Il film di Rossellini non aveva risposto a quegli scopi propagandistici per cui era stato ideato

Fonte: Pietro Cavallo, art.cit. infra

Qualcuno forse se lo chiederà: perché, in un volume sulla guerra, affrontare l’argomento da una prospettiva così particolare come quella rappresentata dal cinema di Roberto Rossellini?
La risposta è semplice e, ovviamente, prescinde dalla validità e dalle innovazioni formali del cinema rosselliniano: il regista romano realizzò, durante il conflitto, tre film (La nave bianca, Un pilota ritorna, L’uomo dalla croce), una vera e propria trilogia, seguita, nel dopoguerra, da una seconda (Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero), nella quale molti hanno visto un drastico passaggio di campo, da atteggiamenti molto vicini al regime a posizioni fortemente antifasciste. Così, in un volume pubblicato dieci anni fa, Rossellini diventava uno dei rappresentanti più conosciuti di quegli intellettuali che «vissero due volte», un opportunista che avrebbe saputo cogliere l’evoluzione dei tempi, secondo la battuta un po’ maliziosa di Sergio Amidei: «Era in fondo un realista che sapeva stare nella realtà politica» <1. Insomma, la cosiddetta «trilogia della guerra» può costituire, per lo storico, un interessante terreno da esplorare per chiedersi quanto e come modelli e parole d’ordine della propaganda fascista in guerra passassero e fossero filtrate da una persona di grande cultura, sensibilità e genialità quale fu Roberto Rossellini.
Iniziamo dal primo film, La nave bianca, pellicola, premiata alla Mostra di Venezia del ’41, che riscosse un buon successo di pubblico e soprattutto di critica. Il soggetto del film era opera di De Robertis, la sceneggiatura di De Robertis e Rossellini, la regia di Rossellini con la supervisione di De Robertis.

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[…] Che la regia fosse di Rossellini o De Robertis è questione sicuramente di difficile soluzione, dal momento che la storia dell’opera è affidata soltanto alle testimonianze dei due registi e a quelle dei loro collaboratori. Gianni Rondolino sostiene che La nave bianca nacque probabilmente «a quattro mani» per diventare «poi film di Rossellini», tanto è vero che l’Aeronautica successivamente commissionerà al regista romano un’altra pellicola, Un pilota ritorna. Insomma, se De Robertis era sicuramente l’inventore del genere (una storia, diremmo oggi, di finzione interpretata però, come in questo caso, da marinai veri), da cui germinerà il neorealismo, il modo di fare cinema di Rossellini era completamente diverso, come dimostrano Un pilota ritorna e L’uomo dalla croce, «film chiaramente, decisamente rosselliniani». La nave bianca era, invece, un film con elementi spuri, con una certa disomogeneità che confermerebbe la compresenza di due autori diversi <7. Mino Argentieri, d’altra parte, ricorda le lamentele di De Robertis che avrebbe sempre rivendicato la paternità della pellicola, lasciando a Rossellini la cura delle riprese e il montaggio: «Defunti i contendenti, la controversia rimane in sospeso. Qualcosa di probante vi è nelle recriminazioni di De Robertis, che se peccava di unilateralità, nondimeno, aveva inciso non leggermente sulla gestazione del film» <8. Comunque – conclude Adriano Aprà – l’incontro fra i due fu produttivo: «Anche De Robertis recepirà qualcosa di Rossellini nell’ottimo Alfa tau (1942)» <9.
Pur con qualche discontinuità, imputabile appunto alle “quattro mani” che vi lavorarono, La nave bianca rimane uno dei migliori film sulla guerra prodotto in quel periodo: «Cinema» definiva l’opera un «documentario a soggetto» e le dava il massimo della valutazione, quattro stellette, giudicandola «il più bel film della guerra marinara prodotto in Italia fino ad oggi e quello soprattutto dove gli intenti sanamente ed altamente propagandistici si mescolano, meglio si sublimano nelle forme della bellezza e dell’arte» <10.
Il film è nettamente diviso in due parti. La prima, a carattere corale, si svolge su una corazzata della marina italiana e racconta lo scontro, avvenuto al largo di Capo Passero, con unità nemiche. Un racconto avvincente, dove le immagini del combattimento di Capo Teulada e Punta Stilo (lo ricordano i titoli di testa), filmate da operatori del Luce o delle unità cinematografiche della Marina, si sposano a quelle girate all’interno della nave. Il combattimento è visto così sia con l’occhio esterno dello spettatore che assiste allo “spettacolo”, sia con l’occhio dei protagonisti: con pedanteria didascalica la pellicola mostra come lo scontro viene preparato e vissuto all’interno della nave, addirittura come viene sentito (e il verbo non è casuale) dai marinai che sono nella sala macchine, con lo sguardo rivolto al soffitto e l’orecchio teso a captare, dalle variazioni dell’incessante e minaccioso brontolio che proviene dall’esterno, cosa stia succedendo. La nave è un essere vivente che è tutt’uno con i marinai. Un montaggio parallelo ci fa vedere alternativamente le “ferite” inferte alla corazzata e quelle agli uomini, le operazioni di riparazione e i soccorsi prestati ai feriti: anche le immagini della difficile operazione chirurgica del protagonista Augusto si alternano a quelle della battaglia e seguono il ritmo di questa (operazione e combattimento finiscono nello stesso momento, la vittoria coincide con la ripresa di coscienza di Augusto che apre gli occhi) <11. Una relazione, quella tra uomini e nave, non solo suggerita, ma, didascalicamente, resa esplicita.
[…] D’altra parte, l’intento di Rossellini – almeno questa è la testimonianza che il regista romano ha reso a Francesco Savio – era quello di «fare un film didattico su come si svolgeva un combattimento navale: (…) Non c’era nessun eroismo perché gli uomini erano chiusi dentro a tante scatole di sardine e non sapevano assolutamente quello che succedeva intorno» <12.
Gli aspetti romantici» – concludeva, concordando con quanto aveva affermato De Robertis – erano stati aggiunti successivamente «per attenuare le cose» <13. E difatti la prima parte del film, era sicuramente molto più efficace della seconda, ambientata nella nave ospedale «Arno», dove prevaleva la tenera storia d’amore tra il marinaio Augusto e la sua madrina Elena. I due in precedenza, pur avendo avuto un’intensa corrispondenza epistolare, non si erano mai conosciuti.

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[…] L’anno successivo, Rossellini abbandonava la Marina per celebrare l’Aviazione.
Su soggetto di Tito Silvio Mursino (l’anagramma dietro cui si celava Vittorio Mussolini) e con la sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Rosario Leone, Massimo Mida Puccini, Margherita Maglione e sua, girò Un pilota ritorna. Il film, «dedicato – chiariva la didascalia iniziale – con fraterno cuore ai piloti che dai cieli di Grecia non hanno fatto ritorno», era realizzato «sotto gli auspici del Comando Generale della Gioventù Italiana del Littorio». Ambientato nei primi mesi del 1941 («La Jugoslavia verso la guerra», leggiamo sui titoli dei quotidiani) è la storia di un pilota, il tenente Gino Rossati [Massimo Girotti], che, in una missione sui cieli della Grecia, è costretto a lanciarsi con il paracadute dall’aereo colpito ed è preso prigioniero dagli inglesi. Portato in un campo di concentramento, conosce una ragazza, Anna [Michela Belmonte], figlia di un medico italiano che si prodiga per alleviare le sofferenze dei civili e dei militari internati, di cui si innamora, prontamente ricambiato. Durante un bombardamento effettuato da aerei tedeschi, approfittando della confusione e incitato proprio da Anna <14, riesce a fuggire e a impadronirsi di un apparecchio nemico con cui torna alla base. Lì apprende che i greci hanno deposto le armi.
Com’è facilmente intuibile, vista la presenza tra gli autori di molti collaboratori e dello stesso direttore di «Cinema», la rivista ne iniziò a tessere le lodi quando il film era ancora in fase di montaggio. Il 10 febbraio 1942, una nota, firmata semplicemente L. (probabilmente Rosario Leone) esaltava il coraggio e l’abnegazione di Rossellini che, per effettuare le riprese aeree, aveva «diviso con gli ufficiali piloti a disposizione del film quei normali rischi aviatorii che nessuno si è mai sognato di assegnare a un regista» <15. Un mese dopo, ancora L., in un articolo corredato da molte fotografie di scena, tornava sul film, mettendolo in stretta relazione con Luciano Serra pilota, la pellicola che aveva esaltato l’opera dell’aviazione italiana nella guerra d’Africa così come questa avrebbe glorificato le imprese aviatorie nel conflitto attuale.
[…] Stupisce, pertanto, che il mese successivo «Cinema», nella consueta rubrica Film di questi giorni – curata dal 1° gennaio 1942 fino al 25 luglio 1943 da Giuseppe De Santis, a parte una lunga interruzione tra il 25 maggio e il 25 novembre 1942 dovuta alla partecipazione dello stesso De Santis alla realizzazione di Ossessione in qualità di aiuto regista <17 – assegnasse alla pellicola solo due stellette. La motivazione era subito annunziata: «Voleva essere un film di propaganda UN PILOTA RITORNA? Se a ciò si mirava, bisogna riconoscere che è in parte fallito nei suoi intenti» <18.
Seguiva un’impietosa – e non sempre chiara – esposizione dei motivi per cui il film di Rossellini non aveva risposto a quegli scopi propagandistici per cui era stato ideato.
[…] il De Santis recensore veniva sopraffatto dal De Santis propagandista, attento non tanto alle qualità del film quanto alla sua efficacia dal punto di vista della propaganda. E da quest’ottica certamente la pellicola di Rossellini lasciava molto a desiderare. Un elemento, su tutti, dava ragione a De Santis. Rossellini nella prima parte aveva rispettato le regole “canoniche” della propaganda: il bombardamento viene visto dall’alto, la prospettiva è quella di chi lo effettua. Nella seconda parte della pellicola la prospettiva viene rovesciata: il bombardamento è visto dal basso, dalla parte di chi lo subisce. La diversa ottica finiva con l’inficiare ogni discorso propagandistico – e non a caso se ne era accorto De Santis, critico cinematografico sì, ma, come confermerà nel dopoguerra, prima di tutto regista.
Certo, Un pilota ritorna presentava ampi stralci di pedissequa applicazione delle parole d’ordine della propaganda fascista: ad esempio, una breve sequenza efficacemente delineava la diversità del modo di combattere e di intendere la guerra tra inglesi ed italiani.
Gli ufficiali inglesi di stanza in Grecia che hanno preso prigioniero il protagonista, il tenente Rossati, mantengono inalterata la loro flemma anche durante i bombardamenti continuando a fumare imperturbabili l’immancabile pipa.
[…] Ma, in definitiva, l’impressione che rimane di tutto il film, è quell’alone di tristezza che lo permea fin dall’inizio, nella risposta dell’attendente che, mentre rimette a posto gli oggetti di un pilota caduto, ricorda a Rossati, appena arrivato nella camera assegnatagli, che il cagnolino con cui sta giocando «ha rimasto solo»; in quegli sguardi attoniti dei compagni quando viene colpito mortalmente il «capocalotta», il cui unico desiderio, a guerra finita, è costruirsi «una bella villetta» nella vallata tante volte sorvolata; nelle sofferenze dei civili internati (un punto sul quale ci soffermeremo in seguito); nella marcia, una sorta di esodo biblico, dei prigionieri verso i porti dai quali saranno imbarcati, attraverso paesaggi desolati, con rovine ancora fumanti per le incursioni aeree e il terreno disseminato di armi e rottami <21. Ma soprattutto in quei lunghi silenzi e in quell’incrociarsi di sguardi che talvolta sembrano interrogarsi sul perché della guerra o in quei dialoghi tra Rossati e Anna, dai quali affiora la sensazione di un mondo perduto, l’infanzia, un’oasi felice nel deserto del dolore e delle sofferenze […]

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Discorso non molto dissimile può farsi per L’uomo dalla croce, incentrato sulla figura di un cappellano militare al seguito dei soldati italiani sul fronte russo. Nel finale, il cappellano, impersonato da Alberto Tavazzi, un architetto scelto da Rossellini probabilmente anche per la sua rassomiglianza con papa Pacelli <23 (in Roma città aperta Tavazzi sarà il prete che assiste don Pietro al momento della fucilazione), nel tentativo di assistere un soldato nemico ferito mortalmente, è colpito e spira accanto al nemico.
La macchina da presa lo inquadra morente, fino a soffermarsi, in primo piano, sulla croce di stoffa della sua divisa (da qui il titolo del film). Nella realizzazione Rossellini fu affiancato da Asvero Gravelli, squadrista della prima ora («è rimasto il ragazzo caro alla mia vigilia rivoluzionario», lo definiva Mussolini nei colloqui con Yvon De Begnac <24), autore di numerosi libri e pamphlet, nonché direttore della rivista «AntiEuropa». A lui fu affidata la supervisione alla regia. Gravelli era anche autore del soggetto e, insieme a Rossellini, Alberto Consiglio, Giovanni D’Alicandro, della sceneggiatura.
La pellicola era dedicata, come recita la didascalia finale, «alla memoria dei cappellani militari caduti nella crociata contro i “senza-Dio” in difesa della Patria per recare la luce della verità e della giustizia anche nella terra del barbaro nemico» (“sponsor” dell’impresa era l’Ordinariato Militare d’Italia <25).
[…] Ma il tormentato iter della pellicola non era finito. Presentato in anteprima nel gennaio 1943 alla presenza dei rappresentanti dell’Arma e del clero castrense, L’uomo dalla croce iniziò a circolare nelle sale solo a partire dal 16 giugno (il che fa pensare a un ulteriore doppiaggio e montaggio che spiegherebbe alcune incongruenze: d’altra parte, le informazioni sul «Santo dell’81°» arrivarono in Italia solo a partire dal 19 marzo) <27, rimanendo, comunque, nelle sale per pochi giorni.
Evidentemente, a giugno era ormai troppo tardi perché un film come L’uomo dalla croce, per quanto anomalo, potesse avere una buona accoglienza.
La guerra non poteva più essere propagandata, in particolare quella combattuta su un fronte dal quale erano ormai filtrate notizie terribili sulla tragedia che si era consumata <28.

[…] Con i vari cambiamenti la pellicola aveva finito per assumere valenze certamente meno consone a un intellettuale fascista come Gravelli, ma molto più adatte alla personalità di Rossellini <30. Certo, anche L’uomo dalla croce, come gli altri due film della trilogia, rispondeva in alcune sequenze ai codici della propaganda. Accadeva, ad esempio, nella rappresentazione del nemico. Come gli inglesi di Un pilota ritorna, anche i sovietici di L’uomo dalla croce non si discostano da quella che era l’immagine prevista dal regime e diffusa nella cinematografia di quegli anni (L’assedio dell’Alcazar, Noi vivi, Inviati speciali, Odessa in fiamme): brutti, rozzi, arroganti, violenti (arrivano a spararsi tra loro per questioni sentimentali). Il commissario politico che interroga i nostri soldati ha un aspetto fisico repulsivo, veste in modo trascurato, ha il viso deturpato. Non diversi da lui sono i suoi compagni, mentre un barlume di umanità è presente nei soldati: sui loro volti è possibile cogliere i segni di una stanchezza crescente. Non manca, anche se è sottolineato da un’unica sequenza, l’accostamento tra fascismo e religione cattolica. Abbiamo accennato al soldato dell’81°, che si rifiuta di abiurare alla sua fede fascista. Analogamente, il cappellano difende la croce tessuta sulla divisa.
[…] Anche in L’uomo dalla croce, comunque, analogamente a quanto avveniva in Un pilota ritorna, la «mano» di Rossellini s’intravede nell’attenzione «al lato oscuro della guerra», nel soffermarsi sul dolore e sulle sofferenze apportate dal conflitto senza indugiare più di tanto sulla retorica patriottica o fascista <31. Anzi, il fascismo, a parte la breve sequenza citata sopra, è praticamente assente. Era la religione cattolica a costituire il vero contraltare al bolscevismo. Il protagonista è uno solo, il cappellano. È lui che porta in salvo, sotto il fuoco nemico, incurante del pericolo, i feriti e continua a incoraggiarli e ad assisterli. È lui la guida, non solo spirituale, dei nostri soldati

Fonte: Pietro Cavallo, art.cit. infra

[…] Un altro aspetto lega Un pilota ritorna e L’uomo dalla croce. Nel secondo, l’isba nella quale si sono rifugiati i nostri militari con i civili russi e i soldati sovietici prigionieri è fatta oggetto di un incessante fuoco d’artiglieria anche da parte degli italiani. Analoga situazione si verifica nel finale del primo, dove lo stesso protagonista, il tenente Rossati, subisce un intenso fuoco di sbarramento da parte della contraerea italiana (è stato scambiato per un nemico perché è fuggito dalla Grecia con uno Spitfire inglese). Tra l’altro, il nostro eroe è riuscito a fuggire proprio perché c’è stato un bombardamento sul campo dei prigionieri effettuato da Stukas tedeschi: nel corso dell’incursione non una parola di condanna o un’invettiva si leva da parte degli internati contro i tedeschi. Ed è naturale che sia così dal momento che questi ultimi sono nostri alleati e ogni loro incursione accelera la fine della guerra in Grecia e la conseguente liberazione degli stessi prigionieri. Una situazione analoga si verifica in altre due pellicole sulla guerra (Bengasi, regia di Augusto Genina, 1942, e Odessa in fiamme, regia di Carmine Gallone, 1943), confermando come, nel momento in cui mostravano le sofferenze dei civili, i nostri registi non potessero fare a meno di “ispirarsi” a quelle provate dagli italiani e riproducessero, magari inconsapevolmente, quella ambiguità di sentimenti nei confronti del nemico, le cui incursioni aeree portavano sì distruzione e morte, ma rappresentavano anche la possibilità di mettere fine al conflitto <32. C’è addirittura chi ha visto nella sequenza finale di Un pilota ritorna, il tentativo di porsi dalla parte dell’«altro», di cercare di capire le “ragioni” del nemico. Rossati, con la prigionia, ha avuto modo di conoscere i nemici, di vedere come anche per loro – gli abitanti del paesino greco sottoposti ai bombardamenti e alle privazioni dovuti al conflitto – la guerra comporti sofferenze e dolori
[…] Un’analisi attenta del linguaggio delle immagini conferma, pertanto, come la «trilogia della guerra» si muovesse lungo una “linea d’ombra”, la stessa del suo autore, stretto tra la propaganda del regime – nonché l’amicizia personale con Vittorio Mussolini – e la sua narrazione della guerra («un’epidemia che coinvolge tutti»), che istituiva – come già aveva notato Carlo Lizzani – un forte segnale di continuità con la produzione successiva <34.
Un’immagine del conflitto, peraltro, molto vicina alla cultura cattolica, come avrebbero mostrato Roma città aperta e Paisà e, in certo senso, avvalorata dallo stesso Rossellini <35.
In questa sede non c’è la possibilità di approfondire l’argomento.
[…] E allora, per tornare alla battuta di Amidei citata in apertura: Rossellini fu un «realista che sapeva stare nella realtà politica»? Forse! Sicuramente fu un autore che tentò di comprendere, attraverso una sua personale ricerca, complessa e a volte contraddittoria (da qui le imprecisioni, le incertezze, le ambiguità e i balbettii della prima trilogia), la guerra, traducendola fin dalla Nave bianca, il film condiviso con De Robertis, in immagini dove il gesto eroico non gode di nessun rilievo particolare, non è enfatizzato, ma visto «con la stessa pacatezza dei piccoli fatti della vita» <38. Una visione del conflitto – c’è bisogno di sottolinearlo? – lontana anni luce da quella fascista!
[NOTE]
Mirella Serri, I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005, pp. 224-233. La battuta di Amidei è a p. 233.
5 Francesco De Robertis, Una lettera di De Robertis. “Libertas, Unitas, Caritas”, in «Cinema », n. 7, gennaio 1949, p. 212. Nella lettera De Robertis riprendeva affermazioni già pubblicate su «Cinema» sei anni prima: la storia dell’amore tra il marinaio e l’infermiera – «tanto “posticcia” quanto “banale”» – era stata aggiunta in un secondo momento e «tolse al film la purezza etica e stilistica rispettata severamente in UOMINI SUL FONDO», anche se finì con il riscuotere un maggiore successo rispetto a Uomini sul fondo, dimostrando che il «pubblico – in qualunque genere di film – preferisce vedere i personaggi sotto aspetti umani e nel gioco di passioni e di problemi intimamente umani» (Francesco De Robertis, Appunti per un film d’aviazione, in «Cinema», n. 158, 25 gennaio 1943, p. 47. Il corsivo è nel testo).
6 De Robertis, Una lettera, op. cit., p. 212.
7 Lucia Pavan (cur.), Intervista a Gianni Rondolino, in La nave bianca, DVD, CristaldiFilm, 2008.
8 Mino Argentieri, Il cinema in guerra. Arte, comunicazione e propaganda in Italia 1940-1944, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 120.
9 Adriano Aprà, In viaggio con Rossellini, Alessandria, Falsopiano, 2006, p. 35.
10 Giuseppe Isani, Film di questi giorni. La nave bianca, in «Cinema», n. 127, 10 ottobre 1941, p. 236.
11 Enrique Seknadje-Askenazi, Il realismo di Rossellini. La prima trilogia. La guerra fascista, in «Il nuovo spettatore», n. 1, 1998, pp. 24-28
12 Cfr. Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta. Parlano 116 protagonisti del secondo cinema italiano (1930-1943), Tullio Kezich (cur.), Roma, Bulzoni, 1979, p. 963. Francesco Savio era lo pseudonimo di Francesco [Chicco] Pavolini: tra il 1973 e il 1974 intervistò 116 protagonisti del cinema italiano degli anni del fascismo.
13 Ivi, pp. 962-963.
14 «Anna – Perché non fuggite?… Gino – Fuggire?!?… E voi, Anna?… Tu sei tutto per me… Anna – Fuggi… fuggi… Questo è il tuo dovere… Non vorrei mai che per me… Il mio dovere è di restare qui vicino a mio padre… vicino a questa povera gente… Ma tornerai… ci ritroveremo… Ti aspetterò… per sempre…».
15 L., A Roberto Rossellini, in «Cinema», n. 135, 10 febbraio 1942, p. 80.
17 Francesco Savio, op. cit., p. 471.
18 Giuseppe De Santis, Film di questi giorni. Un pilota ritorna, in «Cinema», n. 140, 25 aprile 1942, p. 226.
21 È stato notato che nell’esodo dei profughi Rossellini «mette in mostra la sua capacità, più unica che rara, di passare improvvisamente dal realismo pieno a una forma di misticismo visionario. Egli sa farci vedere nella realtà, ciò che noi non avremmo mai visto» (Stefano Masi-Enrico Lancia, I film di Roberto Rossellini, Roma, Gremese, 1987, p. 15).
23 Impietoso il giudizio di De Santis sugli attori e su Tavazzi: «Alberto Tavazzi ha recitato come un automa, ma per essere un attore improvvisato […] si comporta né meglio né peggio di tanti suoi colleghi attori di professione» (G. De Santis, Film di questi giorni. L’uomo dalla croce, in «Cinema», n. 168, 25 giugno 1943, p. 374).
24 Yvon De Begnac, Taccuini mussoliniani, Francesco Perfetti (cur.), Bologna, Il Mulino, 1990, p. 555. Cfr. Mimmo Franzinelli, Squadristi, Milano, Mondadori, 2003, pp. 228-229.
25 Carla Fiorenza, Realismo propaganda e censura in tre film di Roberto Rossellini, in «Cinema Sessanta», nn. 5-6, settembre-dicembre 1996, p. 40.
27 Ibidem.
28 «I racconti dei primi feriti giunti dal fronte russo – scrivevano i carabinieri da Milano nella relazione mensile del mese di febbraio – hanno dato in molti ambienti la sensazione che l’avvenuto arretramento delle linee abbia assunto l’aspetto di una vera catastrofe militare, nella quale tutta l’Armata Italiana, impegnata a fondo, ha subito gravissime perdite, venendo a perdere persino la sua configurazione di grande unità combattente» (Carabinieri Reali – Milano, Situazione del mese di febbraio 1943, Archivio Centrale dello Stato di Roma, Segreteria Particolare del Duce, carteggio riservato, Bollettini e informazioni, busta 174).
Cfr. Pietro Cavallo, Italiani in guerra. Sentimenti e immagini 1940-1943, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 183ss.
30 Mino Argentieri, op. cit., pp. 128-129.
31 Carla Fiorenza, op. cit., p. 42.
32 Cfr. Pietro Cavallo, La storia attraverso i media. Immagini, propaganda e cultura in Italia dal Fascismo alla Repubblica, Napoli, Liguori, 2002, pp. 96-99.
34 Bernardo Valli, Rossellini e Lizzani, in Gualtiero De Santi-Bernardo Valli (curr.), Carlo Lizzani. Cinema, storia e storia del cinema, Napoli, Liguori, 2007, p. 18.
35 In un colloquio con Mario Verdone pubblicato su «Bianco e nero» del febbraio 1952, il regista romano affermava: «La capacità di vedere l’uno e l’altro aspetto dell’uomo, la benevolenza nel considerarlo, mi sembra un atteggiamento squisitamente latino e italiano. È il frutto di una data civiltà, è l’abitudine nostra, antichissima, di considerare l’uomo sotto ogni suo aspetto. Per me è straordinariamente importante essere nato in siffatta civiltà. Ritengo che ci siamo salvati dai disastri della guerra, e da sciagure non meno terribili, proprio per questa nostra concezione della vita, che è prettamente cattolica». Cfr. Roberto Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, Adriano Aprà (cur.), Venezia, Marsilio, 1987, pp. 93-94.
38 Questo era quanto rispondeva Rossellini, a proposito del suo cinema prima e dopo il fascismo, a Eric Rohmer e François Truffaut nell’intervista apparsa sul numero 37 dei «Cahiers du cinéma» del luglio 1954. Ora in Les Cahiers du cinéma, La politica degli autori. Prima parte: le interviste, Roma, minimum fax, 2006, p. 89.
Pietro Cavallo, La seconda guerra mondiale nei film di Roberto Rossellini in Interpretazioni storiche del cinema di guerra, Quaderno Sism 2015, Società Italiana di Storia Militare, Acies Edizioni Milano

Al capezzale dei marinai feriti in uno scontro navale, raccolti da una nave-ospedale, c’è una crocerossina, madrina di guerra per corrispondenza di uno di loro. Distribuito dalla Scalera, prodotto dal Centro Cinematografico del Ministero Marina e girato con attori non professionisti sulla nave ospedaliera Arno e su una vera nave da battaglia. Scontati i suoi intenti propagandistici e dato quel che spetta a F. De Robertis regista di Uomini sul fondo (1941) che ne curò la supervisione, il soggetto e, col regista, la sceneggiatura, questo primo film del 34enne R. Rossellini è interessante non soltanto per il taglio documentaristico, ma per l’antispettacolare attenzione ai fatti minimi e ai gesti quotidiani, come anticipazione (forse più intuita che perseguita) del neorealismo postbellico, di un’idea di cinema come strumento di rivelazione della realtà nel suo farsi.
Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli

Nel 1941 il tenente di vascello Francesco De Robertis, che l’anno prima aveva realizzato il documentario Mine in vista e il lungometraggio Uomini sul fondo per conto del Centro Cinematografico del Ministero della Marina (del quale era ufficiale addetto), commissionò a Rossellini la regia di un film, metà documentaristico metà romanzesco, di cui aveva scritto il soggetto e la sceneggiatura e di cui curò la supervisione: La nave bianca. L’opera, nata probabilmente come semplice documentario su una nave ospedale, assunse a poco a poco le dimensioni di un normale film a soggetto e costituì per Rossellini la prima vera prova registica.
Nel descrivere l’avventura di un marinaio ferito in combattimento e curato su una nave ospedale, dove incontra una infermiera di cui si innamora, Rossellini mescola più o meno abilmente gli ingredienti del cinema bellico e le ricette del cinema rosa, così come si praticavano allora in Italia. Visto in questa luce, La nave bianca non esce dai limiti angusti d’un mediocre prodotto confezionato secondo le regole dello spettacolo, con l’alternanza dei momenti di tensione drammatica e di stasi idillica, di azione eroica e di romanzo sentimentale. Tuttavia, a una più attenta visione (e in una prospettiva critica che, falsando in parte gli assunti del film e i suoi risultati artistici, si rifà alle opere rosselliniane del periodo postbellico), esso rivela nell’autore una attenzione per le piccole cose, i fatti insignificanti, le azioni quotidiane, colte quasi all’improvviso, immediatamente, e una disponibilità per la rappresentazione al tempo stesso distaccata e partecipe della realtà, ossia una rappresentazione la meno spettacolare possibile, che ritroveremo in ben altra misura nelle opere della maturità. Si noti: questa attenzione e disponibilità diventano, al di là di un atteggiamento morale, un’indicazione stilistica che sarà ampiamente sviluppata e portata fino alle estreme conseguenze nei film successivi.
Non è che Rossellini rifiuti lo spettacolo, o meglio il romanzesco – anzi pare che sia stato lui a introdurre, contro il parere di De Robertis, la storia d’amore fra il marinaio e la crocerossina -, ma cerca di svuotarlo delle sue componenti usuali per privilegiare l’attesa, l’assenza di dramma, la sospensione del racconto, in cui i fatti minimi acquistano un’importanza pari se non superiore a quelli decisivi. In questo senso l’aspetto documentario diventa l’aspetto più autentico; ma è bene dire che, al di là delle reminiscenze del Potèmkin di Eisenstein e dei canoni del documentarismo scolastico, la dimessa rappresentazione della vita dei marinai e dei feriti sulla nave risulta “vera” – almeno nei limiti di questa verità – nella misura in cui si presenta non come frutto di un’informazione, di un’osservazione distaccata, ma di una autentica partecipazione morale. Gli attori, che non sono attori professionisti, perdono in parecchie scene non soltanto il carattere di attori, ma anche quello di marinai, per rivelarsi uomini tout court, nella loro sofferta umanità di tutti i giorni.
In tale antispettacolarità, più intuita che cercata forse, sta l’originalità del Rossellini della Nave bianca. Ponendosi con questo film al di là del documentarismo spettacolare di De Robertis – come ci appare in Uomini sul fondo e in Alfa Tau (1942) – il regista riscopre il valore del cinema come strumento di rivelazione della realtà nel suo farsi. Questo neorealismo ante litteram (come sarà d’altronde il neorealismo rosselliniano del dopoguerra per dichiarazione esplicita dell’autore) è prima d’ogni altra cosa una posizione morale, sicché i fatti e i personaggi del film vanno visti non tanto come portatori d’un messaggio etico quanto essi stessi interpreti d’una moralità latente, che non sarà difficile identificare con certo cattolicesimo dell’epoca.
Ma la posizione morale di Rossellini, che per questo suo non voler piegare i fatti e le cose a una tesi determinata può anche essere scambiata per indifferenza o agnosticismo, non solo non gli impedisce di fare del suo film un prodotto della propaganda fascista, ma addirittura pare ne sottolinei la portata didascalica. Proprio l’aver concentrato l’attenzione sui fatti quotidiani e sull’antieroismo dei personaggi, e quindi sui rapporti interpersonali fuori d’ogni dichiarato intento di parte, significa alla fine smarrire il discorso di fondo, rinunciare a un’analisi interna, accettare la realtà sociale e politica come immutabile. Di qui l’affidarsi sì all’interpretazione cosciente dello spettatore, ma anche all’utilizzazione politica dell’opera. È già il rischio dell’ambiguità che Rossellini correrà in seguito in modo più esplicito, e che negli, altri due film della trilogia della guerra cercherà di ridurre entro i confini di una posizione ideologica meglio definita, aiutato in ciò da una schiera di sceneggiatori politicamente più impegnati.
Gianni Dondolino, Roberto Rossellini, L’Unità/Il Castoro Cinema, 4/1995

L’equipaggio di una nave da guerra, colpita da una cannonata durante un’azione, viene tratto in salvo da una nave ospedale: la nave bianca. Su questa, con instancabile dedizione, vengono curati e accuditi dalle crocerossine volontarie, che fanno loro ritrovare un po’ della serenità perduta. Fu il primo film [La nave bianca], montato anche con immagini di repertorio, di Rossellini nel quale si intravedono già alcuni elementi di quello che sarà il Neorealismo, anche se la vicinanza è più che altro con l’impostazione dei film navali di Francesco De Robertis, e la sua “antiretorica” non era in fondo così sgradita al regime.
Film.tv.it

Avendo oggi tra le mani l’ottimo DVD della RHV, fa una certa impressione leggere sulla prima edizione del “Castoro” dedicato a Rossellini da Gianni Rondolino nel ’74, che di Un pilota ritorna “purtroppo pare non esistano più copie”… Sappiamo bene, del resto, come la storia del cinema e i percorsi degli autori siano stati spesso scritti a partire dalla “introvabilità” del testo filmico di cui parlava Raimond Bellour, sicché ci si sente particolarmente fortunati a poter verificare per così dire “su pellicola” la sostanziale inesattezza dei giudizi espressi da alcuni storici (tra i quali lo stesso Rondolino, nella citata occasione) sul carattere di mera propaganda di questo e degli altri film della prima stagione rosselliniana. Nel raccontare l’avventura di prigionia e fuga di un ufficiale dell’aviazione italiana interpretato da Massimo Girotti, abbattuto nei cieli della Grecia, finito prigioniero e finalmente protagonista di una eroica fuga aerea, Un pilota ritorna in effetti si affida a una retorica destituita, innegabilmente più accorta alla realtà dell’uomo in guerra che all’enfasi militarista propria di certa coeva produzione bellica (britannica o americana, per esempio). Lezione appresa da Rossellini sul set de La nave bianca, condiviso (e poi conteso nella annosa querelle sulla effettiva paternità del film…) con il “supervisore” Francesco De Robertis, comandante della Regia Marina, che in film come lo straordinario Uomini sul fondo aveva offerto uno scenario di documentaria realtà ai suoi marinai. Un pilota ritorna ha la qualità propria di uno sguardo partecipe, incapace di enfasi, portato piuttosto alla compassione e a una certa vaga malinconia: si veda la sequenza della serata trascorsa dagli aviatori con le donnine (il fastidio con cui i piloti accolgono la lettura del retorico articolo in loro onore), il tono dimesso di tutti i personaggi, colti più nella tensione dello “spirito di corpo” che nello slancio eroico e patriottico. Altra cosa è il Luciano Serra pilota realizzato quattro anni prima da Goffredo Alessandrini con spirito più nettamente propagandistico. Qui, nonostante il soggetto fosse dettato da Vittorio Mussolini (che si firma Tito Silvio Mursino), la sceneggiatura approntata dallo stesso Rossellini assieme, tra gli altri, a Michelangelo Antonioni e Massimo Mida, sembra districarsi con una certa abilità tra le maglie dello scenario bellico.
Massimo Causo, DVD – “Un pilota ritorna”, di Roberto Rossellini, wwww.sentieriselvaggi.it, 8 gennaio 2007

Alberto Tavazzi in L’uomo dalla croce

[L’uomo dalla croce] Come nel caso delle due opere appena precedenti di Roberto Rossellini, La nave bianca (1941) e Un pilota ritorna (1942), si tratta (soltanto) di cinema di propaganda bellica e non di propaganda fascista, essendo praticamente nulli (o quantomeno neutri) i riferimenti al regime di Mussolini. Rossellini si disinteressa della guerra e, pur dando una rappresentazione solo positiva e conciliante degli italiani al fronte, riesce a far emergere un grande calore umano dai suoi protagonisti (attori non professionisti), con un apprezzabile assenza di enfasi in cui non pochi hanno visto un’anticipazione del Neorealismo. La figura del prete-salvatore (ispirata a Don Reginaldo Giuliani) tornerà anche nel capolavoro Roma città aperta, girato nel 1945.
Redazione, L’uomo dalla croce. 1943, longtake

[L’uomo dalla croce]
Un reparto di carri armati operante al fronte russo, dopo uno scontro col nemico riceve l’ordine di spostarsi. Un carrista ferito gravemente non può essere trasportato e il cappellano resterà presso di lui per assisterlo. L’indomani giungono i russi; i due vengono fatti prigionieri e condotti ad un comando. Mentre il cappellano risponde serenamente alle minacce di un commissario del popolo, un’azione degli aerei italiani porta lo scompiglio tra le file russe e nel trambusto il cappellano riesce a trasportare il suo ferito in un casolare. Quivi egli ha modo di esplicare il suo apostolato tra donne e bambini che vi sono rifugiati. Un gruppo di russi guidato da un commissario e una miliziana prende possesso della casa e contrasta l’attacco italiano. La battaglia è cruenta, ma alla fine il cappellano riesce a trarre in salvo i feriti e le donne. Esausto e ferito mortalmente, egli ha la consolazione di redimere con la sua parola ed il suo esempio, la miliziana e il commissario del popolo.
[…] La vicenda documentario-propagandistica è condotta con mano esperta e taluni episodi raggiungono un effetto altamente emotivo. Un adeguato commento musicale ne accompagna i punti salienti.
(Segnalazioni cinematografiche, vol. XVII, 1943).
“Questo film è stato dedicato alla memoria dei cappellani militari caduti in guerra. (…) Una vicenda quasi simbolica, una sintesi lirica, liricamente accettabile e liricamente verosimile, spesso commovente anche se il film del cappellano combattente, inteso come documento della sua missione, deve essere ancora fatto.”
(Raul Radice, “Corriere della Sera”, 17 giugno 1943)
Redazione, L’uomo dalla croce. 1943, www.cinematografo.it