Bologna è una donna emiliana di zigomo forte

Bologna: San Petronio. Fonte: Visitaly

Anche Francesco Guccini in uno dei suoi primi brani, “Venerdì Santo” (in Folk Beat n.1, 1967) ricorda non tanto il soundscape quanto lo smellscape della Settimana Santa bolognese:
“Venerdì Santo, prima di sera, /c’era l’odore di primavera.
Venerdì Santo, le chiese aperte / mostrano in viola che Cristo è morto.
Venerdì Santo, piene d’incenso / sono le vecchie strade del centro,
o forse è polvere che in primavera / sembra bruciare come la cera”.
Tornerà su questo tema molti anni più tardi, nel romanzo autobiografico dedicato alla città: “Cittanova Blues”: “Fuori la primavera starnazzava ancora di calore e di pioppi e sotto i portici foste inondati dalla cera delle candele della chiesa aperta per venerdì santo. A tracolla della strada c’erano ornamenti, apparati e drappi degli Addobbi <100 che sventolavano festosi” (Guccini 2003, p. 63).
Proprio a Francesco Guccini si deve la più famosa tra le canzoni dedicate alla città: “Bologna”. Prima di analizzare questo testo si rende però necessaria una premessa biografica.
La famiglia Guccini si trasferisce a Bologna da Modena nel 1961, in modo assolutamente casuale, come racconta lui stesso: “Una sera, a cena, mio padre raccontò di un suo collega bolognese che voleva trasferirsi a Modena ma non trovava nessuno che volesse fare il cambio con lui. Allora io dissi: ‘Perché non ci andiamo noi, a Bologna?’. Sulle prime mio padre rimase interdetto, poi si cominciò ad abituare all’idea. Del resto a Bologna lui aveva studiato, era più vicina a Pàvana anche come mentalità, perché da sempre la mia montagna è orientata su Bologna anche se è in provincia di Pistoia. Insomma a Bologna si respirava forse un’altra aria, più familiare” (Cotto 1999, p. 44).
Bologna rappresenta per lui, dunque, il nuovo, l’ignoto (sebbene sia la città in cui già studia e suona con gli amici), ma anche un avvicinamento alla sua montagna, un luogo tendenzialmente più familiare, e quindi più desiderabile e rassicurante, in cui probabilmente gli sembra meno difficile potersi radicare.
Per Bologna, come vedremo, Guccini saprà anche usare parole affettuose, che credo possano ritenersi delle vere e proprie spie di una raggiunta existential insiderness. Così mi ha recentemente raccontato: “Bologna era anche quei miei amici delle villeggiature estive tra Pàvana e Porretta Terme, ragazzi e ragazze che mi parlavano di una città, come dire, più città della mia, loro stessi più cittadini, con più cose da raccontare, scuole dai nomi sconosciuti ma per questo quasi fascinosi: Minghetti, Galvani, Pier Crescenzi. E una mitica squadra di pallacanestro, la Virtus, musica jazz nei teatri e nelle cantine, passeggiate e ‘vasche’ sotto ai portici del Pavaglione, in Piazza Maggiore, in via Indipendenza”.
L’approccio con il capoluogo emiliano è descritto nel capitolo conclusivo di “Vacca d’un cane”, dove si legge: “I primi tempi, in quella Città Nuova, non conoscevo bene le distanze, e percorrevo deambulavo spazi incredibili: sapevo che da casa mia a S. Faustino, nella Città della Mòtta […] c’era il mondo, e che se decidevo metti di accompagnare a casa quella tal mina [termine modenese per “ragazza”] che sgobava in centro mi ci volevano un paio d’ore, ritorno compreso. Lì non sapevo: dall’Università prendevo un ponte che portava fuori e mi trovavo, mi sembrava, alla periferia di Milano, un gasometro binari del treno e palazzoni popolari. Oppure giravo per strade buie e labirintiche e di pacca non so come mi ritrovavo praticamente a Parigi, piazzetta coi banchi di frutaròli e alberi, fontana e così via, in una scoperta continua di una città sconosciuta in mattinate o pomeriggi solitari e affascinanti, da ozioso immigrato, da turista. Certo, non solo non ero mai stato a Parigi, ma anche Milano, dettagli secondari, mi amancava; è che mi sembrava così, senza sapere bene come, annusavo odori diversi, scrutavo facce nuove. Anche la polvere danzava in maniera differente” (Guccini 1993, pp. 131-37).
E ancora: “Uno dei primi giorni, sotto alle due Torri, con un amico incontrammo un ragazzo, un suo conoscente. ‘Ti presento Adriano – mi disse – è un poeta’. Non ‘scrive poesie’ o ‘gli piacerebbe fare’, così: ‘poeta’. Nella mia città non sarebbe forse mai successo e quel giorno capii tante cose del carattere dei Bolognesi. Non a caso mi sono fermato qui, e Bologna, ormai sentita come la mia città, è quella nella quale ho vissuto più a lungo” <101.
Con il gusto della scoperta, con l’atteggiamento curioso e attento dell’osservatore partecipante il giovane Francesco percorre dunque la città, in cerca di odori, colori e sapori che, da nuovi, diverranno presto familiari e amati.
Attraverso questi oziosi e affascinanti itinerari geopoetici, e con l’aiuto dei nuovi amici radicati esistenziali, Guccini arriverà a sviluppare quegli atteggiamenti topofiliaci che faranno di lui un insider, spesso addirittura indicato come simbolo musicale e intellettuale della città stessa.
È in questo contesto che nasce “Bologna” (in Metropolis, 1981) brano che è insieme “omaggio e rimprovero, scherma e fioretto […] dunque la sintesi del bene e del male ma mai dell’odio che per lei non ho mai provato” (Cotto 1999, pp. 115-117), in cui la città è vista secondo una prospettiva ambivalente, attraverso metafore geografiche decisamente calzanti arricchite da coppie di aggettivi usati in modo ossimorico, quasi nel tentativo di risolverne verbalmente le insanabili contraddizioni.
“Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli
col seno sul piano padano ed il culo sui colli
Bologna arrogante e papale / Bologna la rossa e fetale
Bologna la grassa e l’umana, / già un poco Romagna e in odor di Toscana.
Bologna per me provinciale Parigi in minore
mercati all’aperto, bistrots della “rive gauche” l’odore
con Sartre che pontificava, / Baudelaire fra l’assenzio cantava
ed io, modenese volgare, / a sudarmi un amore, fosse pure ancillare.
Però che bohème confortevole, giocata fra casa e osterie
quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie
oh, quanto eravamo poetici, / ma senza pudore o paura
e i vecchi “imberiaghi” sembravano la letteratura
oh, quanto eravam tutti artistici, / ma senza pudore o vergogna
cullati fra i portici-cosce di mamma Bologna.
Bologna è una donna emiliana di zigomo forte,
Bologna capace d’amore, capace di morte
che sa quel che conta e che vale / che sa dov’è il sugo del sale
che valuta il giusto la vita, / e che sa stare in piedi per quanto colpita.
Bologna è una ricca signora che fu contadina
benessere, ville, gioielli e salami in vetrina
che sa che l’odor di miseria / da mandare giù è cosa seria
e vuole sentirsi sicura / con quello che ha addosso, perché sa la paura.
Lo sprechi il tuo odor di benessere / però con lo strano binomio
dei morti per sogni davanti al tuo Santo Petronio
e i tuoi bolognesi, se esistono, / ci sono od ormai si son persi
confusi e legati a migliaia di mondi diversi?
ma quante parole ti cantano / cullando i cliché della gente
cantando canzoni che è come cantare di niente.
Bologna è una strana signora, volgare e matrona
Bologna bambina per bene, Bologna busona
Bologna ombelico di tutto, / mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto
rimorso per quel che mi hai dato, / che è quasi ricordo, e in odor di passato”.
Come un settecentesco vedutista specializzato in capricci paesaggistici, Francesco ritrae la città attraverso l’accostamento, che si fa quasi giustapposizione, di elementi anche molto diversi tra loro, belli e brutti, ritratti con realismo così lucido che ben poco spazio viene lasciato al sogno e alla libertà di fantasticare ripescando emozioni e sensazioni nei paesaggi della memoria. Insomma, il brano non mi convince del tutto e ho la sensazione che manchi qualcosa, forse proprio quei filtri della fantasia e della magia che Francesco applica alla sua lettura di Pàvana e che esprimono chiaramente la sua home-insiderness. Credo di poter ravvisare in questa canzone una spia del suo non completo radicamento, tanto da ritenere applicabile al Guccini bolognese la categoria geoumanistica di away-insider: si potrebbe allora considerare abitante affezionato alla sua città (insider), ma credo che egli continui a percepirla in qualche modo come estranea (away), soprattutto quando si ritrova a confrontarla con la sua amata montagna.
Francesco utilizza qui immagini metaforiche, tutte incentrate su un filo conduttore di tipo femminile: la città è vista infatti prima come “una vecchia signora dai fianchi un po’ molli”, poi come “una donna emiliana di zigomo forte”, “una ricca signora che fu contadina” e infine come “una strana signora, volgare e matrona/ Bologna bambina per bene, Bologna busona”. Ma è anche una “mamma” che culla i suoi figli tra i suoi “portici-cosce” <102 e “ombelico di tutto”, quindi centro, cerchio, rotondità che secondo la fenomenologia ci aiuta a “raccoglierci su noi stessi, a dare a noi stessi una prima costituzione, ad affermare il nostro essere intimamente, a partire dal dentro” (Bachelard 1975, p. 255). Ed ecco allora che la canzone si configura come il canto di un figlio per una città-madre (che è diversa dalla terra-madre, dall’archetipo della Mutter-Erde che è privilegio tutto pavanese) che si vuole ritrarre come realmente la si riconosce, “al di là dei cliché celebrativi” (Pattavina, 2000, p. 159).
Mamma, dunque, non matrigna, con tutte le implicazioni psicologiche che la scelta del termine comporta. Una bella descrizione, intimistica ed un poco inquietante, ma in cui si ravvisa l’atteggiamento non topofobico di chi quei luoghi conosce così bene da non farsene più spaventare, è contenuta nel romanzo scritto con Loriano Macchiavelli “Questo sangue che impasta la terra”. Raccontando un viaggio a Bologna del maresciallo Santovito, recatovisi per far visita ad un avvocato mentre in Piazza Maggiore la folla è assiepata per ascoltare un discorso del Duce, gli autori scrivono: “La città è piena di sorprese se solo si riesce a guardare dietro le quinte. […] Adesso il vento non gli porta più l’eco degli altoparlanti e la città è di nuovo viva di passanti ma silenziosa e avvolta in una nebbia fredda e umida che appanna i contorni dei portici, s’infiltra negli androni e confonde le sagome. C’è qualcosa di drammatico nel silenzio che quella nebbia copre quasi a proteggere segreti che Bologna fa di tutto per tenere nascosti nelle pieghe delle vie, nella penombra dei portici, dietro le facce dei palazzi” (Guccini e Macchiavelli 1998, pp. 186-190). Dunque una città nemica e paurosa per l’outsider, ma piacevolmente misteriosa per l’insider che è in grado di indovinarne ogni angolo sotto la magica coltre di nebbia e sembra conoscerne anche i più intimi segreti.
Analoga descrizione di una Bologna velata dalla nebbia è contenuta anche nell’ultimo romanzo scritto con Macchiavelli, “Tango e gli altri”: “Alla stazione lo accoglie di muovo la nebbia di Bologna, tutto avvolgente, tutta fagocitante. Per rivedere altre parti della città, decide di non fare le stesse vie dell’altra volta e, arrivato a Porta Galliera, prende per Indipendenza e fiancheggia il Liberty della Montagnola, i cui fanali, resi fiochi dalla caligine, lasciano scorgere le generose forme di quell’immagine femminile che i Bolognesi, argutamente e con malizia, chiamano ‘la moglie del Gigante’ di modo che anche il Nettuno del Giambologna, per simpatia ruffianesca dei ‘grassi’ concittadini, ha trovato una compagna. Con calma si fa tutta la dritta arteria fermandosi a guardare le vetrine, tanto ha tempo, e si rituffa un poco nella città, dopo il suo esilio sui monti. Una vita totalmente immerso nella frenesia urbana non gli piacerebbe, ma semel in anno, si dice, non gli dispiace del tutto. Un’occhiatina alle vetrine illuminate, ma soprattutto gli piace guardare le facce e i modi delle persone che lo sfiorano di fretta per andare dove ciascuno ha una meta, importante o frivola. All’incrocio con Ugo Bassi e Rizzoli, l’antica via Emilia, si ferma per uno sguardo a Piazza Maggiore, oltre la fontana del Nettuno. Poi attraversa e lo coglie, come sempre gli accade, la maestà della piazza, e soprattutto la bellezza incompiuta di San Petronio, resa ancora più affascinante dalla fumana bucata dalla luce dei lampioni” (Macchiavelli e Guccini 2007, pp. 232-233).
Ma torniamo alla canzone, dove non mancano significativi elementi di topoanalisi, come l’essere “col seno sul piano padano ed il culo sui colli” o “già un poco Romagna e in odor di Toscana”, “ricca signora che fu contadina/benessere, ville, gioielli e salami in vetrina” in cui i “bolognesi, se esistono, ci sono od ormai si son persi / confusi e legati a migliaia di mondi diversi”. A questo proposito voglio citare un aneddoto raccontatomi da Francesco: “Ma esistono ancora poi, i Bolognesi? Una sera, in una trattoria cittadina, assieme ad un branco di amici, tentammo l’esperimento: – Chi è davvero bolognese-bolognese?-. Sarà stato un caso, ma nessuno di noi, bolognesissimi di sentimenti, lo era realmente”. E una sera “ho sentito, in un bar notturno, un ristoratore umbro ed un rappresentante ciociaro discutere a lungo e appassionatamente: – Domenica il nostro Bologna non può perdere -. – Il vostro Bologna? – ho ironizzato. -Certo! – mi hanno risposto con serena sicurezza”.
[NOTE]
100 Festa che colpì molto piacevolmente anche Giacomo Leopardi in uno dei suoi soggiorni bolognesi, tanto che la descrive in una lettera al padre datata 18 luglio 1826.
101 Archivio privato di Francesco Guccini.
102 “A Bologna, i portici, gli archi, le cupole, tutto fa pensare a una rotonda carnosità”, annota Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”. In pochi altri luoghi come a Bologna, e in genere in Emilia, si avverte una simile convergenza fra il paesaggio costruito e un paesaggio volatile, fatto di atmosfere, sapori, gusti, sensazioni di placido benessere. Bologna è città ‘coperta’, in cui la ritmica sequenza delle volte porticate (13-16) accompagna e protegge i passi del viandante” (Emiliani 2000, p. 176). Un’altra bella interpretazione dei portici, non solo di Bologna ma di tutte le città emiliane è data da Roberto Barbolini: “una specie di lungofiume che costeggia la via Emilia e, inquadrando il paesaggio fra le sue arcate regolari, lo disciplina, fornendolo in dettaglio agli ingrandimenti e agli svisamenti di quella forma particolarmente selettiva d’amnesia che chiamiamo memoria” (Barbolini 2004, p. 14).
Stefania Bettinelli, Paesaggi di note: Bologna città della musica, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Bologna Alma Mater Studiorum, 2007