Agli inizi degli anni ’70 la terra e la fabbrica, i due simboli che avevano tenuto insieme per decenni la società civile lombarda, andavano scomparendo

La «borghesia di Stato» era favorevole invece allo sviluppo di una società democratica neocapitalistica con elementi di programmazione e riforme sociali selezionate. Il fulcro ideologico di questo ceto manageriale finiva per coincidere con quello di dirigenti e alti funzionari democristiani per via della comune formazione all’Università Cattolica: ecco perché i discorsi di uomini così diversi come Enrico Mattei ed Eugenio Cefis evidenziavano sempre un’insistenza sulla complementarietà tra efficienza tecnocratica e soddisfacimento dei bisogni sociali, sulla cooperazione tra capitale, lavoro e Stato, in una cornice economica liberista, corretta da alcuni elementi di programmazione e di controllo dei monopoli <491.
Al di là delle belle parole, l’habitus economico della «borghesia di Stato» non fece altro che legittimare la gestione di partito dell’economia, con la spesa pubblica che, utilizzata come strumento di potere, ben presto portò alla degenerazione dell’intero settore pubblico, con l’efficienza manageriale non più subordinata a «più ampie finalità sociali» ma a ristretti obiettivi di partito e interessi corporativi <492. Furono plasmate in questo periodo di espansione economica e di trasformazione dell’assetto industriale, a prima vista in senso «progressista», le fondamenta della «questione morale» posta anni dopo dal segretario del PCI Enrico Berlinguer.
Le imprese private dal canto loro contribuirono a questa trasformazione con il loro atteggiamento miope nei confronti del movimento operaio, assunto anche da quelle più “moderne”, opponendosi a qualsiasi tipo di riforma strutturale sia in campo sociale sia in campo urbanistico e finanziario. Tale miopia alla fine si ritorse contro di loro, perché il contenuto delle mancate riforme sociali divenne parte integrante delle rivendicazioni sul fronte salariale della classe operaia, data l’assenza di un welfare state all’altezza <493.
La totale sconfitta dell’anima reazionaria-conservatrice legata al vecchio gruppo di potere confindustriale vi fu in occasione della vertenza sindacale del 1960 che riguardava gli elettromeccanici, con un’inedita alleanza Fiom-Cgil e Fim-Cisl che venne inaugurata durante le proteste di piazza contro il governo Tambroni, nato con il voto dei neofascisti del Movimento Sociale Italiano. Il massiccio dispiegamento di opinione pubblica contro il ceto imprenditoriale a favore dei lavoratori, che videro dalla propria parte anche la diocesi di Milano col Cardinal Montini sconfisse la tradizionale borghesia milanese e lombarda – manzoniana in etica e politica, calvinista negli affari – imponendole costi tali da spingerla alla diserzione, con la fuga dei capitali e la recessione pilotata del 1964-1965, fino al declino. Tuttavia, ben lungi come credevano le avanguardie social-comuniste dei lavoratori di un rovesciamento sociale, alla vecchia classe padronale se ne sostituì una nuova, più moderna ed elastica della precedente, con il risultato però che i centri decisionali si spostarono altrove. Non solo: la classe operaia nel suo complesso aveva sì ottenuto diritti fondamentali per tutti ma iniziava a subire il fascino della liberazione dalla fatica e dalla disciplina del lavoro di fabbrica. <494
In poco più di un decennio la capitale morale mutò fisionomia sia a livello urbanistico che sociale, diventando una megalopoli variegata dove l’addensamento della popolazione e la diffusione di una miriade di attività produttive e di intermediazione provocarono un’urbanizzazione diffusa e caotica, di cui era punta ed esempio la proliferazione delle coree, interi quartieri di casette costruite abusivamente su terreni agricoli nella cintura esterna della città. Nella fascia pedemontana questo continuum urbanizzato e omologato di Milano che inglobava il suo hinterland arrivò ad annullare in toto la rilevanza dell’agricoltura e quasi completamente gli aspetti rurali del paesaggio <495. A livello sociale, il popolo lombardo era cambiato non solo per composizione etnica, con gli immigrati redistribuiti in tutta la regione, ma anche per reddito e consumi, con un’omologazione sociale e culturale ai modelli americani che fece presa anche nella Lombardia più profonda, nonostante la persistenza del radicamento religioso e dell’associazionismo cattolico <496.
Agli inizi degli anni ’70 la terra e la fabbrica, i due simboli che avevano tenuto insieme per decenni la società civile lombarda, andavano scomparendo in concomitanza a una frammentazione sia della società civile che del capitale, che passava dall’essere stabilmente concentrato in poche famiglie industriali ad assumere una struttura molecolare <497.
Il ruolo di Cuccia e di Mediobanca nell’economia italiana
Nel ripercorrere le vicende dell’economia milanese, e quindi italiana, non si può però a questo punto non introdurre nell’analisi un attore di primo piano: Enrico Cuccia e, per estensione, la sua Mediobanca <498.
Nato il 24 novembre 1907 a Roma, il padre Beniamino era un funzionario del Ministero delle Finanze, mentre il nonno Simone era stato un noto avvocato della Piana di Mezzojuso, eletto nel 1882 in Parlamento per quattro legislature di fila. Assunto nel 1931 in Banca d’Italia, nel 1934 fu distaccato all’IRI, dove conobbe e sposò la figlia del suo primo presidente, Alberto Beneduce <499.
Per capire il peso che aveva acquisito negli anni, all’inizio del 1945 Cuccia fu inviato dal Governo Bonomi a Washington alla ricerca di soccorsi quando ancora non era finita la guerra e nel 1946 fu designato direttore della neonata Mediobanca, promossa dal patron della Comit Raffaele Mattioli.
Alla vigilia del ’68, Enrico Cuccia era uno dei pochi, se non l’unico, che conoscesse a menadito tutte le vicende dell’economia italiana: di fatto, era stato lui a gestire quasi tutte le operazioni che dai primi anni ’60 avevano segnato un nuovo assetto ai vertici del capitalismo privato e dato luogo, al tempo stesso, a vari suoi intrecci con il settore pubblico, in forte espansione. Quasi a voler interpretare alla lettera il nome del suo Istituto, Cuccia concepiva Mediobanca come un crocevia tra opposti interessi e al tempo stesso una stanza di compensazione fra questi due versanti del sistema economico italiano <500.
Cuccia si era convinto che la grande industria avrebbe finito con l’andare incontro a un inesorabile declino qualora avesse continuato a insistere nella sua vetusta linea condotta, prestando il fianco alla progressiva offensiva dei sindacati e del PCI e alle incursioni delle industrie pubbliche in mano alla DC, cosa che avrebbe comportato anche un declino delle tradizionali funzioni di raccordo tra settore industriale e finanziario dell’economia svolte dalla sua Mediobanca.
Fra i suoi interlocutori a quel tempo figuravano i rampolli delle principali dinastie industriali italiane, dai Pirelli agli Agnelli. Con l’Avvocato in particolare il sodalizio, iniziato nel 1961, divenne molto forte: nel 1967 Cuccia favorì l’alleanza tra l’IFI, il braccio finanziario degli Agnelli che controllava la Fiat, e il gruppo Lazard, tramite il finanziare franco-americano André Meyer, e grazie al talento e all’abilità del direttore di Mediobanca, le partecipazioni dell’IFI avevano più che raddoppiato il loro valore, tanto da presentare oltre l’11% del capitale azionario del sistema industriale italiano <501. Quando poi l’anno successivo la Fiat si era trovata a dover rafforzare la propria attività all’estero, Cuccia si era occupato della cessione di alcune società partecipate o controllate, così come anche dell’acquisizione della Magneti Marelli e della Lancia. Una rivincita da parte del finanziere di origini siciliane che fino al 1966 era stato tenuto a debita distanza da Vittorio Valletta, che non ne aveva voluto sapere di fargli mettere il becco negli affari industriali torinesi.
Mediobanca aveva assunto anche un ruolo sempre più rilevante nelle vicende della Montedison, di cui favorì la nascita, pur contrastando le mire espansionistiche in altri settori dell’economia di Giorgio Valerio, dal 1936 alla guida della Edison e, dopo la fusione con la Montecatini, Presidente e al tempo stesso amministratore delegato del nuovo colosso della chimica.
[NOTE]
491 Martinelli, op.cit., p. 255.
492 Ibidem.
493 Ivi, p. 257.
494 Petrillo, op.cit., p. 1021.
495 Ivi, p. 1022
496 Ibidem
497 Ivi, p. 1023
498 La figura di Cuccia è approfondita in CASTRONOVO, V. (2010). Cento anni di imprese. Storia di Confindustria 1910-2010, Roma-Bari, Laterza, p. 436 e ss.
499 Citato in Addio al grande vecchio della finanza italiana, La Repubblica, 23 giugno 2000
500 Castronovo, op.cit., p. 436
501 Ivi, p. 437
Pierpaolo Farina, Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020