Cà da Roca

Realdo, Frazione di Triora (IM) – Fonte: Wikipedia

Il mio Realdo ha inizio nei primi anni della mia infanzia.
La mia bisnonna una Lanteri Lianó era di lì originaria.
Sono salita al paese sull’orrido quando la strada si fermava prima dei Carmeli.
Ho un ricordo vivido del sentiero tra i carpini, del ponte a schiena d’asino sul torrente e della risalita tra felci e muschi.
Era come entrare in una favola.
Ero una bambina.
Tornata più volte poi per accompagnare il nonno ad abbeverarsi alle sue origini negli anni più avanti.
Il forno comune era ancora affollato di teglie e di pane.
In passato era uso cuocere a turno il pane.
Un via vai di fascine e legna per alimentarlo.
Il piatto più povero e più ricorrente erano “Le patate ‘ne la föglia”.
Patate a fette con crema di latte e poca farinamesse in una teglia (foglia) coperta con un vecchio coperchio annerito dall’uso, su cui veniva messa della cenere calda.
Il profumo che sapeva di vita percorreva e si infilava in tutti i carruggi.
Ho potuto godere di quei gusti antichi cotti ancora nel Vecchio Forno.
Un paese ormai come tanti in cui gli occhi delle case sono tutti spenti.
Un silenzio assordante abbraccia e abita tutte quelle case addossate le une alle altre quasi per tenersi reciprocamente in piedi.
Solo il canto struggente di una vecchia fonte, la cui acqua ha benefiche proprietà, tenta di raccontare un passato di povertà estrema da cui erano stati costretti a fuggire.
Solo gli ultimi vecchi hanno resistito per fare l’ultimo viaggio al cimitero poco lontano.
Tenera la piccola piazzetta dal nome dei suoi abitanti più assidui: piazza Rospi.
Un fascino non traducibile a parole quando la neve caduta abbondante ne cancella i danni del tempo.
Succede allora di rimanere impigliati in un incantesimo.
Si è attratti da una forza sconosciuta a inoltrarsi su quei sentieri immacolati verso il bosco, subito fuori l’abitato, per riprendere il dialogo interrotto con la natura, da cui ci siamo allontanati per seguire il rumore assordante delle città.
Gris de lin