Gli “Arditi del popolo” balzarono dagli appostamenti e al canto di “Bandiera rossa” si lanciarono a gran corsa contro il nemico

Parma: la Pilotta – Fonte: Mapio.net

Fu forse [n.d.r.: la resistenza popolare di Parma ad agosto 1922 che respinse gli assalti degli squadristi fascisti] la più forte e la più ardita combattuta contro i fascisti capitanati da Italo Balbo.
Riassumiamo il rapporto steso dall’on. Guido Picelli, comandante degli “Arditi del popolo” che diresse con audacia e perizia i combattimenti.
«Nella notte dall’uno al due agosto, giunsero i primi reparti di camicie nere con autocarri provenienti dalle province emiliane, dal Veneto, dalla Toscana e dalle Marche equipaggiati e armati di moschetti, rivoltelle, bombe e pugnali. Alla testa delle colonne erano i consoli: Moschini, Farinacci, Arrivabene, Barbiellini, ecc. Comandante in capo della spedizione che inquadrava complessivamente 20 mila uomini, Italo Balbo. Il questore di Parma, commendator Signorile, dopo aver dichiarato ai membri del Comitato locale dell’Alleanza del lavoro che nulla avrebbe potuto fare per impedire il concentramento, fece ritirare dalle due caserme situate nell’Oltretorrente i carabinieri e le guardie regie, per lasciare alle camicie nere maggiore libertà d’azione. Il Comando degli “Arditi del Popolo”, appena ebbe notizia dell’arrivo dei fascisti, convocò d’urgenza capi squadra e capi gruppo e dette loro disposizioni per la costruzione immediata di sbarramenti, trincee, reticolati con l’impiego di tutto il materiale disponibile. All’alba, all’ordine di prendere le armi ed insorgere, la popolazione operaia scese per le strade, impetuosa come le acque di un fiume che straripi, con picconi, badili, spranghe ed ogni sorta di arnesi, per dar mano agli “Arditi del Popolo” a divellere pietre, selciato, rotaie della tramvia, scavare fossati, erigere barricate con carri, banchi, travi di ferro e tutto quanto era a portata di mano. Uomini, donne, vecchi, giovani di tutti i partiti e senza partito furono là, compatti, fusi in una sola volontà di ferro: resistere e combattere. La zona occupata dagli insorti fu divisa in quattro settori: Nino Bixio e Massimo d’Azeglio nell’Oltretorrente; Naviglio e Aurelio Saffi in Parma Nuova. Ad ogni settore corrispose un numero di squadre in proporzione alla sua estensione: ventidue nei settori dell’Oltretorrente, sei nel rione Naviglio, quattro nel rione Aurelio Saffi. Ogni squadra era composta da 8-10 uomini armati di fucile modello 1891, moschetti, pistole, rivoltelle, bombe SIPE. Tutte le imboccature delle strade, delle piazze, dei vicoli vennero sbarrate da costruzioni difensive. Verso le nove i fascisti aprirono il fuoco. Per l’intera giornata si susseguirono attacchi e contrattacchi lungo la linea di resistenza ma che non produssero notevoli modificazioni alla situazione. Nella notte qualche fucilata e piccole azioni da parte di pattuglie nemiche. Al mattino seguente, Balbo, alla testa di un reparto di camicie nere, venendo dal piazzale della Pilotta, attraversò il ponte Giuseppe Verdi per tentare un’azione nelle linee degli “Arditi del Popolo”, ma appena giunse in vista dei primi sbarramenti, resosi conto della serietà del pericolo, rinunciò all’impresa e si ritirò. Subito dopo dalla destra del torrente i fascisti ripresero il fuoco e da posizioni scoperte assaggiarono qua e là la linea con rabbiose scariche di fucileria, in cerca di un punto da sfondare. Ma i difensori della “cittadella operaia” risposero al fuoco calcolando il tiro con precisione riuscendo spesso a colpire il bersaglio vicinissimo. Gli attacchi più violenti si svolsero attorno al Naviglio che, per la sua particolare posizione topografica, presentava maggiori difficoltà di resistenza. Dopo ore di combattimento il settore fu quasi accerchiato. Da via XX Settembre le camicie nere avanzavano in colonna serrata, risolute al definitivo assalto. In quel momento decisivo non rimase che un solo ed unico mezzo: uscire e contrattaccare. Difatti gli “Arditi del popolo” balzarono dagli appostamenti e al canto di “Bandiera rossa” si lanciarono a gran corsa contro il nemico. Furono pochi contro molti; uno di essi, l’operaio Mussini Giuseppe, cadde colpito mortalmente, ma gli “Arditi del Popolo” non si arrestarono. Più alto si levò il loro canto e più rapido si fece il tiro dei fucili che già bruciavano nelle loro mani. Di fronte a quel pugno di eroi, i fascisti presi da sgomento, ed immaginando che dietro le barricate e nelle trincee si nascondessero chissà quante forze, indietreggiarono da tutti i punti fino oltre Barriera Garibaldi. Al terzo giorno la situazione si aggravò nuovamente. I fascisti bloccarono i passaggi obbligatori che conducevano all’Oltretorrente. Il collegamento
venne perduto, si usarono i colombi viaggiatori. Una donna riuscì a portare nella sede del Comando in Parma Vecchia un biglietto: “Altri due morti: Nino Gazzola e Ugo Avanzini. Il portaordine ferito; munizioni quasi esaurite; mancano i viveri. Si chiede l’invio immediato di pallottole da fucile e da rivoltella altrimenti saremo costretti a ripiegare nella notte sull’Oltretorrente. Si attendono disposizioni. Il comandante del settore”. La risposta fu: l’ordine è di resistere e morire sul posto. Voi ne siete capaci. Troveremo il modo di farvi pervenire munizioni e viveri al più presto. A qualunque costo bisognava impedire all’avversario il più piccolo successo. La posizione fu mantenuta. Più tardi il collegamento venne ristabilito e il Naviglio ricevette munizioni e farina. Anche nell’Oltretorrente i servizi andarono man mano migliorando. Grande fu la partecipazione delle donne. Nel frattempo l’autorità militare, a cui il prefetto cedette i poteri, si mise in comunicazione coi membri del Comitato locale dell’Alleanza del Lavoro, capi socialisti, sindacalisti, interventisti e confederali i quali, non avendo potuto impedire apertamente alle masse di insorgere, per tema di essere esautorati, accettarono di trattare il compromesso impegnandosi a fare opera di persuasione tra gli operai per indurli a cessare la resistenza.
L’avv. Pancrazi, socialista, e il commissario di P.S. Di Sero mantennero il collegamento tra costoro e il generale Lodomez, comandante il Presidio.
Il giorno 5, a conclusione di tutta questa manovra, l’autorità militare, credendo che anche in quel momento i capi socialisti e confederali rappresentassero la volontà delle masse, o comunque potessero influire su di loro, inviarono un battaglione di soldati nell’Oltretorrente per disfare le trincee e le barricate e facendo sapere che i fascisti si sarebbero allontanati dalla città a patto che la popolazione deponesse le armi.
Senonché qui vi era un altro potere, quello effettivo della massa, affidato al comando degli “Arditi del Popolo” che nessuno aveva interpellato, ma col quale bisognava fare i conti.
“Le trincee non si toccano, esse costituiscono la legittima difesa della vita degli operai e dei loro quartieri contro centomila camicie nere armate”. Questa fu la risposta. Gli ufficiali protestarono dicendo che avevano l’ordine, ma gli operai non cedettero. Anch’essi avevano un ordine! Il contegno dei soldati fu tale da non incoraggiare gli ufficiali ad insistere. Due ore dopo il battaglione venne ritirato. Le manovre di compromesso e il tentativo di disarmare gli operai fallirono.
Nelle prime ore del giorno sei, si seppe che lo stato maggiore fascista aveva deciso di sferrare un’offensiva in forze contro l’Oltretorrente per le ore tre pomeridiane. Per quanto non fosse possibile conoscere con precisione il piano d’attacco, il Comando della difesa ritenne che il punto in cui il nemico avrebbe compiuto il massimo sforzo, cercando di sfondare, sarebbe stato alla sinistra della linea dove il fianco presentava maggiore possibilità di aggiramento, scendendo dai giardini pubblici attigui all’abitato dell’Oltretorrente. Secondo la regola generale di tutte le guerre e quindi quella di strada compresa, non bisogna mai lasciare all’avversario l’iniziativa e nel caso in cui si venga a conoscenza delle sue intenzioni, occorre prevenirlo attaccando per primi, costringendolo a modificare tutto il piano, con un’azione vigorosa ed improvvisa. Ma purtroppo gli insorti non furono nelle condizioni materiali di passare all’offensiva dato il numero non sufficiente di fucili e di munizioni. Nessun aiuto fu possibile avere all’ultimo momento dalla campagna, perché nelle località temute i fascisti inviarono piccoli distaccamenti impedendo il collegamento con la città. Venne però disposta la grande difesa, fatta con ogni mezzo e che avrebbe dovuto impegnare il nemico fino all’ultimo uomo. Furono riuniti i capi squadra per dare loro gli ordini necessari, il comando fece una rapida ispezione di tutto il settore. Il morale della massa si dimostrò elevatissimo. Un elemento molto importante del successo, nella lotta armata, è la certezza di vincere. Nelle case si attese alla fabbricazione di ordigni esplodenti. Alle donne vennero distribuiti recipienti pieni di petrolio e di benzina, poiché nel caso i fascisti fossero riusciti a penetrare in Oltretorrente, il combattimento si sarebbe svolto strada per strada, vicolo per vicolo, casa per casa, senza risparmio di sangue con lancio di liquidi infiammabili contro le camicie nere e fino all’incendio ed alla distruzione completa delle posizioni. Questo in base al piano difensivo.
Alle due circa, dalla destra del torrente, furono sparati i primi colpi contro il settore Nino Bixio e presi d’infilata Borgo della Carra e Borgo Salici. Ulisse Corazza, artigiano, consigliere comunale del Partito popolare (il partito dei cattolici) che aveva chiesto di partecipare al combattimento a fianco degli “Arditi del Popolo”, fu ferito gravemente alla testa e morì pochi minuti dopo. Si trattò di un’azione dimostrativa tendente a trarre in inganno i difensori sui reali obiettivi del piano d’attacco, mentre alla sinistra dell’Oltretorrente reparti di camicie nere, penetrati nei giardini pubblici, avanzarono in direzione del muro di cinta.
Non fu una sorpresa; prevista la manovra, gli “Arditi del Popolo” dai posti di guardia iniziarono immediatamente il fuoco di fucileria con tiro regolato, infliggendo all’avversario gravi perdite. La spinta e la pressione degli assalitori, forte in un primo tempo, andò a poco a poco indebolendosi sino a cessare completamente qualche ora dopo. A nulla valsero gli incitamenti dei comandanti. Di fronte alla precisione dei fucilieri proletari, non fu più possibile avanzare. Lentamente, al riparo delle piante, le camicie nere ripiegarono sulle posizioni di partenza.
Durante la notte l’attività dei fascisti si limitò a spari di molestia di nessuna efficacia. Alla mattina del sette si notarono movimenti confusi e disordinati di colonne fasciste spostantisi da un punto all’altro della periferia della città. Qualcosa di nuovo stava per accadere.
Nell’Oltretorrente giunsero informazioni che tra le camicie nere era vivo il malcontento per le perdite subite. Si stava diffondendo il panico. Più tardi il disordine andò aumentando e divenne generale. I fascisti non più inquadrati e alla rinfusa si riversarono in tutte le direzioni con i treni in partenza, con autocarri, biciclette ed a piedi, frettolosamente, senza comando. Non fu una ritirata ma addirittura lo sbandamento di una massa di uomini che presi d’assalto tutti i mezzi di trasporto, si gettò nelle strade e nelle campagne, come se temesse di essere inseguita.
Le schiere di Balbo ormai disperse vennero perse di vista. La spedizione punitiva in grande stile contro il proletariato parmense s’era trasformata in un disastro. Le camicie nere ebbero 39 morti e 150 feriti.
Dalla parte dei difensori vi furono 5 morti e alcuni feriti.
Al di qua e al di là del torrente, tutta la popolazione operaia all’annuncio della partenza dei fascisti si gettò nelle vie della città in una indescrivibile esplosione di entusiasmo.
La notizia della vittoria operaia si diffuse rapidamente anche in provincia. Molti proprietari di terre, presi da spavento perché sentirono dire che sarebbero arrivati gli “Arditi del Popolo”, abbandonarono le abitazioni fuggendo verso il Cremonese.
Le autorità militari proclamarono lo stato d’assedio e ordinarono che per le ore 15 fossero tolte le barricate. Il Comando della difesa esaminò la nuova situazione creatasi in seguito all’intervento dell’autorità militare e constatò l’impossibilità materiale di fare fronte alle forze dell’esercito: due reggimenti con sezioni di mitragliatrici, carri armati e artiglieria.»
I fascisti erano stati battuti e il successo non doveva essere offuscato.
Purtroppo si trattava di un successo locale: ottenuto anche perché le autorità militari, a differenza di quanto generalmente avveniva, avevano assunto un atteggiamento di “neutralità” e non avevano impiegate le truppe contro la popolazione di un’intera città in lotta.
Ma in tutto il paese, dopo l’insuccesso dello sciopero “legalitario” di agosto, l’offensiva dei fascisti proseguiva inesorabile. Superati gli ultimi ostacoli due mesi dopo punteranno su Roma.
Pietro Secchia, Le armi del fascismo (1921-1971), Feltrinelli 1971