[…] «Usciamo come da una vita subacquea. Un silenzio ottuso e minaccioso s’era fatto attorno a noi, le voci non giungevano più al nostro orecchio, né gli inviti né i richiami. Mondi nuovi nascevano, si schiudevano, vivevano, e noi, attraverso il silenzio e il buio fondo, appena ne sospettavamo l’esistenza». Per chi in passato ha letto queste righe, anche se possono essere trascorsi molti anni, è difficile dimenticare questa metafora del mondo subacqueo che si trova nelle prime righe della premessa che apre il primo numero di “Mercurio”, nel settembre 1944. Lo scritto, firmato “Mercurio”, è attribuibile ad Alba de Céspedes, la partigiana “Clorinda”, una scrittrice che all’epoca aveva al suo attivo due romanzi (Io, suo padre, 1936, e Nessuno torna indietro, 1938) e tre raccolte di racconti (L’anima degli altri, 1935, Concerto, 1937, e Fuga, 1940)4. A torto considerata una scrittrice sentimentale e “leggera”, Alba de Céspedes si era apertamente dimostrata anticonformista e antifascista; nel 1935 era stata arrestata e imprigionata per alcuni giorni perché intercettata al telefono mentre criticava l’intervento militare in Etiopia, e all’inizio del conflitto mondiale aveva raggiunto una certa celebrità, anche per le attenzioni che la censura fascista aveva dedicato a Nessuno torna indietro. Come molti intellettuali era stata sorpresa a Roma dalla notizia dell’armistizio e, in cerca di una liberazione, soprattutto interiore, se ne era allontanata cercando di attraversare la linea del fronte. Nei suoi diari, che definisce «strategie di resistenza individuale», de Céspedes racconta che a Roma, dopo l’8 settembre, l’aria si è fatta irrespirabile e la vita stravolta dal terrore. La comunità intellettuale italiana aveva vissuto in maniera contraddittoria la fine del fascismo, c’era stato un sincero entusiasmo che, immediatamente, aveva dovuto misurarsi con i limiti della società italiana. Le pagine dei diari di Corrado Alvaro sono ricche di note che sottolineano l’emergenza del problema morale e le difficoltà di una società che, come, come scrisse efficacemente Primo Levi, aveva imparato a convivere con la dittatura che «aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici». Nel luglio 1943, Alvaro scrive nel suo diario, che costituisce una delle prime scritture della Resistenza: «Grande è stato il numero dei curiosi andati nei quartieri colpiti a “vedere il bombardamento”. A San Lorenzo, le balilla erano piene di ragazze in gita a visitare le rovine. Portavano fazzoletti eleganti legati sotto il collo, alla contadina, com’è di moda». Pochi giorni dopo un altro bombardamento, il 21 e il 22 luglio. «Lontano, razzi illuminanti, e il tonfo delle bombe. La gente, sulle alture del Pincio e sulle terrazze, sta a “vedere lo spettacolo”». Corrado Alvaro, che era stato uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, promosso nel 1925 da Benedetto Croce, era riuscito a ingannare la censura fascista riuscendo a pubblicare nel 1938, con poche modifiche, il romanzo L’uomo è forte, una delle più chiare e profonde analisi letterarie del totalitarismo europeo. L’ambiguità dell’ambientazione gli consentì di sostenere la tesi che fosse ambientato in Russia, e quindi poté superficialmente passare come una critica al comunismo, ma un’attenta lettura del testo consente di vedere descritte le forme espressive di ognuno dei totalitarismi che si stavano affacciando alla guerra mondiale. Una lettura che non sfuggì alla censura nazionalsocialista che ne proibì la pubblicazione in Germania. Per molti versi L’uomo è forte è il primo romanzo italiano apertamente antifascista e che riesce a descrivere come la dittatura sia capace di entrare nella vita quotidiana e giungere a modificare anche i rapporti sentimentali tra le persone, assumendo quella dimensione totalitaria che sarà poi descritta con pienezza nel 1984 di Orwell.
Dalle pagine dei diari di Alvaro e di de Céspedes dedicate al periodo tra il 25 luglio e l’8 settembre si coglie un forte accento al risveglio etico e la progressiva messa a fuoco del problema della responsabilità della società italiana nei confronti della dittatura e della guerra. La parodistica e frettolosa caduta del fascismo aveva mostrato la fragilità del tessuto sociale italiano e l’immediata autoassoluzione che le classi dominanti stavano mettendo pubblicamente in atto. L’euforia di un’illusoria fine della guerra in Italia, ben presto frustrata dall’invasione tedesca e dalla liberazione di Mussolini, corrisponde all’inizio di un processo di rimozione collettiva delle colpe e a un progressivo oblio riguardo al diffuso consenso verso il fascismo, ai crimini di compiuti da militari e civili italiani in Africa Orientale e Libia, all’intervento militare contro la Repubblica spagnola, alle leggi razziali, all’aggressione alla Grecia, ai campi di concentramento in Yugoslavia, alla politica di sterminio etnico applicata nei Balcani. Per coprire tutto questo, importanti apparati di intelligence avevano lavorato con largo anticipo rispetto all’8 settembre, come documenta Filippo Focardi nel suo saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano, creando quell’immagine edulcorata che serviva a giustificare l’opportunistico cambiamento di alleanze e a rendere possibile l’improvvisa guerra contro l’invasore tedesco. Le prime scritture della Resistenza partono dalla denuncia di questo goffo opportunismo e preludono all’inevitabile tragedia della Repubblica sociale. I diari di Alvaro raccolgono frasi e commenti sulla borghesia romana, incapace di pensare a rapporti sociali diversi da quelli con cui si era ubriacata per vent’anni. «Straordinaria facoltà degli italiani di vedere i particolari, appigliarsi al cavillo, senza pensare ai fatti, alle cose generali», e tra questi fatti generali c’è anche il senso di responsabilità. A una cena Alvaro notava che i suoi commensali sono unicamente tormentati da possibili conseguenze sulle loro persone, nulla li tormenta per ciò che ha consentito il loro fanatismo e la loro povertà ideale. «Le stazioni climatiche dell’Alta Italia – continuava Alvaro – si riempiono di fuggiaschi della ricca borghesia». Mentre la classe dirigente iniziava la sua tattica di sopravvivenza all’occupazione nazifascista della capitale, «in questo stato d’inerzia si raccontano leggende di fatti accaduti altrove, atti di coraggio, iscrizioni sui muri, più in là, in un altro quartiere, non si sa dove, ma in qualche luogo dove si immagina la gente sia ancora viva e abbia volontà e capacità di azione. Generalmente se ne dà il vanto ai quartieri popolari, Trastevere o Testaccio». L’8 settembre Alvaro è in strada a Roma. «Un tale, cui non avevo mai sentito dire nulla di impressionante, mi dice semplicemente: “Comincia una tragedia che costerà la vita a centinaia di migliaia di italiani”». Incontra due soldati con il fucile a tracolla fermi in strada, «mentre la città convulsa ribollisce», sono stati mandati via dalle caserme e non sanno dove andare, cacciati dai loro superiori. L’Ambasciata di Germania è affollata dai fascisti romani, accompagnati dalle amanti e dai confidenti. «Un bersagliere, un povero bersagliere, si è messo a sparare come un pazzo da un carro armato italiano rovesciato, solo, in piedi, ed è stato ucciso facilmente dai tedeschi».
La reazione dei letterati antifascisti all’invasione tedesca è diversificata, molti di loro avevano raggiunto un punto di equilibrio con il regime, alcuni erano stati imprigionati o mandati al confino, altri, come Mario Soldati, avevano pubblicato sotto falso nome, e tutti erano alle prese con una censura ottusa e clientelare. Con l’occupazione tedesca di Roma, molti percorsero la strada attraverso l’Abruzzo: Alba de Céspedes; Mario Soldati e Dino de Laurentis passarono il Garigliano; Alberto Moravia e Elsa Morante riuscirono a raggiungere la Ciociaria; Alberto Savinio si rifugiò a Forte dei Marmi; Corrado Alvaro riparò a Chieti sotto falso nome, Leone Ginzburg iniziò la lotta clandestina con Giustizia e Libertà, mentre Natalia Ginzburg si nascose a Firenze; Vasco Pratolini, con il nome di “Rodolfo Casati”, partecipò alle azioni partigiane fra Ponte Milvio e Tor di Quinto, come capo sezione del Partito comunista clandestino; Guido Piovene venne ospitato con Leonida Repaci dalla scrittrice Flora Volpini. Il tema della fuga dei letterati si presta a molteplici riflessioni, ma è qui interessante seguire il percorso di Alba de Céspedes perché da Bari a Napoli, fino a Roma prende corpo il progetto di riunire gli intellettuali italiani in un percorso etico e politico che sia in grado di accompagnare la lotta che si sta organizzando nell’Italia centro-settentrionale. Il 15 settembre, a Roma, aveva scritto, mentre in strada si sentiva sparare forte, «non importa come e dove, ma a testa alta», e l’abbandono di Roma non avvenne per vigliaccheria, ma per raggiungere il più presto possibile un luogo dove lottare. A Bari, alla fine del 1943, dirige la trasmissione Italia combatte, rivolta ai partigiani, e La voce di Clorinda, in cui racconta le sue esperienze e la realtà che il quel momento la nazione divisa stava vivendo. Ed è a maggio del 1944, a Napoli, che nasce la decisione di creare “Mercurio”, una rivista che «fosse punto d’incontro e di scontri tra politica e cultura, tra guerra e rappresentazione» come ricorderà Gino de Sanctis, che ne era stato il capo redattore, negli anni successivi. A Napoli, de Céspedes aveva incontrato Benedetto Croce che stava supervisionando “Aretusa”, diretta da Francesco Flora, la prima rivista culturale dell’Italia liberata, ma “Mercurio”, con la liberazione di Roma, raggiungeva la capitale.
Il primo numero di “Mercurio” è tirato in 10.000 copie, una diffusione straordinaria se si pensa al razionamento della carta, alla difficoltà dei collegamenti e al fatto che, al Nord, si stanno svolgendo gli avvenimenti più drammatici della guerra di Resistenza […]
Domenico Gallo, Le prime storie della Resistenza, Academia.edu