della vastità del fronte partigiano, si poteva ragionevolmente ipotizzare un rafforzamento dei reparti di repressione sino a raggiungere la forza numerica d’un reggimento. Rivelandosi esatto questo calcolo, il dispositivo organizzato a difesa della val Casotto sarebbe stato in grado di contrastare con successo un attacco di quelle dimensioni. Senonché accadde l’inverosimile: il comando delle SS e della polizia, smanioso di eliminare il cosidetto ribellismo anche per scongiurare il pericolo d’essere esautorato da Kesselring, non esitò ad impiegare nel ciclo primaverile di rastrellamenti un complesso di forze tale da sconvolgere le peggiori previsioni. Contro la val Casotto furono scagliati contingenti di truppe pari agli effettivi di una divisione ed anche più. Il comando partigiano si trovò così a dover fronteggiare improvvisamente una situazione impensata, non certo per sua colpevole imprevidenza (non risulta che altri dirigenti responsabili della resistenza avessero contemplato in anticipo quella eventualità); ed ormai era troppo tardi per trovare il modo di sottrarvisi. L’esito della battaglia era scontato in partenza; ma il suo svolgimento dimostrò l’efficienza delle formazioni del monregalese e della loro organizzazione difensiva che, approntata in modo da reggere vittoriosamente l’urto nemico entro i limiti d’un rapporto di forze di tre a uno, cedette di fronte a un rapporto di forze di venti a uno; ma nonostante l’enorme divario numerico e di mezzi, i combattimenti si protrassero per cinque giorni, e se le perdite partigiane furono gravi – quattrocento uomini fra morti, feriti e dispersi – quelle nemiche ammontarono a tremila uomini. Una vittoria conseguita a quel prezzo condannava inesorabilmente all’insuccesso finale l’offensiva intrapresa dai tedeschi nel marzo-aprile con l’obiettivo dichiarato di distruggere il movimento partigiano. Mentre i partigiani superstiti di val Casotto e di val Corsaglia si sparpagliavano sulle montagne per sottrarsi al nemico che li braccava, per poi radunarsi, due settimane dopo, nelle Langhe dove, agli ordini del maggiore Mauri, costituirono il nucleo originario di quel poderoso complesso che diverrà in meno d’un semestre il 1° gruppo divisioni alpine, i reparti tedeschi decimati e logorati dalla battaglia, ma furiosi per la resistenza incontrata e per le perdite subite, si spostarono nella valle Varaita, controllata da trecento garibaldini, i quali tentarono anch’essi di resistere sul posto. Ma, inferiori numericamente alle forze di Mauri, ancora in fase di assestamento organizzativo, con un armamento più scadente di quello delle bande militari, con una sistemazione difensiva sommaria e non sufficientemente scaglionata in profondità, senza un reparto di manovra in riserva, non potevano sopperire a tutte queste carenze col pur elevatissimo spirito combattivo che li animava. Indubbiamente nella loro condizione, ben diversa da quella di Mauri, avrebbero dovuto a maggior ragione sottrarsi allo scontro frontale. Lo accettarono, invece, e furono soverchiati dal nemico preponderante, al quale inflissero delle gravi perdite, pur subendone a loro volta in misura pesante.
I superstiti si ritirarono sui monti della valle del Macra. Ma anch’essi tornarono presto, si riorganizzarono, e poco dopo anche nella valle Varaita si costituì una brigata Garibaldi. Il nemico investì poi, il 25 marzo, la valle Maira, dope operava la banda “Italia libera”, una formazione Giustizia e libertà con una forza esigua rispetto ai raggruppamenti di val Casotto e di val Varaita: non più di settanta uomini. La colonna nazifascista contava duemila effettivi, di cui la metà tedeschi, gli altri fascisti delle brigate nere Resega e della legione Muti. I partigiani, anche in ragione del loro numero, adottarono una tattica fondata sullo sganciamento, accompagnato da insistenti azioni di molestia, finché il 28, quando il nemico sferrò l’attacco risolutivo «tutti i reparti operanti vennero richiamati, le postazioni fisse, ormai individuate, venivano eliminate. Sotterrate le armi pesanti, gli uomini fisicamente efficienti formarono squadre mobili, divise nella valle e con settori determinati come campo d’azione. Gli uomini provati ed il comando si ritirarono in località posta fuori del campo di operazioni… Dopo quattro giorni di fuoco, tutte le squadre dovevano abbandonare la zona d’operazione e ripiegare nella località in cui già si trovava il comando». (La citazione è tolta dalla relazione del comando militare sul rastrellamento della valle Maira del 25-31 marzo). Dopo questa operazione che concludeva la prima fase del ciclo operativo nelle province orientali del Piemonte, i tedeschi, con altre forze dipendenti dai comandi militari di Alessandria e di Genova, si rivolsero contro le formazioni che andavano costituendosi sull’altipiano del Tobbio. Colti in piena fase di costituzione, con molti uomini ancora disarmati, i partigiani garibaldini e autonomi di quella zona non poterono opporre resistenza alcuna al menico, e si dispersero. Accadde allora, il 7 aprile, un feroce episodio: settantacinque ragazzi, renitenti alla leva, s’erano rifugiati nell’antico convento in rovina della Benedicta. Catturati, furono tutti passati per le armi dalla soldataglia fascista, alla quale i tedeschi lasciarono il compito di eseguire materialmente l’eccidio. Per alcuni giorni le salme dei giovani della Benedicta restarono insepolte; solo il 14 aprile i parenti poterono recarsi sul posto per recuperarle e provvedere alla sepoltura. Altre stragi furono perpetrate nei giorni successivi in varie località del Piemonte e della Liguria: Voltaggio, Villa Bagnara, ed altri centri abitati videro i nazifascisti dar libero sfogo alla loro ferocia nell’intervallo tra la prima fase e la ripresa delle operazioni di grande polizia nelle vallate occidentali. La seconda fase cominciò il 20 aprile con l’attacco al settore del cuneese, comprendente le valli Macra, Grana, Stura, Gesso e Vermenagna, dove operavano cinque bande Giustizia e libertà: due in val Grana, comandate da Pino Vento e da Alberto Bianco, una in valle Stura, agli ordini di Ettore Rosa, una nel vallone dell’Arma (alta valle Stura), comandata dal tenente Nuto Revelli, ed una in valle Gesso, con a capo Aldo Quaranta.
Pietro Secchia – Filippo Frassati, Storia della Resistenza. La guerra di liberazione in Italia 1943-1945 – Vol. 1, Editori Riuniti, Roma, 1965
Il rastrellamento, che inizia il 20 aprile 1944 e riguarda soprattutto le valli Gesso, Stura e Grana, chiude il ciclo di quelli operati tra marzo e aprile su tutto l’arco delle Alpi cuneesi e colpisce le formazioni GL. La tattica di guerriglia messa in atto nella 4a Banda GL, comandata da Nuto Revelli, dà i suoi risultati: blocca il nemico e praticamente senza perdite umane fra i partigiani in combattimento. Le altre bande, che si disperdono in valle Grana e valle Maira, vengono circondate dai rastrellatori e lasciano nelle mani tedesche molti prigionieri, poi fucilati.
Michele Calandri, Episodio di Valli Gesso, Stura, Grana, Maira, 20.04-04.05.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia
Senza numero.
Anche i patrioti di Valle Casotto dispersi da forze tedesche superiori per numero et armamento alt Anche questa Valle Pesio bloccata da cinque giorni et attende attacco da un’ora all’altra alt Metà uomini disarmati mandate subito munizioni et armi pesanti automatiche et mortai alt Messaggio positivo di questa valle est “la pera est cotta” alt molti viveri a secco venite subito alt.
Ricevuto il 18 marzo 1944.
In partenza (LLL 2)
(50977/C) Messaggio numero alt per capitano Cosa alt. Eroico comportamento banda est apprezzato da questo comando che nel fermo contegno dimostrato vede le possibilità per lo sviluppo di azioni future alt Abbiamo fiducia che bande Valli contigue momentaneamente disperse potranno ricostituirsi presto per assolvere compiti che preciseremo alt At lei et ai patrioti della Val Pesio ancora impegnati nella lotta giunga vivo plauso et cordiale fraterno saluto alt. Comando Supremo.
Trasmesso il 31 marzo 1944.
copie di messaggi cifrati della missione in parola in Claudia Nasini, Una guerra di spie. Intelligence anglo-americana, Resistenza e badogliani nella sesta Zona operativa ligure partigiana (1943-1945), Tangram Edizioni Scientifiche, Trento, 2012