Capitini ha lasciato tracce profonde e durature, insistenti nel corso del tempo

Aldo Capitini al lavoro nel suo studio – Fonte: Isucinforma cit. infra

Il 19 ottobre 1968 moriva Aldo Capitini.
Poeta, scrittore, filosofo, pedagogista, instancabile sperimentatore e teorico di una «nuova socialità» ispirata ai valori del «liberalsocialismo», della «nonviolenza», della «compresenza» delle molte dimensioni della realtà nell’esistenza di ogni persona, del «potere di tutti» e della «democrazia diretta», Capitini ha lasciato tracce profonde e durature, insistenti nel corso del tempo. Oggi i suoi temi sono di urgente attualità. Per ascoltarne la voce e praticarne le lezioni di metodo (di pensiero e azione), dal 2017 si è sviluppato a Perugia e in Umbria un processo di conoscenza e studio, di confronto con la sua opera, di valorizzazione della sua opera, che nel 2018, a 50 anni dalla morte, ha visto svilupparsi numerose iniziative nel mondo della scuola, nelle Università, nelle diverse realtà istituzionali e dell’associazionismo.
Il 25 ottobre 2017 si è costituito un «comitato promotore» di enti pubblici e privati, istituti e associazioni, con il compito di coordinare e sviluppare il programma di iniziative che si è concluso a Perugia nel dicembre 2018.
[…]
Redazione, 50° anniversario dalla morte di Aldo Capitini, Isuc informa. Bollettino dell’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, 14, 2017-2018

Il primo documento nel quale ho trovato la formula “obiettori di coscienza” è una lettera scritta nel 1941 da don Primo Mazzolari all’aviatore Giancarlo Dupuis, nella quale è attestata una consuetudine con l’espressione. Il testo, pur se di stampo epistolare, era destinato ad una divulgazione più ampia rispetto ad una corrispondenza meramente privata <3. Il testo di Mazzolari va posto in relazione con un altro passo non meno significativo, che lo precede di quattro anni. In Elementi di un’esperienza religiosa, prima pubblicazione del filosofo Aldo Capitini, il più importante teorico e divulgatore italiano della nonviolenza, l’autore dedicava alcune pagine all’analisi di atteggiamenti del tutto assimilabili ad un’obiezione di coscienza, denominandoli “non-collaborazione”. Prudenza, forse, verso un’espressione “pericolosa” in un saggio che in realtà di prudenza ne aveva poca ed aveva superato sorprendentemente le maglie dalla censura fascista, facendo leva su un titolo guardato con indifferenza. Più probabilmente poca familiarità con un lessico che definiva un atto del tutto estraneo alla società fascista in cui egli viveva.
Al di là degli episodi precorritori, l’obiezione di coscienza come istanza riconosciuta dall’opinione pubblica e presente nel dibattito politico è dunque un evento tutto interno alla storia repubblicana. Nel 1948 a Firenze, in occasione del “terzo convegno per l’opposizione alla guerra e l’obiezione di coscienza” organizzato dallo stesso Capitini, venne deliberata la prima definizione collettiva sorta dalla società civile: « impegnarsi, come minimo, al rifiuto di partecipare alla guerra e alla sua preparazione, quali che siano le proprie convinzioni religiose e politiche, le associazioni e i movimenti a cui uno appartiene» <4. L’accezione con cui veniva adoperata era assai più larga del suo significato corrente: non individuava un esplicito ripudio dell’obbligo militare stabilito dalla legge, ma un impegno più generico a non collaborare ad alcuna guerra: essa attestava la suggestiva autorappresentazione di un gruppo, animato da una tenace tensione verso la pace, nel quale tuttavia gli appartenenti non dovevano singolarmente confrontarsi con il momento della leva. La vicenda italiana dell’obiezione di coscienza può essere colta in questa duplice aporia: i primi obiettori lo furono, senza che una formula linguistica li definisse come tali; quando l’espressione affiorò nel dibattito pubblico, essa maturò come istanza intellettuale-filosofica, sostenuta in circoli dalla forte tensione spirituale, senza essere accompagnata da figure concrete di obiettori. A colmare lo iato fu la decisione di rifiutare il servizio militare di un giovane di Ferrara, Pietro Pinna, che conferì all’obiezione di coscienza un volto in carne ed ossa con cui l’opinione pubblica familiarizzò, fino a farne un caso nazionale. A partire da questo momento l’espressione venne delimitata al suo significato più comune. Quando nel 1959 in L’obiezione di coscienza in Italia Capitini diede una nuova definizione, egli ristabilì il rapporto tra rifiuto della guerra e legislazione statale e, recuperando l’etimo latino ob-iacere, individuò il contenuto nell’atto della coscienza «che presenta e oppone all’ordine legale di preparare ed eseguire la guerra, motivi che essa trae da se stessa <5».
3 P. Mazzolari, La chiesa, il fascismo, la guerra a cura di L.Bedeschi, Vallecchi, Firenze, 1966.
4 Archivio della Biblioteca Planettiana di Jesi, fondo Marcucci (da ora FM), Sc. 11, fasc. 2, busta 2a, dattiloscritto. Resoconto del “Terzo Convegno per l’opposizione alla guerra e per l’obbiezione di coscienza (1948)”.
5 A. Capitini, L’obiezione di coscienza in Italia, Manduria, Lacaita, 1959, p.7.
Marco Labbate, E se la patria chiama… Storia dell’obiezione di coscienza al servizio militare nell’Italia repubblicana (1945-1972), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno accademico 2014-2015

Il pensiero di Gandhi fu introdotto in Italia da Aldo Capitini <67, che fin dal fascismo aveva compiuto una scelta di pace e di nonviolenza.
Dopo la Liberazione il suo impegno intellettuale si espresse fuori dal mondo accademico, nella pubblicistica rivolta al grande pubblico. Fino agli anni ’80 la ricerca per la pace rimase opera di figure isolate, come Norberto Bobbio a Torino, per gli studi prevalentemente di carattere giuridico, Franco Fornari a Milano per quelli di psicanalisi sociale, Giuliano Pontara nel campo della filosofia morale.
L’istituzionalizzazione della ricerca per la pace in Italia ha avuto luogo con molto ritardo rispetto ad altri Paesi; nel 1978 fu fondato da Mario Borrelli e Antonino Drago a Napoli l’Italian Reace Research Institute, associato all’IPRA di Galtung.
Negli anni ’80 emergono nuove importanti personalità come Antonio Papisca a Padova nel campo del diritto internazionale, Rodolfo Venditti a Torino per le istituzioni di diritto militare, e Antonino Zichichi, nella cui scuola di Erice molta attenzione è riservata alle relazioni di esperti da tutto il mondo. Alla fine degli anni ’80 viene fondata la prima istituzione universitaria che si occupa di pace, il Centro interdipartimentale di ricerca universitaria per la pace (Cirup) dell’Università di Bologna, che ha svolto convegni di notevole rilevanza. Ad esso sono seguiti il centro dell’Università di Bari e quello dell’Università di Pisa (Cisp, Centro internazionale di studi sulla pace) <68.
[…] Più precisamente l’educazione alla pace ha come obiettivo un insieme di competenze, di abilità in termini di “saper fare”, agire secondo i principi della nonviolenza in tutte le situazioni, nella sfera privata come in quella pubblica. Tale insieme di competenze viene sintetizzato nel termine in lingua tedesca Friedenskompetenz, competenza di pace, a cui si è già accennato sopra.
Si deve infine osservare che l’educazione alla pace è quell’ambito scientifico della cultura di pace, i cui specialisti vengono maggiormente a contatto con le fasce più lontane dal mondo accademico (ragazzi in età scolare, studenti e adulti coinvolti in progetti e attività mirate) e a cui è di fatto affidata la diffusione di certi contenuti.
Questa disciplina accoglie in sé i principi della ricerca sulla pace, che ne costituiscono la premessa teorica fondamentale, li rielabora secondo una prospettiva pedagogica <81, da cui infine trae il fondamento teorico per il materiale didattico destinato alle attività scolastiche ed educative in generale, e che è pertanto molto articolato e diversificato, seconda sia della fascia di età dei destinatari che dei curricola o dei progetti in cui va ad inserirsi. Si tratta pertanto di un campo disciplinare molto complesso, in cui la comunicazione si realizza a tutti livelli della dimensione verticale del linguaggio, dagli esperti agli educatori fino ai destinatari degli interventi educativi <82.
Importanti istituzioni che si occupano educazione alla pace sono la Peace Columbia University degli Sati Uniti, l’Institut für Friedenspädagogik di Tübingen, l’Instituto de la Paz y los Conflictos dell’università di Granada, il Friedenspädagogisches Zentrum dell’Università di Klagenfurt e molti altri. In Italia si occupano di educazione alla pace il Centro Sereno Regis di Torino, diretto da Nanni Salio, e il Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di Piacenza diretto da Daniele Novara.
Attualmente il centro più grande di studi di pace nel mondo è la Peace Studies University di Bradford.
[…] Tuttavia si deve ricordare come in quegli stessi anni anche Aldo Capitini, filosofo, politico, poeta ed educatore italiano, tra i primi a introdurre il pensiero di Gandhi in Italia, avesse formulato un concetto, il potere di tutti, che molto si avvicina all’empowerment e ne anticipa alcuni principi fondamentali: con il potere di tutti egli indicava una rivoluzione dal basso, nonviolenta, che si realizzasse attraverso un lento processo di presa di coscienza dei propri diritti e che superasse la democrazia rappresentativa in favore di quella partecipativa <293.
Il concetto di empowerment <294 è pertanto legato a un diverso modo di pensare lo sviluppo, lo stesso che a partire dagli anni ’60 porterà a mettere in discussione una crescita economica che si realizza a vantaggio di pochi, escludendo i poveri del mondo, la maggior parte della popolazione del pianeta, sfruttandone il lavoro e le risorse dei rispettivi Paesi (si vedano anche i capitoli dedicati allo sviluppo e allo sviluppo sostenibile).
Il primo documento ufficiale a livello internazionale che si richiama a questo concetto è la Dichiarazione di Alma Ata (URSS), dove ebbe luogo la storica conferenza del 1978 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO – World Health Organization) <295: la presa di coscienza di sé e il coinvolgimento attivo nella vita della società in cui si vive vengono infatti considerati i prerequisiti per la tutela della propria salute.
[…] E’ errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo […]. La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica di guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa, o per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie […].
Aldo Capitini, Il problema religioso attuale, in: Scritti sulla nonviolenza, Protagon 1992, pag. 21.
Bisogna aver ben chiarito che la nonviolenza non colloca dalla parte dei conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte dei propagatori di una società migliore […]. La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata.
Ibidem, pagg. 23-24.
[…]
67 Per l’introduzione del pensiero di Gandhi in Italia tramite Aldo Capitini cfr. Altieri 2003b; cfr. inoltre Capitini 1968 e Capitini 1992.
68 Per questa sintesi delle vicende della ricerca sulla pace in Italia si fa principalmente riferimento alla panoramica offerta da un contributo di Antonino Drago, cfr. Drago 2001, pagg. 79-88.
81 Questo punto di incontro tra la ricerca e l’educazione alla pace è immediatamente percepibile da un veloce esame dei testi di quest’ultima. Si vedano per esempio ancora gli studi di Betty Reardon sulla comprehensive peace education che si sviluppano partendo dai concetti – propri della ricerca sulla pace – di pace negativa e pace positiva (per cui si vedano le voci pace negativa e pace nella sezione “Il lessico” e “Il glossario” della presente ricerca), cfr. Reardon 1988 pag. 11 e segg. e pag. 26 e segg. Un analogo riscontro si può fare per le pubblicazioni di molti altri esperti di questa disciplina, per esempio Werner Wintersteiner, cfr. bibliografia.
82 Per un approfondimento di questo aspetto del linguaggio della cultura di pace cfr. anche il capitolo “La cultura di pace tra lingua comune e linguaggio settoriale” nella sezione “La ricerca terminologica”.
293 Cfr. Capitini 1968.
294 Ci si riferisce qui esclusivamente al concetto, a quell’insieme di studi e di riflessioni, che confluiranno negli anni ’80 nel termine empowerment, come si vede più avanti.
295 Sull’importanza di questo documento per una prima formulazione a livello ufficiale del concetto di empowerment cfr. Wallerstein 2006, pag. 17. La World Health Organization è l’agenzia delle Nazioni Unite responsabile per la salute; fondata nel 1948, conta ora oltre 170 Stati membri.
Manuela Fabbro, I concetti fondamentali della cultura di pace. Una ricerca terminologica, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Udine, Anno accademico 2011-2012

L’esempio più rilevante, almeno per questa fase, di momenti organizzati da gruppi locali venne da una piccola cittadina della Liguria, Bordighera. Nel settembre del 1962 un’associazione locale, l’Unione Culturale Democratica su impulso del professore Raffaello Monti, presidente provinciale dei Partigiani della Pace, si adoperò per fare di un convegno sull’obiezione di coscienza, un vero e proprio evento. Oltre a vari esponenti locali vi parteciparono alcune figure storiche come Segre, Capitini e l’ex-sacerdote don Gaggero, anch’egli esponente dei Partigiani della Pace, e intimo amico di Capitini. Adesioni formali vennero da intellettuali di prestigio come Bertrand Russell, Danilo Dolci, La Pira, i professori Margaria e Luppo dell’Accademia dei Lincei, Alessandro Galante Garrone, Carlo Bo e Livio Pivano dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, e da alcuni deputati: i socialisti Giolitti, Jacometti, Aicardi, Basso, i comunisti Natta, Spano, Luciano Mencaglia, Gismondi. Raffaello Monti, nella sua relazione che affrontò l’obiezione di coscienza sul piano giuridico e filosofico, manifestò la propria autonomia rispetto alla dottrina marxista, concentrandosi su concetti ad essa estranei di «mondo interiore», «coscienza» e «anima»: «Il “non credente” non può giocare a nascondino con la propria coscienza. Il “credente” non può giocare a nascondino con Dio, oltre che con la propria coscienza,» affermò <1005. Il convegno si chiuse con due telegrammi inviati alla Camera dei Deputati ed alla direzione del P.S.I. per sollecitare la discussione del progetto di legge socialista e un telegramma di solidarietà al giovane Luigi Pagliarino allora in carcere.
La ripresa di interesse attorno all’obiezione di coscienza coincise con la riapparizione di una obiezione di coscienza «laica». Nel maggio del 1962 un giovane laureato in giurisprudenza che aveva seguito Danilo Dolci in Sicilia e lavorato nelle “trazzere” con i disoccupati in alcune manifestazioni di protesta, dopo qualche settimana di leva nella divisione “Folgore” in qualità di furiere col grado di sottotenente, rifiutava di imbracciare il fucile nel corso di un’esercitazione affermando davanti ai suoi superiori che «per le sue convinzioni morali non si sentiva di usare un’arma da guerra, salvo nel caso in cui si fosse trattato di difendere la patria aggredita dallo straniero». Similmente al caso di Pinna l’obiezione di coscienza di Gianfranco Ciabatti non era stata immediata, ma maturata progressivamente, a contatto con la vita di caserma <1006. Riaffiorava tuttavia tra le motivazioni quell’autonoma spiritualità religiosa presente nei primi obiettori («Se c’è un Dio, egli non si è dimenticato di noi. Siamo noi piuttosto, che ci siamo dimenticati di lui», scrisse al padre), ma compariva un uso nuovo delle tecniche nonviolente apprese da Ciabatti durante la convivenza con Dolci <1007. Alle pressioni degli ufficiali per desistere dalla scelta egli rispose indicendo uno sciopero della fame. Dopo il consueto periodo di internamento psichiatrico venne processato e condannato a sei mesi. Scontata la pena Ciabatti non proseguì nel suo intento, impedito dalle condizioni di salute, e accettò di prestare il servizio militare.
L’obiezione di Ciabatti, passata del tutto inosservata, manifestò impietosamente lo stato di disorganizzazione in cui versava il vecchio movimento per il riconoscimento sull’obiezione di coscienza.
1005 Rapporto della prefettura di Imperia a Dps e Gabinetto del Ministero dell’Interno, Imperia 22/9/1962 con acclusa relazione di Raffaello Monti in ACS, Mi, Dps, b.186, Cos, fasc. 4. Don Gaggero nel resoconto de «L’Unità» diede invece all’obiezione di coscienza un’interpretazione più ortodossa, dentro un quadro marxista. Egli la giudicava come una forma di riaffermazione del diritto che hanno i popoli alla pace ed al disarmo. Andava intesa come una esigenza collettiva e non come un fatto personale di agnosticismo. «L’obiettore di coscienza come si è presentato in questo dopoguerra», veniva aggiunto «pur non partecipandovi, riconosce la dignità e la grandezza di coloro che combattono violentemente per la conquista della libertà e della giustizia» .G.L. L’obiettore di coscienza e la lotta per la pace, «L’Unità», 10 agosto 1962.
1006 Per il riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza, «L’Incontro», n.5, maggio 1962.
1007 Ciabatti che diversi anni dopo si sarebbe distinto come apprezzato poeta. Lasciò in versi una rappresentazione del suo tormento interiore di quei giorni nella poesia Dal di dentro, pubblicata nel 1985, nella raccolta Preavvisi al reo, Lecce, P. Manni, 1985 ma datata aprile 1962. Anticiperebbe dunque di qualche giorno la reale presentazione dell’obiezione di coscienza:Poiché dobbiamo viverci,/teniamo pulita la nostra prigione,/apriamo i vetri all’aria del mattino/zufolando immemori/che un giorno il sole ci accecherà/e la strada sarà troppo grande, per noi,/tremanti passi di convalescente/deboli sotto la madida pelle./Noi dovremo allora richiamare/gesti antichi alla mente, ricusare/la pace che consente con la legge del silenzio,/tollerare la dura libertà.
Marco Labbate, Op. cit.

Nel 1931 esce in Italia la prima edizione dell’autobiografia di Gandhi, che Capitini legge e diffonde, avviando la riflessione su un’etica della nonviolenza, in profondo contrasto con l’esaltazione della violenza divulgata dal regime fascista.
La nonviolenza costituisce la radice profonda della proposta pedagogica di Capitini: dal momento che essa è insieme strumento di formazione e di riforma sociale, nell’educazione si celebra la sintesi tra il momento di critica della società e quello di costruzione della nuova realtà.
Scrivendo “nonviolenza” in una sola parola, Capitini intende fornirle uno statuto organico, in positivo, superando la concezione di uno stato di “assenza di violenza”. Per accentuare tale significato, utilizza il termine “metodo”, che è di derivazione pedagogica e che viene ripreso dal pedagogista statunitense, allievo di John Dewey, William Heard Kilpatrick, il quale lo utilizza proprio in riferimento al “modo di educare” e di condurre una classe scolastica (Capitini, 1967b, p. 9). Il “metodo nonviolento” definisce, dunque, un insieme di teorie e di prassi, nonché l’idea di un certo ordine nella messa in pratica di alcune tecniche, con una preoccupazione che è, appunto, pedagogica.
In tale approccio vi è il richiamo al primato della pratica diretta, necessaria per un reale impegno trasformativo della realtà, con il rispetto di una condizione fondamentale: la coincidenza di mezzi e fini. L’approccio nonviolento prevede, infatti, un’imprescindibile coincidenza tra di essi; non è possibile raggiungere un fine attraverso un mezzo ad esso contrastante: il fine della pace si realizza solo attraverso la pace.
Come per Gandhi, anche per Capitini i mezzi sono più che strumentali: sono creativi, costruttivi già per se stessi. In tale condizione vi è implicito il rispetto dell’imperativo morale kantiano della critica della ragion pratica di considerare l’altro come fine e mai come mezzo, con la fondamentale intuizione di Capitini che occorre ampliare la sfera di ciò che è fine: la liberazione è un percorso che coinvolge tutti gli oppressi, nel senso più ampio del termine. In questa convinzione è possibile rinvenire le ragioni della proposta di vegetarianesimo avanzata da Capitini.
Di fronte al “realismo” della violenza come strumento inevitabile, vi è, allora, il richiamo etico a far prevalere la volontà di soluzioni più civili ai problemi, attraverso la sperimentazione di nuove metodologie:
“L’intelligenza umana ha dato prova di saper trovare congegni e soluzioni meravigliose; ora, e per di più ispirata da una corrente di amore, non saprebbe risolvere tanti casi che sembrano ardui? [Occorre] richiamarla a questo lavoro, invitarla a trovar soluzioni nuove per il campo della nonviolenza” (Capitini, 1937, p. 127).
Capitini precisa che la nonviolenza, non nascondendo affatto i conflitti, ma in un certo senso mettendoli in luce, si fonda su un fondamentale orientamento che è etico e politico allo stesso tempo:
“Della nonviolenza si può dare una definizione molto semplice: essa è la scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani” (Capitini, 1962b, p. 29).
La nonviolenza si traduce, in definitiva, nella decisione di non uccidere alcun essere umano, né altri esseri viventi, in qualsivoglia contesto.
Tale orientamento non è tuttavia soltanto etico, ma anche politico perché non assume solo i caratteri dell’ahimsa, ossia “non far male”: essa è affidata, invece, anche “al continuo impegno pratico, alla creatività, al fare qualche cosa, se non si può far tutto, purché ogni giorno si faccia qualche passo in avanti” (Capitini, 1967b, p. 12).
Essa deve essere, dunque, “attivissima”, per supplire all’efficacia dei mezzi violenti con il moltiplicarsi di mezzi nonviolenti.
Si tratta, dunque, di un orientamento pratico, etico e politico, che nasce dall’insoddisfazione verso ciò che nella società si costituisce con la violenza e che non può fare compromessi con il mondo così com’è.
La nonviolenza si rende possibile attraverso il concetto gandhiano di Satyagraha, inteso come “tenersi alla verità”, “forza della verità”. Alla “verità” Capitini attribuisce un significato fondamentale. Essa è il valore in sé, il bene in sé e nello stesso tempo la legge morale, ciò che è giusto:
“Siccome i nostri limiti individuali ci impediscono di cogliere questa verità nella sua pienezza, noi ci avviciniamo ad essa instancabilmente soltanto stando aperti a chi è diverso da noi, mediante l’amore per ogni essere, mediante la nonviolenza, e mediante il dialogo” (Capitini, 1967b, p. 20).
In tutta la sua riflessione, Capitini intende contrastare due pregiudizi sulla nonviolenza. Il primo che la vede come inerzia e inefficienza, mentre l’“azione diretta nonviolenta” è proprio un intervento diretto, con una condotta di contrasto, senza violenza. Di fronte alla lotta di liberazione nonviolenta del popolo in gran parte analfabeta in India, Capitini si chiede se c’è qualcuno ancora che possa dire che la nonviolenza è “passiva” o “individuale”, o che non è “adatta alle masse” (Capitini, 1956a, p. 1).
La nonviolenza è, in realtà, uno strumento di lotta, quindi di conflitto.
L’“amico della nonviolenza” non accetta le oppressioni, gli sfruttamenti, le potenze prepotenti esistenti e compie un grande lavoro di “risveglio”, ossia di formazione delle coscienze, di “coscientizzazione”.
Il secondo pregiudizio che Capitini intende contrastare è quello che considera la nonviolenza come una pratica di singoli individui isolati, mentre essa è un metodo di lotta anzitutto collettivo:
“La nonviolenza non è cosa che riguarda soltanto i giusti e le situazioni degli individui; anzi essa allaccia e unisce la gente, affratella moltitudini, e bisogna vederla proprio in questa sua virtù, senza logorarsi troppo nella minuta casistica come se tutto stesse nel rendere o non rendere uno schiaffo, nel liberarsi dal potere di un assassino ecc. C’è ben altro: c’è la grande prassi dell’unire masse con il metodo della nonviolenza, portarle ad essere una forza” (Capitini, 1967b, pp. 30-31).
Occorre che l’individuo non resti solo, ma cerchi instancabilmente gli altri, e con gli altri crei modi di informazione, di controllo, di intervento.
La nonviolenza assume, quindi, le caratteristiche di una rivoluzione permanente che “impegna tutte le energie e tutti i sogni”, in una prospettiva nella quale “non si può accettare che le cose valgano più delle persone” (Capitini, 1956a, p. 6). Il rifiuto di una società iniqua impone, infatti, un atteggiamento coraggioso:
“più volte fino ad oggi sono state fatte ‘rivoluzioni’ […]. Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro ‘rivoluzionari’, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose” (Capitini, 1956a, p. 9).
Marco Catarci, La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Studium Educationis, anno XIII – n. 1 – febbraio 2012, studi e ricerche

In particolare per Lamberto Borghi la relazione con l’alterità assume un orientamento prevalentemente di tipo orizzontale, pur non trascurando la presenza nel suo pensiero, di una sensibilità religiosa esplicantesi nei termini di un sentimento di pienezza e di armonia con la realtà (da L’educazione e i suoi problemi 1953). Un sentire religioso che, partendo da un netto rifiuto per l’istituzione e dal pensiero di Aldo Capitini, lo spinge a far suoi alcuni aspetti del cristianesimo che percepisce come più consoni al suo sentire e vivere l’esistenza: la solidarietà di tutti gli uomini nell’essere, come diceva Capitini, “crocefissi nei limiti di una realtà”, l’esigenza di un’universale redenzione, la resurrezione di tutti in una realtà nuova.
[…] Oltre che del Dewey, Lamberto Borghi si ritenne per tutta la vita debitore del filosofo e pedagogista Aldo Capitini, dal quale apprese, quasi per via osmotica, lo spirito esistenzialista, l’anelito alla solidarietà e uguaglianza tra gli uomini, il primato della libertà e la polemica con la realtà “così com’è”, la visione di una pedagogica antidogmatica e anticonformista, il concetto di educazione come tensione e liberazione <196, ma anche il sentire religioso che, partendo da un netto rifiuto per l’istituzione, lo spinse a far suoi alcuni aspetti del cristianesimo che percepiva come più consoni al suo sentire e vivere l’esistenza: la solidarietà di tutti gli uomini nell’essere, come diceva Capitini, “crocefissi nei limiti di una realtà”; l’esigenza di un’universale redenzione; la resurrezione di tutti in una realtà nuova. Egli riteneva necessaria “la moltiplicazione” di Gesù per tutti gli uomini. Cioè l’estensione a tutti della sua esperienza di sacrificio e di rinascita. <197 Netto, però, il rifiuto per il privilegio, l’autorità e la pretesa di potere da parte di chiuse istituzioni, sia la Chiesa che lo Stato.
Da Capitini Borghi attinse anche l’apertura verso l’eredità del pensiero umanistico, considerato portatore di libertà contro ogni dogmatismo e oppressione di uomini su altri e di fiducia nel progressivo sviluppo del mondo <198, nonchè promotore dell’idea che “nessuno ha il privilegio di ciò che è spirituale”, perché questo è alla portata di tutti, della libera e attiva coscienza, fucina di valori.
196 Cfr., Capitini A., (1951), L’atto di educare, La Nuova Italia, Firenze, p.5.
197 Borghi L., (2000), La città e la scuola, Fofi G. (a cura di), Milano, Eleuthera, p.79.
198 Capitini A., (1955), Religione aperta, Guanda, Parma, pp.12-13.
Maria Chiara Castaldi, Personalismo e pragmatismo pedagogico: due forme di narrazione pedagogica a confronto. Ipotesi di un incontro possibile, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno accademico 2012-2013

La conflittualità del mondo contemporaneo, che nell’attuale fase storica sembra ricevere ulteriore impulso dalla spirale di violenza innescata dal binomio terrorismo-guerra, impone l’esigenza di approntare strumenti adeguati non solo alla risoluzione dei conflitti, ma anche alla loro prevenzione. Torna dunque d’attualità la nonviolenza come strategia politica, che ha trovato in Aldo Capitini un deciso sostenitore. Il presente contributo ripercorre le fasi salienti della sua esperienza, orientata alla diffusione della dottrina nonviolenta in Italia, e ne evidenzia l’impegno volto ad approfondire le questioni teoriche connesse al metodo nonviolento e ad aggiornare le tecniche di lotta sperimentate da Gandhi. È un messaggio di pace, che costituisce ancora un valido antidoto alla barbarie.
[…] Nato a Perugia nel 1899, Aldo Capitini vive indirettamente il dramma della Grande guerra, dapprima partecipando all’entusiasmo patriottico, da cui discende la delusione per essere stato riformato, e successivamente, dopo aver valutato gli effetti della carneficina bellica, allargando i suoi orizzonti culturali (fino ad allora limitati alla passione giovanile del futurismo). Una volta liberatosi da ogni avanzo di nazionalismo, abbraccia il pacifismo ed il socialismo integrandoli in un complesso sistema di pensiero, forgiato nella fede cattolica ed ostile ad ogni forma di autoritarismo, che sarà destinato ad arricchirsi ulteriormente attraverso una laurea in filosofia e la conoscenza della lotta di Gandhi contro gli inglesi per l’indipendenza dell’India.
L’opposizione al fascismo e la rottura con la Chiesa, maturata in seguito ai Patti Lateranensi del 1929, rafforzano la sua tendenza all’isolamento, frenata in parte dalla vita universitaria: alla Normale di Pisa, dove era stato chiamato da Gentile, che poi l’avrebbe allontanato per aver rifiutato di aderire al Partito fascista, Capitini conosce Guido Calogero con il quale fonda il movimento liberal-socialista che, rispetto al socialismo liberale di Carlo Rosselli, più moderato ed intriso di elementi liberisti, è caratterizzato dalla nonviolenza e da una visione integrale del socialismo, che superi il comunismo sovietico apportando a quel sistema il valore della libertà. Ciò spiega sia la sua posizione defilata durante la Resistenza, considerata incompatibile con il suo metodo di lotta, sia la decisione di non entrare in alcuna formazione politica, nemmeno nel Partito d’Azione che, ispirato dalle idee di Rosselli, raccoglieva la parte laica dell’intellettualità e della classe politica antifascista non-comunista.
Arrestato dal regime fascista e liberato dopo la caduta di Mussolini, Capitini vive in clandestinità fino alla liberazione di Perugia, nell’estate del ’44, quando fonda i COS (“Centri di orientamento sociale”), che diventano la struttura organizzativa del suo movimento. Dopo la Liberazione organizza decine di convegni sui temi della nonviolenza, della disobbedienza civile e della religione, tanto da fondare i COR (“Centri di orientamento religioso”), che diventano luoghi importanti di dibattito e di organizzazione.
Nel 1948 incontra Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza italiano (all’epoca, dunque, renitente alla leva), il quale, dopo aver scontato in carcere la sua pena, diventa il principale collaboratore di Capitini con cui fonda il “Movimento Nonviolento”. L’impegno di quest’ultimo culmina nella marcia Perugia-Assisi, nel 1961, che si ispira al modello delle marce pacifiste guidate da Bertrand Russell in Inghilterra. L’iniziativa, che viene realizzata in un periodo di altissima tensione internazionale, determinata dal tentato colpo di stato americano a Cuba e dalla costruzione del Muro di Berlino, segna la ripresa del pacifismo dopo la scomparsa dei “Partigiani della pace” e fornisce a Capitini una tribuna formidabile che gode dell’appoggio di alcuni partiti (comunisti, socialisti, sinistra cristiana), garantendo una cassa di risonanza al suo pacifismo equidistante, contrario sia alle guerre russe che a quelle americane, ostile ad ogni ipotesi di riarmo, favorevole al disarmo, anche unilaterale: posizioni che, vent’anni più tardi, saranno riprese dal nuovo movimento pacifista in lotta contro gli euromissili.
[…] D’altra parte, Capitini vedeva nel comunismo una fase indispensabile da raggiungere e superare, mantenendo una posizione critica nei confronti del sistema sovietico, giudicato una nuova forma di dominio da parte di un partito che soffoca la libertà dell’individuo ed impone l’ideologia dello “Stato etico”. Il giudizio sull’Unione Sovietica, ritenuta l’“assoluto del potere”, era speculare a quello pronunciato nei confronti degli Stati Uniti, considerati l’“assoluto del benessere” per la tendenza di quella società a cercare nel solo benessere la liberazione dell’individuo, con la conseguente esaltazione dell’egoismo come valore.
Un altro obiettivo polemico di Capitini era il pacifismo, che nell’Italia dell’epoca era una forma di difesa, limitato ad offrire una risposta passiva e non attiva, mentre ciò che Capitini predicava era l’impegno in direzione di un cambiamento e non del mantenimento dello status quo: il suo obiettivo non era il pacifismo, ma la pace, da perseguire mediante l’adozione di metodi nonviolenti.
Il sistema di pensiero elaborato da Capitini è incentrato, infatti, sul concetto fondamentale di nonviolenza, interpretato soprattutto come rifiuto del potere e come via per una riforma, non solo politica, ma anche spirituale, che approdi ad un sistema politico originale, definito omnicrazia. Il termine, che significa “potere di tutti”, delinea un traguardo ambizioso che presuppone l’affermarsi di una dottrina di nonviolenza attiva, intendendo la nonviolenza non solo come tecnica di lotta, ma come valore e metodo di organizzazione sociale. La contiguità tra potere e violenza, teorizzata da Capitini, lo spinge a formulare una critica anche verso la democrazia, perché la nonviolenza impone di sostituire ogni forma di potere, anche quello fondato sul principio di maggioranza, con il governo di tutti (l’omnicrazia, appunto), immaginato come una forma di democrazia diretta dove la persuasione conta più delle regole formali.
Nonviolenza, quindi, come tecnica di lotta, valore, metodo di organizzazione sociale e fine in sé, capace di permeare ogni aspetto della vita associata secondo un’idea attiva e rivoluzionaria, che persegua la realizzazione non di una pace tradizionale, ma di una pace concepita come il punto di arrivo di un percorso volto a modificare gli assetti di potere. In altri termini, Capitini non tollera che si possa parlare di pace in un mondo popolato da dittature e solcato da squilibri sempre maggiori tra paesi ricchi e paesi poveri; per questo motivo ritiene giusto ribellarsi, e per farlo reputa necessario elaborare metodi che spezzino il circolo vizioso che rinnova la violenza all’infinito.
Così avviene il passaggio dalla “dottrina politica” alla “militanza”, cioè all’attuazione pratica delle idee elaborate seguendo l’esempio di Gandhi, alla nonviolenza intesa come strategia d’azione che si concreta in un repertorio di tecniche, raccolte da Capitini in un prezioso volumetto <3.
[…] Le comunità francescane rappresentano, secondo Capitini, l’archetipo della comunità nonviolenta, quelle che storicamente hanno attuato, almeno nell’ambito del Cristianesimo, i principi nonviolenti traducendoli in un corpus di regole scritte che prescrivono, tra l’altro, il divieto di portare armi e l’obbligo di fare la pace con i nemici.
Fatta questa premessa, possiamo ora concentrarci sull’elenco di tecniche collettive che, come è stato anticipato, presuppongono l’esistenza di tecniche individuali e, come queste, sono create da singoli individui, ma in vista dell’associarsi di molti altri. Nel “manuale” di Capitini sono presentate secondo questo ordine: marcia, sciopero, boicottaggio, sabotaggio, disobbedienza civile.
La marcia è una manifestazione antichissima, che affonda le sue radici nella forma religiosa del corteo o della processione: è definita come «una manifestazione dal basso, al livello minimo, che tende a comprendere tutti, è assolutamente nonviolenta, cioè priva di armi e opposta perciò alla sfilata militare, tende ad essere antiautoritaria […] è il simbolo della moltitudine povera» <6. Il fascino di questa forma di protesta va rintracciato nella sua capacità di unire persone di diverso orientamento e nel fatto che si traduce in un esercizio fisico rilassante senza prevedere un coinvolgimento intellettuale, come lo stesso Capitini sperimentò in occasione della prima Marcia della pace, promossa nel 1961 dal “Centro per la nonviolenza” di Perugia.
Il buon esito di una marcia prevede il rispetto di alcune norme essenziali, quali: la scelta di un “capomarcia” e di alcuni “capifila” affinché la manifestazione possa svolgersi ordinatamente; il divieto di gridare slogan o conversare poiché sono comportamenti che possono generare confusione, mentre è preferibile dare l’impressione di unità marciando in silenzio o cantando in coro.
Lo sciopero, tra le più note e diffuse tecniche nonviolente di tipo collettivo, è prima di tutto una forma di non-collaborazione, che solitamente riguarda i lavoratori che sospendono il lavoro per ragioni salariali <7. Essendo un diritto legalmente riconosciuto, Capitini sostiene che la società deve essere in grado di pagarne il costo, ricevendo in cambio l’evoluzione delle lotte da modi violenti a modi nonviolenti e l’ascesa di classi che si trovano in condizioni inferiori. Capitini fornisce un’interessante articolazione di questa modalità di lotta distinguendo: lo “sciopero della fame”, che abbiamo annoverato tra le tecniche individuali parlando del digiuno; lo “sciopero a rovescio”, che consiste in un lavoro volontario non pagato e che fu attuato da Danilo Dolci a metà degli anni ’50, quando guidò un gruppo di disoccupati di Partinico, in Sicilia, a ripristinare una vecchia strada abbandonata; lo “sciopero di zelo”, che si traduce in una pedantesca osservanza dei regolamenti; lo “sciopero a singhiozzo”, che alterna periodi di lavoro a brusche interruzioni; lo “sciopero a scacchiera”, che interessa, in tempi successivi, diversi settori dell’azienda; lo “sciopero bianco”, nel quale i lavoratori rimangono nella fabbrica, ai posti di lavoro, ma “a braccia incrociate”; lo “sciopero simbolico”, che è la sospensione concertata del lavoro per un minuto. Lo sciopero, infine, diventa “hartal” quando non soltanto viene abbandonata la fabbrica, ma anche le strade ed i luoghi di ritrovo, e gli scioperanti restano nelle proprie case (particolarmente apprezzato da Gandhi, perché consentiva di evitare incidenti e, al tempo stesso, di dedicarsi alla meditazione domestica).
Anche il boicottaggio <8 rientra nelle tecniche che si richiamano al principio della non-collaborazione: mentre lo sciopero consiste nel non collaborare mediante il proprio lavoro, il boicottaggio significa non collaborare economicamente, ovvero interrompere i rapporti commerciali con certi gruppi o certe nazioni che vendono determinate merci. Tale forma di protesta può essere attuata, ad esempio, non frequentando alcuni esercizi commerciali o non servendosi dei trasporti pubblici. Un elemento importante della campagna di Gandhi in India fu proprio il rifiuto di acquistare i tessuti fabbricati in Inghilterra con il cotone indiano e poi venduti sul mercato indiano. Un altro esempio di boicottaggio è quello praticato da Martin Luther King, che invitò i neri americani a protestare contro le discriminazioni sui mezzi pubblici disertando in massa tali servizi.
[…] L’esperienza di Aldo Capitini, da considerarsi esemplare nel quadro di una storia della teoria e della pratica della nonviolenza, conferisce al militante umbro una posizione di indiscusso primato nell’ambito delle lotte nonviolente condotte in Italia, benché il contesto italiano sia particolarmente ricco di figure prestigiose che hanno dato un enorme contributo alla causa della pace e della nonviolenza, quali Don Primo Mazzolari, Padre Ernesto Balducci, Pietro Pinna, Danilo Dolci ed altri ancora.
3 A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano 1967
6 A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, op. cit., p. 103
7 L’etimologia stessa del termine “sciopero” deriva dal latino “ex operare”, che ha il significato di aver finito di lavorare o di abbandonare il lavoro deliberatamente.
8 Il termine deriva dal nome di un irlandese, il signor Boycott
Andrea Coppi, Aldo Capitini, profeta della nonviolenza, Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, 11, 2015