Dalla Liguria Pound proseguì alla volta dell’amata Verona

Genova: Portici di Sottoripa

10 luglio 1958. L’ufficio stampa della Società Italia annuncia che oggi Ezra Pound arriva a Genova con la Cristoforo Colombo. In qualità di responsabile genovese dell’ANSA, non posso mancare l’evento. Più tardi l’illustre critico savoiardo-ligure Michel David mi spiegherà che un eccentrico russista genovese, Alberto Pescetto, aveva intrallazzato finché i dirigenti della Compagnia di Navigazione avevano offerto al poeta una cabina di prima classe a prezzo di favore.

La notizia che l’autore dei Cantos stava per rientrare in Italia mi era arrivata da alcune settimane, e mi ero documentato andando a intervistare a Rapallo, dove  Ezra aveva abitato per più di vent’anni, un suo compagno di tennis e poi medico di famiglia, Giuseppe Bacigalupo. Il dottore mi ricevette molto professionalmente, in camice, nel suo studio, ma mi bastarono due minuti per capire che un quadro clinico di casa Pound era l’ultima cosa che mi dovevo aspettare da lui. Cominciò  citando quanto diceva di Pound un altro anglosassone residente a Rapallo da una vita, l’inglese Max Beerbohm (famoso in patria, quasi sconosciuto da noi), morto da un paio d’anni: “Non potete persuaderlo a tornare nel suo paese dove c’è tanto spazio?”. Beerbohm, discretissimo e sofisticatissimo dandy, sintetizzava così la personalità ingombrante dell’americano, che negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso aveva turbato la minuscola Rapallo, eleggendola ad avamposto delle sue battaglie culturali (e ahimè economiche e politiche).

Bacigalupo (padre dell’americanista – e “poundista” doc – Massimo, ragazzino decenne all’epoca della mia intervista, più tardi caro amico), mi fornì diversi spunti, che avrebbe poi raccolto nel suo prezioso memoriale Ieri a Rapallo, e mi citò alcuni degli artisti che avevano fatto parte del cenacolo poundiano rapallese: dal sommo Yeats al selvatico Bunting, allo scultore Henghes, a un ragazzone americano che si chiamava James Laughlin.

Finalmente arriva il 10 luglio. Secondo programma, Pound sbarca con passo elastico dalla Colombo, settantatreenne giovanile, abito bianco, camiciola aperta e largo feltro grigio-chiaro. E’ accompagnato dalla moglie, la sobria Dorothy che gli è stata vicina in tutti questi anni di detenzione, e da una giovane segretaria texana, Marcella, il cui nome ricorre negli ultimi canti quasi si tratti di un amore senile. “EP” è espansivo e cordiale, non sembra aver risentito degli anni passati in manicomio, imputato di tradimento ma non processabile (secondo gli psichiatri) perché incapace di intendere la gravità del suo caso (la legge americana non prende infatti in considerazione l’eventuale follia dell’imputato al momento del reato, ma solo le sue condizioni mentali durante il procedimento). Dopo tredici anni, l’imputazione di tradimento è stata lasciata cadere, Pound è tornato in libertà, e così tutti si sono tolti un peso dalla coscienza. Ma per lui il ritorno non sarà facile.

All’arrivo a Napoli, ieri, Ezra ha ricevuto giornalisti, fotografi e cineoperatori comodamente disteso su una sdraio del ponte-sole e, alla prima domanda, ha risposto: “Oggi il manicomio è l’unico posto dove si possa vivere negli Stati Uniti”. Si è poi lanciato, con il solito spirito battagliero, in un monologo contro l’usura cancro del mondo, contro le banche, il militarismo e le università e fondazioni americane, colpevoli di non sponsorizzare i veri talenti (che sarebbero i poeti che si occupano anche di economia). A questo punto uno degli intervistatori ha sollevato il braccio nel saluto romano, e il vecchio Ezra è caduto in trappola rendendogli il saluto. Si vede che nessuno ha letto quel verso che chiude uno dei Canti pisani: “Oh lasciate che un vecchio se ne stia in pace”.

A Genova il poeta affronta allegro e lusingato il nuovo assalto di giornalisti, ammiratori e curiosi. “Il suo incedere ginnastico e sorridente è sembrato rispecchiare un tranquillo ottimismo alimentato da una sicurezza ironica nei confronti dello spettacolo del mondo”, riferisce Giuliano Crisalli sul “Secolo XIX”. A chi gli chiede dove intenda  stabilirsi risponde: “Io non ho intenzioni, mai”. Alcuni fan genovesi, Martino e Anna Oberto e Gabriele Stocchi, hanno approntato un numero speciale della loro rivista d’avanguardia, Ana eccetera, con brani dei recentissimi canti 91 e 96, costellati di arcani geroglifici e caratteri cinesi, nella traduzione (un po’ zoppicante a dire il vero) di Enzo Siciliano.

Francesco Leoni, ottimo fotografo di cronaca, ferma l’immagine del poeta (“Egregio, si tolga il cappello”, lo esorta), fra Anna Oberto, che certo attira il vecchio fauno con la sua giovanile bellezza italiana, e il sottoscritto, che tiene in mano la plaquette di Ana eccetera che subito dopo Ezra autograferà. La foto è riprodotta nel bel catalogo della mostra Istantanee per una storia. Francesco Leoni e il fotogiornalismo (Carige 2007). In occasione della mostra Anna e io ci siamo ritrovati davanti alla foto con qualche annetto in più, e una nuova foto ha fissato la coincidenza.

Basta con la stampa. Il poeta è sospinto con amorevole fermezza verso l’auto dell’amico genovese-triestino Carlo Rupnik (scampato fortunosamente ad Auschwitz), che lo porta nella bella dimora altoborghese di Salita Santa Tecla, per un pranzo in famiglia finalmente all’italiana. 

Non c’è la moglie del padrone di casa, la giornalista americana  dell’“Herald Tribune” Mary Edna Howell, mancata da anni, autrice di interviste-scoop a Mussolini, da Pound frequentata nell’anteguerra, ma ci sono il figlio Giovanni e la fidanzata (e poi  moglie) Anna Odero.

La gentile e vivace signora Anna ricorda ancora oggi, con la stessa emozione di cinquant’anni fa, l’incontro con il Bardo. Il quale siede giovialmente alla tavola, imbandita con splendide posate e porcellane Tiffany, ma d’un tratto cambia d’umore.  Ha visto, appese sulla parete di fronte, certe preziose stampe del Settecento che non gli piacciono: “Troppo tristi – esclama senza complimenti – per una lieta circostanza!”. Sarà anche per questo che egli volta subitaneamente la sedia alla tavola e all’anfitrione e intreccia lì per lì una fitta chiacchierata sui temi più vari (“abbiamo parlato persino del cane”) con la ragazza, tenendosi sulle ginocchia il piatto con gli spaghetti. Qualcuno dei quali, nell’animazione del conversare, finisce sui cuscini di velluto…

Poi Ezra esprime il desiderio di rivedere (e far vedere) la sua Rapallo e Giovanni e Anna lo accompagnano in macchina verso il Tigullio. Qui egli vuol a tutti i costi raggiungere, sulle alture di S. Ambrogio, la casa  condivisa con l’amica Olga Rudge, madre di sua figlia Mary. Per arrivarci non c’è naturalmente l’odierna strada asfaltata, occorre una lunga scarpinata lungo la  mulattiera in salita, sempre in animata conversazione con la povera Anna, che consuma sui sassi i tacchi delle eleganti scarpette rosse indossate per l’occasione.

Ad Anna  sembra di ricordare che il terzetto angloamericano si sia fermato a Rapallo e che lei sia arrivata a casa assai in ritardo, cosa riprovevole per una fidanzatina genovese del 1958. Certo è che dalla Liguria Pound proseguì alla volta dell’amata Verona (“Accidenti, vorrei proprio rivedere Verona”, come dice nel canto 91, composto a Washington nel 1954). E da lì continuò per Tirolo di Merano, dove Mary de Rachewiltz aspettava di festeggiarlo in un castello degno di un grande poeta.


Carlo Vita, Lo sbarco di Ezra Pound a Genova, 10 luglio 1958, Poesia, 229, luglio 2008, art. qui ripreso da biblioteca dell’egoista Circolare 2008