Ciò che si apre dopo gli anni Cinquanta è, quindi, un’altra storia, sebbene le sue radici siano contenute in quella del conflitto sociale che ha per buona parte determinato la storia complessiva dell’Italia pre-boom

La storia che abbiamo cercato di seguire e ricostruire nel presente lavoro non si conclude certo negli anni Cinquanta. La fine di quel decennio rappresenta un momento di passaggio per tutti gli attori che, dall’inizio della storia unitaria al primo decennio repubblicano, sono stati coinvolti dai cicli del conflitto sociale e ne hanno provato a determinare la politica, ovvero il piano delle rivendicazioni immediate e l’orizzonte del progetto generale di società al quale il conflitto tendeva. Da quel momento in avanti, infatti, cambia la cornice dentro la quale si svolgono gli avvenimenti: con l’inizio del cosiddetto boom o miracolo economico, la società italiana subisce una trasformazione che investirà non solo i piani economico e sociale, ma anche culturale, valoriale e antropologico. Con lo stile donchisciottesco ed estremistico che egli stesso rivendicava per sé, Pier Paolo Pasolini ha voluto svolgere esattamente questa osservazione quando, a inizio anni Settanta, parlava di ‘rivoluzione antropologica degli italiani’ <663 nei suoi ‘Scritti corsari’ e della fine delle culture di classe tradizionali che avevano storicamente guidato il conflitto sociale e la lotta politica in Italia.
Questo ovviamente, lo sappiamo, non ha determinato la fine del conflitto: gli anni Sessanta e Settanta sono stati decenni di profonda conflittualità sociale e politica, dove agli elementi di più lungo periodo analizzati in questo lavoro si sono uniti caratteri essenzialmente nuovi, propri di quella che possiamo definire una ‘società del benessere’ <664. In essa infatti, nel suo primo ventennio, si possono rilevare una serie di continuità: da una parte, la cultura del conflitto sindacale di lavoro e le forme estreme proprie di un rivoluzionarismo mai scomparso; dall’altro, la cultura di governo storicamente appartenuta al partito moderato, unita alla nuova strategia anticomunista che si afferma nei settori più oltranzisti della classe dirigente e militare occidentale nel corso degli anni Sessanta, che esplode con tutta la sua violenza nella stagione golpista e stragista inaugurata il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana.
Ma indiscutibilmente sono presenti, come già accennato, elementi di diversità: l’accettazione da parte della classe operaia dei rapporti economico-sociali capitalistici, con il definitivo tramonto della prospettiva rivoluzionaria, e il consolidarsi di una cultura dell’integrazione delle sue organizzazioni (PCI e CGIL su tutte) all’interno della macchina statale e del sistema politico.
Per quanto riguarda il primo punto, si tratta del passaggio dalla cultura della comunità operaia a quella della comunità aziendale:
“Se nei primi anni del dopoguerra – gli anni del potere degli operai – prevalgono decisamente valori collettivi utili a disegnare la comunità della fabbrica come una comunità operaia, per buona parte degli anni cinquanta ciò che sembra conquistare posizioni è l’idea della fabbrica intesa come comunità aziendale”. <665
Permane una forte cultura sindacale e dell’organizzazione di classe, ritroviamo quell’antagonismo identitario che ha caratterizzato la storia del movimento operaio, in particolare milanese, ma accentua il suo aspetto di negoziazione e convergenza con il padronato, in nome di valori comuni dati dal produttivismo e da un equo accesso ai nuovi consumi; c’è contestazione alle decisioni dell’industriale, certo, “senza però opporsi a queste iniziative in nome di un’alterità operaia irriducibile”. <666
Dall’altro lato, la storia del PCI da dopo la vittoria interna dei rinnovatori sugli operaisti, si intreccia poi con la trasformazione della propria base (in relazione anche alla rivoluzione economica del boom), dove un significativo aumento hanno i ceti medi, determinandone il ruolo di ‘partito della sinistra italiana’, sempre più ‘partito di comunità’ e sempre meno ‘partito di classe’; al tempo stesso, il periodo berlingueriano può essere letto all’insegna del tentativo di superare la conventio ad excludendum verso il PCI, rafforzando la prospettiva di alleanza con le masse cattoliche, oltre che di affrontare il pericolo dato dalla ‘prospettiva cilena’ <667.
Ritroviamo in questa storia successiva del Partito comunista italiano e della cultura di cui si fa portatore gli inevitabili legami con la sua complessa e unica storia tra i partiti comunisti, influenzata da quella che Renzo Martinelli ha chiamato una “sfasatura più generale, storico-genetica”:
“questo partito infatti, viene fondato, nel 1921, come partito rivoluzionario: le sue caratteristiche originarie, teoriche e organizzative, sono cioè finalizzate precisamente allo scontro risolutivo, previsto come imminente. Ma la realtà, già allora, non corrisponde a tale impostazione: il periodo della genesi e della prima organizzazione del partito rivoluzionario è, al contrario, un periodo ‘controrivoluzionario’, il tempo dell’ascesa e dell’affermazione del fascismo. Questo scompenso politico-organizzativo è alla base delle successive vicende del PCI, e si fa sentire, in forme e modi, particolari, anche nelle vicende del secondo dopoguerra. Tutta la storia del partito potrebbe venir letta, da questo punto di vista, come un graduale (e certamente non lineare) adeguamento alla realtà, un processo di progressiva integrazione nelle tendenze di fondo della società italiana: una sorta di riassorbimento dell’istanza rivoluzionaria di fronte ai dati della realtà, con la rinuncia, prima nella prassi, e infine anche sugli altri piani, alla prospettiva di trasformare il mondo, di dare l’assalto al cielo”. <668
Si presenta poi, nel corso degli anni Settanta, il paradosso di una cultura rivoluzionaria e insurrezionalista, di cui sono sì protagonisti anche settori della classe operaia, ma che sposta il suo centro propulsore in soggetti sociali diversificati (gli studenti, gli operai meridionali immigrati, figli della classe operaia sindacalizzata, giovani delle periferie industriali); inoltre, si moltiplicano i terreni del conflitto: se quello affrontato in questa ricerca è legato principale alla questione sociale e del lavoro, nella società del benessere non è più limitato solo a quel piano.
Ciò che si apre dopo gli anni Cinquanta è, quindi, un’altra storia, sebbene le sue radici siano contenute in quella del conflitto sociale che ha per buona parte determinato la storia complessiva dell’Italia pre-boom.
Alcune questioni storiografiche aperte
In questo lavoro abbiamo cercato di proporre una serie di appunti per cercare di rispondere a una domanda che sentiamo profondamente radicata nel presente: qual è la funzione e la concezione del conflitto sociale, con le sue forme e le culture dei diversi attori che attorno a esso si muovono, nella nostra società attuale, così radicalmente differente da quella del 1945-1956 e soprattutto del 1880-1920, ma figlia delle sfasature storico-genetiche di quei periodi? La risposta è ovviamente incompleta e richiederebbe di proseguire la ricerca anche sulle fasi successivi, che immediatamente precedono la nostra epoca di crisi.
Tuttavia, da un punto di vista storiografico, sono emerse a nostro modo di vedere una serie di questioni di rilevante interesse e che proviamo a descrivere qui di seguito.
1) Nonostante siano molti gli studi e le ricerche che hanno trattato del conflitto sociale come punto di vista per studiare determinati gruppi sociali e le culture di governo, e anzi proprio in virtù di questa ricchezza, crediamo sia possibile costruire una storia d’Italia complessiva che tenga conto del conflitto come questione determinante nella formazione dello Stato e della società: è infatti a partire dallo scontro sociale che i governanti hanno costruito la loro impalcatura ideologica e si sono attrezzati per governare, mentre i governati si sono organizzati per superare la condizione storica di subalternità. Possiamo dire che la paura o la speranza insite nella concezione del conflitto che hanno i gruppi sociali, il loro considerarlo un tabù della prassi politica e della memoria storica o, al contrario, il ‘motore della Storia’, siano state la cifra del mondo nato dalla Rivoluzione francese e dall’Ottobre russo. E oggi?
2) Una seconda questione aperta riguarda proprio le categorie interpretative utilizzate in questo lavoro per descrivere quelli che abbiamo chiamato sopra, per semplificare, governanti e governati: rispettivamente, il partito moderato e la subalternità. Partendo dalla prima: abbiamo ripetuto più volte nel corso dell’esposizione e ci sembra di aver dimostrato che utilizzare una categoria di lungo periodo non significhi, come ha spiegato Claudio Pavone, affermare immobilità o assenza di cambiamenti; d’altronde, nemmeno lo stesso Gramsci, a cui dobbiamo entrambi i concetti, li ha utilizzato in questa accezione a-storica. Il partito moderato è caratterizzato da un insieme di costanti e continuità, le quali derivano dalle trasformazioni di ogni fase storica precedente e che ovviamente modificano, in quella successiva, la forma e il contenuto di cui sono portatori. Tuttavia è possibile ritrovare nella classe dirigente, istituzionale ed economica, una costante di moderatismo politico e a-democraticità, secondo la convinzione che gli interessi generali del paese corrispondano a quelli delle classi proprietarie; mentre la popolazione, in particolare i gruppi sociali non dirigenti e intermedi, siano una minaccia all’ordine costituito, in particolare quando si esprimono attraverso modalità di protesta. Anche per quanto riguarda la subalternità, affermarla non significa attribuirle il medesimo significato o le stesse caratteristiche in ogni tempo e luogo; né è possibile ridurla al solo piano economico-lavorativo (sebbene in esso trovi il suo primo momento). L’esclusione non solo dalle sedi del potere economico e politico, ma anche la dipendenza culturale dalle classi dirigenti e la loro intellettualità, per descrivere sé stessi e il mondo circostante, sono ciò che ritroviamo nei periodi affrontati e che ci interroga sul loro significato oggi.
3) C’è poi una questione metodologica, legata al dove e al quando. La storia del conflitto sociale si intreccia, in Italia, con quella dei movimenti socialisti e rivoluzionari (usiamo volontariamente il plurale); non soltanto, ma entrambe risentono delle condizioni e delle tradizioni preunitarie, che tutt’oggi determinano una peculiare frammentarietà della società italiana. Da questo punto di vista, ciò permette di individuare dei contesti locali specifici dove meglio risaltano caratteristiche generali della politica del conflitto: in questo senso, la scelta di Milano nel secondo dopoguerra ha secondo noi valore generale, aiuta a comprendere meglio i problemi sociali e politici che nel capoluogo lombardo si sono manifestati con più forza, ma che hanno rappresentato le questioni dirimenti a livello nazionale per gli sviluppi dopo il fascismo e all’inizio della Repubblica. In secondo luogo, i periodi: per studiare la storia d’Italia secondo il parametro del scontro sociale e della politica del conflitto bisogna necessariamente individuare le fasi più intensamente conflittuali. Un paese può vivere per lunghi periodi di tempo senza che si svolgano importanti episodi o eventi di conflitto, senza che questo significhi che le tensioni e le contraddizioni sociali siano scomparse; in base a una molteplicità di fattori, queste riemergono dando inizio a un ciclo conflittuale: è qui che,
secondo noi, deve immergersi lo storico, seguendo una prospettiva di complessità e interazione.
4) Ci colleghiamo a quest’ultimo punto, per passare al prossimo. La ‘complessità’ di cui parliamo è quella che deriva dall’oggetto stesso dello studio: il conflitto sociale, per essere studiato, richiede di tenere conto di una serie di piani: i soggetti che in esso si incontrano e si scontrano; le loro culture politiche e la concezione del conflitto sociale; il loro status economico, politico, giuridico; le forme di intervento nell’agone politico, secondo il principio di rappresentanza o dell’azione diretta. A sua volta, bisogna considerare l’interazione, la dialettica tra i soggetti e tutti questi piani incrociati. Da questa prospettiva di studio emerge sicuramente una realtà non lineare, spesso contraddittoria, paradossale, dove tattiche e strategie devono continuamente fermarsi e formarsi, secondo il modificarsi del contesto generale, adattandosi alle scelte delle controparti e dei propri alleati.
5) Da qui riaffermiamo quanto detto nel corso del primo capitolo, a proposito dell’interdisciplinarietà e dei diversi tipi di storia che servono a un lavoro di questo tipo. I rischi che abbiamo trovato sono quelli di inciampare nei limiti riscontrati in alcuni lavori di storia politica, delle istituzioni o delle organizzazioni, e nelle biografie politiche. Rispettivamente: da una parte, di una storia ‘orizzontale’, che non tenga conto della profondità sociale e culturale con cui anche istituzioni e grandi attori organizzati devono confrontarsi e da cui sono influenzati; dall’altra, di una ricerca storica che, nel merito assoluto di un preziosissimo lavoro sulle fonti ufficiali e sui documenti personali dei leader politici che hanno influenzato i destini di Stati e grandi masse di uomini, rischia però di presentare forzatamente una coerenza di pensiero e di azione che non tiene conto di contraddizioni, errori, battute d’arresto, ripensamenti, condizionamenti esterni.
Da questo punto di vista, e ci avviamo a concludere, ci sembrano ancora valide, sull’approccio che in ultima istanza deve avere lo storico nei confronti della sua materia, quanto scrisse Frederich Engels in una lettera a Joseph Bloch nel 1890, a proposito del rapporto tra ‘volontà e mondo’ nella Storia:
“Ci facciamo da noi la nostra storia, ma, innanzitutto, a presupposti e condizioni assai precisi. Tra di essi quelli economici sono in fin dei conti decisivi. Ma anche quelli politici, anzi addirittura la tradizione che vive nelle teste degli uomini ha la sua importanza, anche se non decisiva. […] La storia si fa in modo tale che il risultato finale scaturisce sempre dai conflitti di molte volontà singole, ognuna delle quali a sua volta è resa quel che è da una gran quantità di particolari condizioni di vita; sono perciò innumerevoli forze che si intersecano tra loro, un gruppo infinito di parallelogrammi di forze, da cui scaturisce una risultante – l’avvenimento storico – che a sua volta può esser considerata come il prodotto di una potenza che agisce come totalità, in modo non cosciente e cieco. Infatti quel che ogni singolo vuole è ostacolato da ogni altro, e quel che ne viene fuori è, in definitiva, qualcosa che nessuno ha voluto. […] Ma dal fatto che le singole volontà – ognuna delle quali vuole ciò a cui la spinge la sua costituzione fisica e le circostanze esterne, in ultima istanza economiche (le sue proprie personali o quelle generali e sociali) – non raggiungono ciò che vogliono, ma si fondono in una media complessiva, in una risultante comune, da questo fatto non si può comunque dedurre che esse vadano poste uguale a zero. Al contrario, ognuna contribuisce alla risultante, e in questa misura è compresa in essa”. <669
‘L’avvenimento storico’ che scaturisce dallo scontro è quindi ‘qualcosa che nessuno ha voluto’. Ma che comunque in molti, individui e soggetti collettivi, hanno contribuito a determinare. Il conflitto sociale è forse l’insieme complesso di avvenimenti storici che meglio racchiude il significato di questa considerazione.
[NOTE]
663 Cfr. P.P. Pasolini, Scritti corsari, pp. 39-44, Garzanti 2006 (Prima edizione 1975)
664 Una società ad alto livello di consumo, garantito in modo esteso dalla crescita produttiva e dall’ampio accesso al credito.
665 L. Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia, 1945-1963, p. 132, Ediesse, 1997
666 Ibidem, p. 137
667 L’11 settembre 1973 un colpo di Stato militare rovescia in Cile il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto. Il golpe viene interpretato dal gruppo dirigente PCI come una prospettiva possibile anche in Italia ed ebbe un’influenza decisiva nel lancio della strategia berlingueriana del ‘compromesso storico’.
668 R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Il ‘Partito nuovo’ VI: dalla Liberazione al 18 aprile, p. 381-82, Einaudi, 1995
669 F. Engels, Lettera a J. Bloch, Londra 21 settembre 1890
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016/2017