I partigiani furono così giudicati in base al codice penale fascista del 1930 (codice Rocco) e da magistrati propensi a punirli per forma mentis

L’amnistia produsse effetti sia sul breve sia sul lungo periodo. A partire dal luglio 1946, i processi tenutisi dalle Sezioni speciali furono contrassegnati dall’applicazione dell’indulto, dall’estinzione dei reati in istruttoria e nel corso dei procedimenti, oltre che a sensibili riduzioni e sconti di pena. La possibilità del ricorso presso la Corte di Cassazione fornì agli imputati l’opportunità di sfuggire all’eventuale condanna. La Corte suprema, passata indenne attraverso le maglie dell’epurazione, iniziò una vera e propria opera di demolizione delle sentenze prodotte in primo grado. Nel corso del fascismo, il ruolo di quest’organismo giudiziario era stato notevolmente rafforzato <372. Nell’immediato secondo dopoguerra, la Cassazione raggiunse la sua massima influenza.
Secondo Guarnieri, all’indomani della liberazione, i magistrati di Cassazione non sembravano avere pregiudizi di sorta nei confronti del nuovo regime democratico. Piuttosto, si mostrò in maniera evidente la capacità di adattamento alle mutevoli condizioni della situazione politica italiana.
Caduto il governo Parri, spentosi il vento del nord e la prospettiva di un mutamento reale delle condizioni sociali e politiche, la Corte suprema assecondò di fatto l’instaurarsi di un regime di governo moderato-conservatore, ostile a qualsiasi svolta politica radicale <373.
Soprattutto, essa riuscì ad approfittare della crisi dell’antifascismo che ormai si profilava all’orizzonte e della rottura del patto d’unità d’azione che, nel corso della lotta di Liberazione e fino al 1946, aveva tenuto assieme forze politiche eterogenee. La vittoria elettorale conseguita dalla DC nel giugno 1946 aveva stabilito quali erano i rapporti di forza reali nella società e tra i partiti politici e quale sarebbe stata la formazione politica di riferimento a cui delegare la guida del Paese. Il biennio successivo 1947-1948, inoltre, avrebbe visto un «cambiamento radicale della classe politica uscita dalla Resistenza e dalla lotta antifascista» con la fuoriuscita dei socialcomunisti dalla compagine governativa <374. Recuperata dopo le vicende belliche una posizione istituzionale di rilievo, il massimo organo giudiziario approfittò delle mutate condizioni politiche e dell’amnistia per esautorare, tra il 1946 e il 1947, i giudizi di prima istanza annullandoli per difetti di motivazione, rinviandoli ad altre Corti o applicando direttamente il decreto d’indulto <375.
All’amnistia Togliatti seguirono altri provvedimenti di clemenza come il Decreto del Presidente della repubblica (DPR) 9 febbraio 1948, n. 32, ed il DPR 23 dicembre 1949, n. 930, che contribuirono ulteriormente ad attenuare o estinguere le condanne inflitte. Altri condoni furono concessi nel 1953 e nel 1959 ma, come ricordano Borghi e Reberschegg, «in carcere ormai non c’era più nessuno» <376.
Ciò che accadde in Italia non ebbe riscontri in nessun altro Paese europeo interessato dal fenomeno collaborazionista. In Francia, Belgio, Olanda, Norvegia, Danimarca, perfino in Austria, il dopoguerra fu caratterizzato dalla volontà di punire coloro che avevano collaborato con i tedeschi e tradito in qualsiasi modo la propria patria. In linea generale, come ha rilevato Martin Conway per il caso belga e non solo, «the prosecutions became one of the central means by which Europeans societies debated not only their past failings but also their future character» <377. Anche nel resto del continente si permise agli ex traditori/collaborazionisti di rientrare nel seno della comunità nazionale ma non così presto come in Italia. Secondo Franzinelli, al periodo 1945-1950, caratterizzato dall’espulsione e dalla sanzione penale nei confronti dei colpevoli, seguì una fase successiva (1950-1955) contraddistinta dalla graduale reintegrazione. Strideva con il contesto europeo la concessione in Italia di un’amnistia generalizzata «a meno di 14 mesi dalla liberazione» e la successiva «riabilitazione» degli ex fascisti <378. Era evidente che, nel quadro politico italiano, le nuove classi dirigenti non pensarono assolutamente al futuro del Paese ma si preoccuparono di mantenere la «continuità» in uomini e apparati rispetto al passato <379.
Come se ciò non bastasse, il fallimento della giustizia antifascista fu accompagnato quasi contemporaneamente dalla persecuzione dei partigiani e da un vero e proprio «processo alla Resistenza».
Il profilarsi all’orizzonte della guerra fredda, la cacciata dei socialcomunisti dal governo e la divisione del Paese in due blocchi ideologici contrapposti furono seguiti dall’«accanimento giudiziario» nei confronti degli ex partigiani. Forte del sostegno governativo, la magistratura cominciò a perseguire «i reati addebitati ad esponenti del movimento resistenziale applicando le norme del diritto penale comune, senza tenere conto della ‹portata rivoluzionaria o quantomeno eccezionale della guerra di Liberazione›» <380.
8. Processo alla Resistenza
L’attacco politico condotto dalle forze moderate e dalla DC nei confronti dei partiti di sinistra e della Resistenza, almeno in Trentino, ebbe inizio ben prima che si giungesse alla rottura del patto d’unità d’azione tra i partiti antifascisti e quando ancora l’esperienza dei CLN non si era conclusa. Si potrebbe dire, anzi, che l’offensiva diffamatoria contro esponenti e militanti del movimento resistenziale precedette addirittura l’azione giudiziaria intrapresa dalla magistratura. Nell’agosto 1945, Vittorino Maturi rese pubbliche le sue preoccupazioni per l’avvio di un’esplicita «campagna di denigrazione contro i partigiani».
Lo strumento preferito dalla stampa avversaria – facilmente identificabile in quella democristiana – fu quello d’individuare negli ex patrioti gli autori principali degli episodi di criminalità e banditismo dilaganti in provincia <381. Maturi non nascondeva la necessità di analizzare i motivi che avevano permesso di gettare «fango e rendere inviso il movimento partigiano all’opinione pubblica». Lui stesso riconosceva che, soprattutto nelle giornate insurrezionali, «molti individui di losca provenienza» erano riusciti ad infiltrarsi nelle fila partigiane. Negava, d’altra parte, che il movimento ed i suoi membri fossero stati in qualche modo responsabili o complici di attività criminali dirette «a rapinare i passanti ed a razziare automobili». Per spuntare l’arma alla stampa «reazionaria e scandalistica», Maturi sollecitava un’analisi più accurata di «tutti i certificati partigiani» affinché si giungesse a «moralizzare ogni partigiano», denunciando e colpendo «coloro che erano indegni di questo nome» <382.
In qualche caso, le accuse rivolte a partigiani e movimento di resistenza non furono affatto generiche. Nel settembre 1948, a pochi mesi di distanza dalle elezioni politiche del 18 aprile, Il Popolo trentino diretto da Flaminio Piccoli, con l’articolo «Autori di efferati delitti identificati dall’Arma… quattro trentini fra i colpevoli», accusò Lamberto Ravagni di aver partecipato ad un omicidio avvenuto a Bussolengo il 28 dicembre 1945 e ad una tentata rapina nel febbraio 1948 <383. Già partigiano della Brigata Pasubiana, nel dopoguerra, Ravagni era diventato uno degli esponenti di spicco del PCI in Trentino. Purtroppo, gli attacchi alla Resistenza non risparmiarono nessuno, nemmeno i morti. Renato Bandinelli, nell’agosto 1945, fu costretto a difendere pubblicamente la memoria del comandante Germano Baron <384 (Turco) accusato d’essere tra gli autori materiali dell’eccidio di Schio avvenuto nel luglio precedente <385.
Ancora nel febbraio 1947, l’ANPI trentino protestava per le insinuazioni fatte nei riguardi di Carlo Zanini, «calunnie tendenti a denigrare […] tutto il movimento partigiano» <386.
Considerate le condizioni sociali in cui si trovava la provincia all’indomani della Liberazione, si deve presumere che la strategia denigratoria adottata sia sulla carta stampata sia attraverso vociferazioni e pettegolezzi cittadini fosse del tutto «strumentale» agli obbiettivi che i partiti moderati e gli apparati repressivi dello Stato si proposero a partire dal 1946. Prima di giudicare penalmente i partigiani, era necessario criminalizzarli e infangarne i meriti acquisiti durante la guerra di liberazione anche in una provincia che aveva visto un movimento partigiano piuttosto debole e dove il peso elettorale del PCI nel dopoguerra si sarebbe rivelato tutt’altro che una minaccia per la DC.
Alcuni elementi che avevano partecipato alla Resistenza si erano resi effettivamente responsabili nell’immediato periodo postbellico di reati comuni. Tali «devianze», tuttavia, andavano ricondotte ad una situazione critica e difficile globalmente, un contesto in cui qualsiasi individuo in possesso di un’arma – già partigiano, disertore, reduce, prigioniero di guerra, ecc. – era potenzialmente in grado di compiere un crimine. Quest’azione diffamatoria che cercava di mettere alla berlina i partiti di sinistra <387 e i loro caduti fu presto affiancata dall’opera delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria.
Nel febbraio 1948, un nucleo di carabinieri si presentò alla sede dell’ANPI di Arco perquisendo i locali, «i canali della fognatura» e scavando nel cortile e nell’orto adiacenti. Scopo dell’operazione era «il recupero di armi che per sicura e precisa notizia» i membri dell’associazione avrebbero nascosto clandestinamente <388. Probabilmente informati da una soffiata poi non confermata, i militi dell’Arma erano intervenuti comunque. L’eventuale ritrovamento di un deposito di armi e munizioni avrebbe rappresentato un’opportunità per screditare ulteriormente il movimento.
Gli episodi accaduti in Trentino erano comunque riconducibili al più ampio panorama politico nazionale.
Secondo Dondi, la repressione partigiana ebbe inizio nel 1946 e raggiunse il suo apice tra le elezioni dell’aprile 1948 e il 1954 <389. Attraverso l’azione della magistratura, i partigiani furono chiamati a rispondere delle azioni commesse non solo nel dopoguerra, ma anche al momento della guerra civile.
Sull’onda della «criminalizzazione» in atto sulla stampa a danno della Resistenza e dei suoi protagonisti, gli organi giudiziari operarono stravolgendo totalmente la realtà dei fatti e giudicando gli ex partigiani non per reati politici compiuti in un contesto bellico e di guerra civile, ma considerandoli atti di delinquenza comune. Il rapimento di un fascista fu considerato sequestro di persona, le requisizioni di generi alimentari e quant’altro, furti e rapine a mano armata, le esecuzioni di spie e collaborazionisti, semplici omicidi, e via di questo passo <390. In tal modo, «la persecuzione antipartigiana» si fondò «su un uso distorto e strumentale della macchina giudiziaria» che condusse all’elaborazione di «ipotesi di reato fingendo di ignorare le cause reali di molte esecuzioni, estrapolandole dal loro contesto storico» <391. Per di più, mentre per i reati di collaborazionismo furono «predisposti una legislazione speciale e specifici organi giudiziari», (le CAS), nei confronti dei partigiani non si adottò alcun strumento legislativo particolare che legittimasse le azioni compiute durante la guerra civile e alla sua conclusione.
I partigiani furono così giudicati in base al codice penale fascista del 1930 (codice Rocco) e da magistrati propensi a punirli per forma mentis <392.
Consapevole di questo stato di cose, Togliatti comprese nell’amnistia del giugno 1946 anche gli «illeciti» perpetrati dai partigiani.
Nella logica di una rivoluzione vittoriosa, la tecnica legislativa avrebbe dovuto essere opposta. Si sarebbe cioè dovuto dichiarare che non costituivano reato tutte le azioni commesse dai partigiani in occasione della guerra di Liberazione, ad eccezione dei casi in cui emergessero elementi per ritenere che il fatto fosse stato realizzato per finalità estranee agli obiettivi della Resistenza <393.
Nonostante il decreto d’indulto prevedesse l’estinzione o la riduzione della pena per le «illegalità» commesse dai partigiani entro e non oltre il 18 giugno 1946 <394, i giudici si mostrarono riluttanti a scarcerarli <395 mentre, al contrario, i fascisti uscirono dal carcere quasi immediatamente. La magistratura si mostrò così ostile al rilascio dei partigiani che fu necessario concedere altri condoni. Un decreto del gennaio 1948 concedeva ancora l’amnistia per i «reati connessi a quelli politici compiuti da coloro che appartennero alle formazioni partigiane ed al corpo italiano di liberazione» <396.
Il «particolare» trattamento riservato a coloro che avevano contribuito alla liberazione del Paese a rischio della vita non terminava qui. Altre umiliazioni attendevano gli ex membri della Resistenza. Rispetto ai detenuti per collaborazionismo, i partigiani ritenuti colpevoli di reati comuni furono costretti a subire lunghi periodi di «carcerazione preventiva» con udienze processuali tenute a distanza di anni dagli episodi «criminosi» che li avevano coinvolti.
[NOTE]
372 GUARNIERI 1998: 801-802.
373 GUARNIERI 1998: 805.
374 CANOSA – FEDERICO 1974: 146.
375 Dalla documentazione giudiziaria a disposizione, dei 58 condannati a varie pene detentive dalla Corte di Trento, tra il 1945 e il 1947, ben 38 furono amnistiati direttamente in primo grado o successivamente dalla Corte di cassazione tra il 1946 e il 1947.
376 BORGHI – REBERSCHEGG 1999: 95.
377 I processi diventarono uno degli strumenti principali attraverso cui le società europee discussero non solo le debolezze del loro passato ma anche il carattere del loro futuro. In CONWAY 2000: 134.
378 I dati definitivi danno 43 mila cittadini italiani giudicati per il reato collaborazionismo, 23 mila amnistiati in fase istruttoria, 14 mila liberati con formule varie, 5.928 condannati in via definitiva, 259 condannati a morte di cui 91 effettivamente giustiziati. In FRANZINELLI 2006: 258-259.
379 PAVONE 1995.
380 FRANZINELLI 2006: 264.
381 Del resto, lo stesso questore Pizzuto aveva a suo tempo svolto un ruolo fondamentale nell’incolpare i partigiani d’essere la causa principale di rapine ed estorsioni a mano armata lungo i confini territoriali della provincia. La responsabilità del dirigente della questura non deve essere sottovalutata nel creare appunto i presupposti di questa oltraggiosa offensiva.
382 Vittorino MATURI «La voce di un partigiano. Inflazione». Liberazione nazionale. Trento, 24 agosto 1945.
383 Trento, Tribunale di Trento, Archivio Sentenze penali, 1948, busta 192-366, fasc. 344/48.
384 Poleo, 1922-val d’Astico, 1945. Soldato sul fronte orientale durante la seconda guerra mondiale, rientrò in patria nel 1942. L’armistizio dell’8 settembre 1943 lo colse mentre si trovava ricoverato all’ospedale militare di Varese. Rientrato a casa, si unì alle formazioni partigiane operanti nel Vicentino giungendo a ricoprire funzioni di comando nella Divisione Ateo Garemi, attiva tra le province di Trento e Vicenza. Ufficiale della polizia partigiana nell’immediato dopoguerra, morì in seguito ad un incidente stradale.
385 Renato BANDINELLI «Accuse fasciste». Liberazione nazionale. Trento, 8 agosto 1945.
386 «Per l’onore d’un partigiano». Corriere tridentino. Trento, 25 febbraio 1947.
387 Gino LUBICH «Brivido». Il Proletario. Trento, 22 settembre 1945; «Ancora calunnie». Il Proletario. Trento, 27 settembre 1945.
388 Tra virgolette nel testo. «Protesta dell’Anpi per una perquisizione alla sede partigiana di Arco». Corriere
tridentino. Trento, 19 febbraio 1948.
389 DONDI 1999: 180.
390 STORCHI 1995: 118-119; JESU 1997: 612-613.
391 DONDI 1999: 180.
392 NEPPI MODONA 1992: 40; ONOFRI 1994: 177.
393 NEPPI MODONA 1992: 43.
394 NEPPI MODONA 1992: 46.
395 FRANZINELLI 2006: 53.
396 «Decreto d’amnistia e condono. Fino a tre anni per i reati fiscali – Altre disposizioni per i reati annonari, politici e comuni – Norme speciali a favore dei partigiani. La pena di morte sostituita dall’ergastolo». Corriere
tridentino. Trento, 17 gennaio 1948.
Lorenzo Gardumi, Violenza e giustizia in Trentino tra guerra e dopoguerra (1943-1948), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, 2009